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giovedì 29 settembre 2011

Unico 2011 e riporto perdite fiscali

Unico 2011 e riporto perdite fiscali

Dalle perdite sistemiche al nuovo regime per le società di capitali, fino alle perdite per le società di comodo. Tutti i controlli da fare prima dell’invio entro il 30 settembre

L’ultimo giorno utile per inviare l’Unico 2011 è ormai alle porte, il 30 settembre. Nella compilazione, vanno tenute in considerazione le perdite fiscali pregresse.
In tema di riporto perdite, la disciplina si ritrova da una parte nel DL 78/2010 e dall’altra nelle recenti manovre estive varate dal Governo per fronteggiare la difficile situazione economica.

Dl 78/2010- In primo luogo, occorre sottolineare come la Finanziaria 2010, il DL 78/10 prevede le cosiddette perdite sistemiche di una società, quelle cioè prodotte per due esercizi consecutivi che non sono dipendenti dai compensi erogati a favore di soci e amministratori. Queste perdite sistemiche fanno scattare controlli da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Perdite sistemiche e Unico 2011- Nel modello Unico 2011, prossimo all’invio, occorre neutralizzare i compensi a soci e amministratori e se risulta comunque la perdita sistemica, la possibile soluzione è valutare un aumento del capitale.

Legge n. 111/2011- Nella manovra estiva 2011, l’art. 23, comma 9, modificando l’art. 84 del Tuir, in tema di riporto delle perdite fiscali, abbatte il limite temporale per il riporto e ne introduce uno quantitativo, ossia la riportabilità delle perdite prevista nei limiti dell’80% del reddito prodotto in ogni esercizio. La novità entra in vigore con l’Unico 2012 sì, ma occorre comunque verificare in maniera attenta e precisa la data delle perdite pregresse che vengono inserite nell’apposito Quadro RS. Se risultano così perdite relative ai primi tre esercizi sociali, sono queste che, non subendo il limite dell’80%, saranno riportate in avanti in via prioritaria.

Manovra bis- Infine, il DL 138 /11 la cosiddetta manovra di Ferragosto individua dei nuovi parametri per l’identificazione dal 2012 come società non operative, quelle imprese che producono perdite fiscali per tre esercizi successivi, 2009/2011 ovvero dichiarino un reddito inferiore a quello minimo e producono una perdita uguale per due anni di fila.

Società di comodo e Unico 2011- La società rimane esclusa dalla definizione di ente non operativo, così come introdotto dalla manovra bis, sia nel caso dichiari un reddito inferiore a quello minimo in due esercizi e la perdita nel’altro, sia quando dichiari un reddito superiore a quello minimo in due esercizi consecutivi. Risulta invece come non operativa dal 2012, quindi società di comodo a tutti gli effetti, se in due esercizi, la società produce perdite e nel terzo anno invece dichiari un reddito inferiore a quello minimo.
Autore: Redazione Fiscal Focus

Raddoppio dei termini. È lesa la neutralità dell’accertamento?

Raddoppio dei termini. È lesa la neutralità dell’accertamento?

Raddoppio dei termini. Tra le proroghe che consentono all'Amministrazione finanziaria eventuali indagini finanziarie per un periodo più ampio rispetto a quello ordinariamente previsto per l'accertamento, troviamo il raddoppio dei termini per la decadenza dell'azione di accertamento in presenza di un reato tributario, anche se la constatazione della violazione penale è stata effettuata quando già i termini ordinari di accertamento erano decaduti.

Ctp Napoli. Con riferimento al raddoppio dei termini in presenza di fattispecie penalmente rilevanti, la Commissione Tributaria di Napoli ha rimesso alla Consulta la legittimità costituzionale della previsione introdotta con il Dl 223/2006.
Secondo la Commissione Tributaria, le modifiche apportate dal Dl 223/2006 porterebbero ad avere un sistema non più neutro, affidabile ed oggettivo dei termini di decadenza per la notificazione degli atti di accertamento.

La questione sollevata dalla commissione tributaria di Napoli aveva ritenuto che la illegittimità si avesse in particolar modo nei casi in cui la segnalazione di reato per una violazione fiscale fosse stata effettuata in data successiva rispetto al termine di decadenza ordinario dell'accertamento tributario per quel medesimo periodo; in tal modo si verificherebbe una riapertura dei termini.

Corte Costituzionale, sentenza n. 247/2011. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 247 del 25 luglio 2011, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale per violazioni degli articoli 24, 27, 97 e 3.
La Consulta ha ritenuto questo raddoppio dei termini pienamente legittimo perché, in sostanza, non si tratta di una “riapertura o proroga di termini scaduti” né di “reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti”, ma di termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, ovvero l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, senza che all’Amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione.

In altre parole, i termini raddoppiati operano autonomamente allorché sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000.
Non si tratta di un allungamento del periodo stabilito in via ordinaria, ma di un termine nuovo e autonomo rispetto allo stesso, applicabile tutte le volte in cui si sia in presenza dei requisiti imposti dalla norma per la sua applicabilità.

Ratio. La Consulta ha, inoltre, sottolineato la ratio legis del termine raddoppiato, ovvero dotare l’Amministrazione finanziaria di un maggiore lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari.

Circolare Assonime (20/2011). Il raddoppio dei termini, secondo la circolare Assonime (20/2011), non attiene ad una presunta fattispecie di rilevanza penale distinta dalle altre violazioni tributarie ma all'accertamento tout court. Insomma il raddoppio dei termini prescinde dal giudizio penale di merito, può derivare anche da attività avviate concretamente in prossimità della scadenza dei termini.
Secondo la Circolare, il regime non è altro che un effettivo e generale raddoppio dei termini dell'azione di accertamento. E tale raddoppio dei termini vanifica la neutralità delle procedure, sicché appare irragionevole e contrario all'affidamento del contribuente.

Le penali contrattuali sono deducibili dall’azienda

Le penali contrattuali sono deducibili dall’azienda

Sentenza del 27 settembre 2011

Cassazione, sentenza del 27 settembre 2011. Secondo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con una sentenza del 27 settembre 2011, sono deducibili le penalità pagate dalle aziende per la violazione degli obblighi contrattuali.

Vicenda. Con ricorso, l’Agenzia delle Entrate aveva chiesto di escludere la deducibilità delle penalità pagate da un’immobiliare per la ritardata consegna degli appartamenti dati in locazione.
L’ufficio assumeva l’indeducibilità di dette penalità in quanto, essendo fondate sull’inosservanza di obblighi contrattuali, avrebbero natura sanzionatoria.

Deducibilità. Per la Cassazione, le spese e gli altri componenti negativi, di norma, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito.
In altri termini, un costo può essere deducibile del reddito di impresa se e in quanto sia funzionale alla produzione del reddito stesso.
La correlazione tra costo e reddito è stata esclusa con riferimento al pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente.
Il beneficio fiscale, pertanto, non può essere accordato neanche nel caso di pagamento di sanzioni quali quelle antitrust.

Penalità contrattuali. Cosa diversa sono, invece, le penalità contrattuali stabilite per le ritardate consegne ai clienti.
“Le penalità previste in un contratto per ritardata consegna sono, in tesi generali, deducibili in quanto inerenti l’attività di impresa”, è il principio espresso in sentenza.

Infatti, la clausola penale mira soltanto a determinare preventivamente il risarcimento dei danni in relazione all'ipotesi pattuita, che può consistere nel ritardo o nell'inadempimento. “È dunque, un patto accessorio del contratto con funzione sia di coercizione all'adempimento, sia di predeterminazione della misura del risarcimento in caso d'inadempimento”.
In altri termini, la clausola penale non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva, ma assolve la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tant'e che, se l'ammontare fissato nella clausola penale venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o uno sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta.
Per questo, “si e ritenuto che deve escludersi che la clausola penale possa essere ricondotta all'istituto nord-americano dei "punitive damages", avente una finalità sanzionatoria e punitiva che è incompatibile con un astratto sindacato del giudice sulla sproporzione tra l'importo liquidato e il danno effettivamente subito”.
Ciò comporta il superamento delle tesi che attribuivano alla penale anche carattere sanzionatorio e punitivo.

Agevolazioni fiscali alle cooperative: non sempre sono aiuti di Stato

Agevolazioni fiscali alle cooperative: non sempre sono aiuti di Stato

Corte di Giustizia CE, sentenza 08/09/2011. La Corte di Giustizia UE, con la sentenza 8 settembre 2011, si è pronunciata in merito alle agevolazioni fiscali per le cooperative italiane come aiuti di Stato, sostenendo che le stesse sono qualificabili come aiuti di Stato solo nel caso in cui si determinino contemporaneamente una serie di condizioni.

Questione. La questione è nata dal dubbio interpretativo nel confronto tra la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato e la normativa tributaria italiana sulle agevolazioni fiscali concesse alle società cooperative.
Le cause presentate al giudizio della Corte riguardano, infatti, le esenzioni fiscali riconosciute alle società cooperative da parte del legislatore tributario nazionale.

Il contesto normativo di riferimento. La circolare della Commissione europea del 10 dicembre 1998 ha fornito delucidazioni sulla disciplina normativa degli aiuti di Stato in materia di tassazione diretta delle imprese. La comunicazione del 23 febbraio 2004 della Commissione ha, invece, fornito precisazioni sulla disciplina delle cooperative presentando misure volte a promuovere lo sviluppo delle cooperative nel territorio dei singoli Stati membri.

Società cooperative - Normativa italiana.
L’art. 45 della Costituzione sottolinea il carattere della mutualità e la funzione sociale delle cooperative.
Gli artt. da 10 a 14 del D.P.R. n. 601 del 1973 disciplinano tale forma societaria, in particolare:
• artt. 10 e 11: disciplinano il prelievo impositivo sulle cooperative agricole e della piccola pesca nonché quelle di produzione e lavoro;
• art. 12: tratta del trattamento dei redditi, ai fini fiscali, delle società cooperative di produzione e lavoro;
• art. 14: vengono descritti i requisiti e i presupposti necessari affinchè una cooperativa possa godere del trattamento fiscale agevolato.

Le condizioni – Normativa comunitaria. Per la Corte di Giustizia, ai fini della corretta interpretazione della questione sollevata è necessario individuare le condizioni per far rientrare le agevolazioni fiscali alle società cooperative nella definizione di aiuto di Stato.
Tali condizioni sono:
• quella di sovvenzione statale,
• di selettività,
• di effetti di distorsione del mercato e della concorrenza.

In relazione alla sovvenzione statale alla misura agevolata i giudici hanno ritenuto che, nel caso di specie, si trattasse di un mero finanziamento statale.
In merito alla selettività della misura, è stato osservato che, nel sistema di tassazione delle società cooperative, il calcolo della base imponibile rispecchia quello previsto per le altre tipologie di impresa. Trattandosi, però, di cooperative è prevista un’agevolazione fiscale in virtù del fine mutualistico perseguito.
Quanto agli effetti di distorsione della concorrenza e del mercato, per inquadrare una misura come aiuto di Stato non è necessaria l’effettiva incidenza dell’aiuto sugli scambi o sul mercato.

L’aiuto di Stato. Per la Corte Europea non è sufficiente valutare lo scopo perseguito per stabilire se si è in presenza o meno di aiuto di Stato. Occorre, infatti, “valutare se la misura di esenzione fiscale risponda a un criterio di carattere generale inserito nel contesto dell’intero sistema tributario italiano, senza dimenticare che l’imposta non versata, dalle cooperative di produzione e lavoro, ricade e aggrava i singoli soci della cooperativa stessa”.

La pronuncia della Corte. In conclusione, i giudici europei hanno stabilito che per inquadrare una misura come aiuto di Stato occorre il contemporaneo verificarsi delle condizioni indicate nella normativa comunitaria (articolo 87, n. 1, CE), come sopra richiamate.

In altri termini, le misure di esenzione fiscale riconosciute alle società cooperative per poter essere considerate aiuti di Stato devono soddisfare le condizioni della disciplina comunitaria sugli aiuti.
Mentre, i relativi dubbi interpretativi devono essere sciolti dal giudice nazionale.

 

L’acquiescenza rende definitivi i recuperi tributari

L’acquiescenza rende definitivi i recuperi tributari

Acquiescenza. L'acquiescenza si verifica quando il contribuente rinuncia ad impugnare l'avviso di accertamento, ovvero a formulare istanza di accertamento con adesione, entro il termine previsto per la proposizione del ricorso, ossia entro 60 giorni dalla notifica dell'avviso.
In sostanza, se si ritiene corretto quanto indicato nell’avviso di accertamento si può decidere di pagare l’importo preteso entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell'atto.
L’acquiescenza si concretizza, dunque, nel versamento degli importi scaturenti dall'avviso di accertamento entro il termine di presentazione del ricorso.
In tal caso, l'atto si definisce e ne è confermata la legittimità.

L'acquiescenza si perfeziona mediante un comportamento concludente del contribuente, consistente nel versamento delle somme dovute entro il termine di proposizione del ricorso, tenendo conto delle riduzioni di sanzioni spettanti.
Tuttavia, questa circostanza potrebbe riflettersi anche per anni d'imposta successivi, quando il comportamento è reiterato.
In tali casi, l’acquiescenza renderebbe difficile la contestazione di eventuali avvisi di accertamento successivamente notificati, contenenti le medesime contestazioni ma riferite a differenti periodi d'imposta.

Ctr Friuli Venezia Giulia, sentenza 70/10/11. Anche la parziale acquiescenza all'accertamento rende immediatamente definitivi i recuperi tributari non contestati dal ricorrente. Dal comportamento del contribuente emerge, infatti, la volontà di non avvalersi delle impugnazioni tributarie previste nei tre gradi di giudizio. Sono queste le conclusioni espresse dalla Ctr Friuli Venezia Giulia nella sentenza 70/10/11.

Decisione. Nel caso di specie, il nodo della questione è capire se vi è stata acquiescenza o meno all'accertamento, se cioè l'atto è stato impugnato in toto ovvero in parte soltanto.
Per la Commissione, se la ricorrente impugna solo alcuni rilievi, tutti gli altri diventano definitivi una volta presentato il ricorso.
Per contro, i recuperi impugnati sono oggetto di acquiescenza soltanto quando la sentenza passa in giudicato.
Il termine ultimo per formare e notificare il ruolo è sempre lo stesso e coincide col 31 dicembre del secondo anno successivo decorrente dal termine iniziale previsto dall'articolo 25, comma 1, lettera c), del Dpr 602/73.

contenzioso tributario: ipoteca

Ipoteca: competenza del giudice tributario

Atti impugnabili in Ctp. Il comma 26-quinquies dell'articolo 35 del Dl n. 223 del 2006 (convertito in legge n. 248 del 2006) ha aggiunto all'articolo 19, comma 1, del Dlgs n. 546 del 1992, due ulteriori ipotesi di atti impugnabili di fronte alle Commissioni tributarie:
1. l'iscrizione di ipoteca sugli immobili (art. 77 del Dpr n. 602 del 1973 e successive modificazioni);
2. il fermo di beni mobili registrati (art. 86 del Dpr n. 602 del 1973 e successive modificazioni).
Il nuovo testo dell'articolo 19, comma 1, del Dlgs n. 546 del 1992, è entrato in vigore a partire dal 12 agosto 2006, pertanto si applica a tutti i ricorsi presentati a partire da tale data.

Iscrizione di ipoteca. L'iscrizione ipotecaria costituisce un diritto reale di garanzia avente a oggetto i beni immobili del debitore, che consente al creditore procedente di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato dall'espropriazione (art. 2808 c.c.).

Competenza del giudice tributario. La novità, dunque, introdotta nel sistema processuale è che il giudice "naturale" chiamato a conoscere delle questioni relative ad iscrizione ipotecaria non è più il giudice civile dell'esecuzione, bensì il giudice tributario.

Nella prassi, il concessionario comunica al debitore l'iscrizione effettuata. A questo punto, occorre stabilire quali censure il contribuente potrà sollevare dinanzi alla Commissione tributaria.

Se la comunicazione dell'iscrizione di ipoteca non costituisce il primo atto notificato al contribuente-debitore, sarà applicabile l'articolo 19, comma 3, del Dlgs n. 546 del 1992, laddove afferma che "ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri". In sostanza, il contribuente potrà far valere esclusivamente i vizi relativi all'iscrizione ipotecaria e non quelli riguardanti la pretesa sostanziale.

Se la comunicazione dell'iscrizione di ipoteca costituisce il primo atto attraverso il quale il contribuente viene a conoscenza della pretesa tributaria, sarà applicabile la stessa norma, ma nella parte in cui dispone che: "la mancata notificazione degli atti autonomamente impugnabili adottati precedentemente all'atto notificato ne consente l'impugnazione unitamente a quest'ultimo".

In conclusione, la modifica normativa ha determinato un ampliamento della competenza del giudice tributario. Tuttavia, al fine di individuare quali vizi il contribuente potrà denunciare dinanzi alle Commissioni tributarie, occorrerà guardare alle prime pronunce giurisprudenziali.

martedì 27 settembre 2011

Credito annuale IVA, istanza di rimborso in UNICO 2011

iva

Credito annuale IVA, istanza di rimborso in UNICO 2011

Il contribuente è tenuto a compilare il nuovo quadro VR della dichiarazione entro il 30 settembre

/ Martedì 27 settembre 2011
C’è tempo sino alla conclusione del mese, per richiedere la restituzione dell’eccedenza detraibile maturata, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, nel corso del periodo d’imposta 2010. La relativa domanda deve essere formulata, a dispetto del passato, direttamente nella dichiarazione annuale IVA, mediante la redazione del quadro VR, introdotto in sostituzione del previgente modello cartaceo. È appunto questa la principale novità della dichiarazione, approvata lo scorso 18 gennaio, con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate.
La modifica dell’adempimento dovrebbe, pertanto, porre fine ai dubbi interpretativi sorti in passato, con riferimento alla legittimità della richiesta di rimborso mediante il modello VR, nel caso di omissione della dichiarazione annuale. La fattispecie ha, infatti, formato oggetto di diverse pronunce della Corte di Cassazione, anche recentemente: la sentenza n. 19529 del 23 settembre 2011 ha, infatti, ribadito il mantenimento del diritto al rimborso del credito IVA, derivante da fatture regolarmente annotate nel relativo registro e dalla conseguente liquidazione periodica, a prescindere dalla presentazione della dichiarazione annuale (Cass. n. 21947/2007, 16477/2004 e 1823/2001), coerentemente con l’art. 18 della VI Direttiva CEE. In altri termini, l’adempimento formale della dichiarazione annuale è stato ritenuto decisivo ai soli fini dell’accertamento del tributo, senza intaccare – sotto il profilo fiscale sostanziale – il credito del contribuente (Cass. n. 6134/2009).
La problematica in parola viene, ora, meno per effetto dell’inclusione nella dichiarazione annuale del quadro VR, sostitutivo del previgente modello cartaceo: con l’effetto che il diritto al rimborso è riconosciuto soltanto qualora il contribuente compili il quadro VR, che presuppone necessariamente la presentazione della relativa dichiarazione: diversamente, non è configurabile una valida istanza di rimborso del credito annuale IVA.
Tale adempimento può essere assolto in sede di trasmissione in forma autonoma oppure del modello UNICO 2011, entro il 30 settembre, compilando, in primo luogo, il rigo VR1: nel campo 1, deve essere indicato l’importo di cui si chiede il rimborso, così come risultante dal rigo VX4, ovvero – nel caso di dichiarazione unificata con quella dei redditi – dall’ammontare dei corrispondenti righi del quadro RX del modello UNICO, salvo il caso di predisposizione da parte del soggetto controllante dell’IVA di gruppo. Il campo 2 deve essere, invece, compilato unicamente da quei contribuenti, non assoggettati a procedura concorsuale ed ancora in attività (C.M. n. 84/1998), che si avvalgono della procedura semplificata di rimborso tramite l’agente della riscossione: al ricorrere di tale ipotesi, deve essere riportato il corrispondente ammontare del credito per il quale opera la riscossione agevolata, nel limite complessivo di 516.456,90 euro – ovvero 1 milione di euro, nel caso dei subappaltatori che, nell’anno precedente, hanno registrato un volume d’affari costituito per almeno l’80% da prestazioni rese in esecuzione di contratti di subappalto (rigo RV7) – considerando, inoltre, le somme che sono state o saranno compensate nell’anno 2011.
Diritto al rimborso solo se si compila il quadro VR
Nel rigo VR2, deve essere barrata la casella corrispondente alla causa legittimante la richiesta di rimborso, da individuarsi tra quelle sopra illustrate, sulla base dell’art. 30, commi 2 e 3 del DPR n. 633/1972, quali, ad esempio:
- la cessazione dell’attività (“1”);
- l’esercizio esclusivo o prevalente di attività che comportano l’effettuazione di acquisti ed importazioni, per le quali è ammessa la detrazione, soggette ad un’aliquota media superiore a quelle delle operazioni attive maggiorata del 10% (“2”);
- l’effettuazione, nell’anno precedente, di operazioni non imponibili superiori al 25% dell’ammontare complessivo di tutte le operazioni compiute (“3”);
- l’istanza di restituzione riguardante gli acquisti e le importazioni di cespiti ammortizzabili, beni e servizi per studi e ricerche (“4”);
- la prevalenza di operazioni non soggette ad imposta, per carenza del presupposto della territorialità, a norma degli articoli da 7 a 7-septies del DPR n. 633/1972 (“5”).
I righi VR3 e VR4 sono previsti per consentire il raffronto strumentale alla richiesta di rimborso contemplata dall’art. 30, comma 4 del DPR n. 633/1972, ovvero nella misura del minor importo delle eccedenze detraibili dei periodi d’imposta dal 2008 al 2010: in tal caso, deve essere barrata la casella 4 del rigo VR2. Il rigo VR5 deve, invece, essere compilato dalle società che hanno operato la liquidazione dell’IVA di gruppo (art. 73, ultimo comma del predetto Decreto), qualora presentino eccedenze dell’ultimo triennio non trasferibili alla fiscal unit, in quanto maturate precedentemente all’ingresso in tale regime.
/ Sandro CERATO

Il condono delle liti pendenti vale come attenuante ai fini penali

Contenzioso

Il condono delle liti pendenti vale come attenuante ai fini penali

Di conseguenza, il contribuente/imputato può beneficiare del cosiddetto «patteggiamento»

/ Martedì 27 settembre 2011
La definizione delle liti pendenti introdotta dalla “manovra correttiva 2011” (art. 39, comma 12, del DL 98/2011) non è inibita dal fatto che nei confronti del contribuente indagato/imputato sia pendente un procedimento avente natura penale. Infatti, l’art. 16 della L. 289/2002, cui rinvia la norma appena citata, non contiene alcun riferimento all’eventuale avvenuto esercizio dell’azione penale, a differenza di ciò che era contemplato dagli artt. 7 e 15 della L. 289/2002.
Tuttavia, la definizione della lite ha effetto, sul versante penale, in merito ad altri aspetti, posto che il condono vale come circostanza attenuante ai sensi dell’art. 13 del DLgs. 74/2000 e, proprio per questo motivo, rende possibile il cosiddetto “patteggiamento”.
Tanto premesso, il condono non ha effetti di interruzione del processo penale eventualmente in corso, dal momento che quest’ultimo prosegue in virtù del “doppio binario”, né può essere considerato una confessione del contribuente.
Come anticipato, l’avvenuta conciliazione integra gli estremi della circostanza attenuante di cui all’art. 13 del DLgs. 74/2000, secondo cui le pene previste per i reati fiscali sono diminuite a un terzo se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari sono estinti mediante pagamento, “anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”.
L’adesione al condono dovrebbe integrare una “procedura conciliativa o di adesione all’accertamento” prevista dalle leggi tributarie, quindi la circostanza attenuante dovrebbe essere riconosciuta, al pari di ciò che avviene nella conciliazione giudiziale.
Un’eccezione potrebbe essere costituita dal condono su un atto irrogativo di sole sanzioni, siccome in tal caso, concernendo l’atto le sanzioni e non l’imposta, l’attenuante non può operare (lo stesso avviene quando il contribuente, ricevuto l’accertamento, definisce in via agevolata le sole sanzioni).
La definizione non è inibita dal rinvio a giudizio del contribuente
Vi è da dire che le considerazioni effettuate riguardano principalmente il delitto di cui all’art. 2 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) del DLgs. 74/2000, fattispecie in cui non è prevista alcuna soglia di punibilità. Nelle altre ipotesi, ad esempio la dichiarazione infedele ex art. 4 del DLgs. 74/2000, sono previste le soglie di punibilità, superiori al valore della lite (20.000 euro) al di sopra del quale, come prevede l’art. 39 comma 12 del DL 98/2011, il contribuente non può fruire del condono.
Per effetto delle modifiche apportate dalla legge di conversione del DL 138/2011 (L. 148/2011) all’art. 13 del DLgs. 74/2000, è ora previsto che, per i delitti tributari, l’applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444 c.p.p. (cosiddetto “patteggiamento”) operi solo in caso di integrazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 13 del DLgs. 74/2000.
Quindi, l’adesione al condono, che, come visto, può integrare la circostanza attenuante prevista dalla norma citata, ha l’ulteriore effetto di rendere possibile al contribuente/imputato di beneficiare del “patteggiamento” .
/ Alfio CISSELLO

Dal 2012, obbligo di reclamo per le controversie sotto i 20mila euro

contenzioso

Dal 2012, obbligo di reclamo per le controversie sotto i 20mila euro

Stando alle novità, il reclamo produce gli effetti del ricorso e deve essere redatto tenendo presenti le indicazioni fornite in manovra
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/ Martedì 27 settembre 2011
Le recenti novità normative emanate con le manovre estive portano gli operatori a prestare attenzione a una serie di adempimenti che, se non osservati, comportano l’applicazione di sanzioni. È il caso della redazione del reclamo, di cui recentemente si è interessata la circolare del Dipartimento delle Finanze n. 1/DF del 21 settembre 2011, in materia di contributo unificato (si veda “Contributo unificato, ecco l’attesa circolare del Ministero dell’Economia” dello scorso 22 settembre).
In estrema sintesi, va ricordato che l’articolo 39, comma 9, del DL n. 98/2011, a decorrere dal 1° aprile 2012, ha introdotto l’obbligo di presentare il reclamo per le controversie aventi ad oggetto atti emessi dall’Agenzia delle Entrate di valore non superiore a 20mila euro. Per valore della lite, al fine di verificare la connessione con le nuove regole, si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato. In caso di controversie riguardanti l’irrogazione di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste. Il reclamo può contenere una proposta di mediazione completa della rideterminazione dell’ammontare della pretesa.
Una volta presentato il reclamo, l’Ufficio, se non intende pervenire all’annullamento totale o parziale dell’atto né accogliere l’eventuale proposta di mediazione del contribuente, formula una controproposta di mediazione, tenendo conto dell’eventuale incertezza delle questioni controverse, del grado di sostenibilità della pretesa e del principio di economicità dell’azione amministrativa. Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza accordo sulla mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso. Nei successivi trenta giorni, dunque, il contribuente deve depositare un esemplare del reclamo presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale, al fine di costituirsi in giudizio ai sensi dell’articolo 22 del DLgs. n. 546/1992.
La previsione secondo la quale “il reclamo produce gli effetti del ricorso” induce a una riflessione. È chiaro che “l’assimilazione” al ricorso comporta che il contribuente debba già indicare nel reclamo tutti i motivi tendenti a contrastare l’operato dell’Ufficio. In sostanza, il reclamo deve contenere non solo l’intero “programma difensivo”, ma deve essere redatto tenendo presenti le nuove indicazioni che derivano dalle attuali manovre economiche circa il contenuto del reclamo stesso.
In particolare:
- l’articolo 37, comma 6, lettera q), del DL n. 98/2011 e l’articolo 2, comma 35-bis, lettera b) del DL n. 138/2011 dispongono che, se il difensore non indica il proprio indirizzo PEC e il proprio numero di fax ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale nell’atto introduttivo del giudizio (leggasi reclamo), il contributo unificato è aumentato della metà. Come chiarito dalla citata circolare, il soggetto obbligato a versare il contributo è colui che propone il reclamo, restando inteso che l’obbligo di pagamento del contributo insorge al momento del deposito del reclamo presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale;
- l’articolo 37, comma 6, lettera u), del DL n. 98/2011 stabilisce che il valore della lite debba risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso (leggasi reclamo) anche nell’ipotesi di prenotazione a debito. L’articolo 2, comma 35-bis, lettera c), del DL n. 138/2011 prevede che, in caso di omessa indicazione del valore della controversia nelle conclusioni del ricorso, si applichi il contributo unificato pari a 1.500 euro. Questa previsione è valida per i ricorsi notificati a decorrere dal giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del DL n. 138/2011, ossia dal 17 settembre 2011.
Nota di iscrizione a ruolo “completa” anche se è stato esperito il reclamo
Per completezza di argomento, si segnala che l’articolo 2, comma 35-quater, del DL n. 138/2011 obbliga il soggetto ricorrente a indicare, nel ricorso introduttivo del processo (leggasi reclamo), anche l’indirizzo PEC. Tuttavia, è disposto che la mancata o incerta indicazione dell’indirizzo non sia causa di inammissibilità del ricorso. La stessa norma, infine, obbliga il ricorrente a depositare, presso la segreteria della Commissione Tributaria adita, all’atto della costituzione in giudizio, la nota di iscrizione a ruolo, contenente l’indicazione delle parti, del difensore che si costituisce, dell’atto impugnato, della materia del contendere, del valore della controversia e della data di notificazione del ricorso. Si è dell’avviso che, a partire dal 1° aprile 2012, la nota debba contenere tali indicazioni anche se è stata esperita la procedura del reclamo.
Francesco BARONE

Comunicazione dei contratti di leasing, chiarimenti sull’obbligo

accertamento

Comunicazione dei contratti di leasing, chiarimenti sull’obbligo

Un comunicato dell’Agenzia ha precisato alcuni aspetti relativi ai dati di tali contratti, che vanno comunicati dalle società all’Anagrafe tributaria

/ Martedì 27 settembre 2011
Con un comunicato stampa diffuso ieri, l’Agenzia delle Entrate ha reso noto di aver fornito alcuni chiarimenti in materia di obbligo di comunicazione, da parte delle società di leasing finanziario e operativo, dei dati relativi ai contratti sottoscritti con i loro clienti, che vanno ad arricchire la base dati informativa dell’Anagrafe tributaria.
I chiarimenti sono stati forniti dalla Direzione Centrale Accertamento dell’Agenzia, in risposta ai quesiti giunti sulla comunicazione dei dati, in base a quanto disposto dal provvedimento del 5 agosto scorso (si veda “Nuovo obbligo comunicativo dei contratti di leasing” del 13 agosto 2011).
Si ricorda, infatti, che, per acquisire informazioni necessarie per l’accertamento sintetico dei contribuenti (c.d. “redditometro”), ai sensi dell’art. 38 del DPR n. 600/73, come modificato dall’art. 22 del DL n. 78/2010 (conv. L. 122/2010), tale provvedimento ha stabilito modalità e termini di comunicazione all’Anagrafe tributaria dei dati anagrafici dei clienti che hanno stipulato contratti di leasing, compreso il codice fiscale, del bene oggetto del contratto di leasing e dei corrispettivi nell’anno di riferimento.
Il provvedimento ha dato attuazione all’art. 7, comma 12 del DPR n. 605/73, in base al quale il direttore dell’Agenzia, ai fini dei controlli sulle dichiarazioni, può richiedere a pubbliche amministrazioni, enti pubblici, organismi e imprese di effettuare comunicazioni all’Anagrafe tributaria di dati e notizie in loro possesso.
In relazione all’ambito soggettivo di applicazione del provvedimento, la Direzione Centrale Accertamento ha chiarito che tra le società di leasing finanziario e operativo rientrano le banche e gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco generale ex art. 106 del TUB o in sue sezioni, che esercitano attività di leasing, nonché gli operatori commerciali che svolgono attività di locazione e/o noleggio.
Inoltre, l’Agenzia spiega che i soggetti obbligati a tale comunicazione sono esonerati dall’obbligo di comunicare le operazioni rilevanti ai fini IVA di importo non inferiore a 3.000 euro (c.d. elenco “clienti e fornitori”).
Per ciò che concerne l’ambito oggettivo, invece, viene precisato che sono interessati dalla comunicazione i contratti di leasing finanziario, quelli di leasing operativo, i contratti di locazione e quelli di noleggio, stipulati nei confronti di tutti i clienti, sia persone fisiche, sia persone giuridiche.
I beni oggetto dei contratti sono poi: autovetture, autocaravan, altri veicoli, unità da diporto e commerciali, aeromobili, immobili, beni mobiliari ecc.
A regime, la comunicazione va trasmessa entro il 30 giugno di ogni anno
Infine, in riferimento alle scadenze, si specifica che:
- a regime la comunicazione dev’essere trasmessa entro il 30 giugno di ogni anno, con riferimento ai contratti in essere nell’anno precedente (ad es., il 30 giugno 2012 con riferimento all’anno 2011);
- nel periodo transitorio, secondo le specifiche tecniche allegate al provvedimento del 5 agosto 2011, come modificate in base all’aggiornamento pubblicato ieri sul sito dell’Agenzia delle Entrate, entro il 31 dicembre 2011 sono obbligate a inviare la comunicazione, per i contratti in essere nelle annualità 2009 e 2010: le società di leasing che non sono state destinatarie del questionario ex art. 32 del DPR n.600/73; le società di leasing che, seppur destinatarie, non hanno ancora risposto al questionario; le società di capitali, non iscritte nell’elenco generale o in sue sezioni del TUB, relativamente ai contratti di locazione e di noleggio in essere nelle annualità 2009 e 2010.

Minimi: ancora nessun chiarimento

accertamento

Minimi: ancora nessun chiarimento

L’assenza di chiarimenti ufficiali determina incertezza tra i contribuenti nella scelta del regime applicabile dal 2012

/ Lunedì 26 settembre 2011
A distanza di quasi tre mesi dall’approvazione della manovra correttiva (DL 98/2011), con cui sono stati modificati i presupposti applicativi del regime dei contribuenti minimi, l’Agenzia delle Entrate non ha ancora fornito chiarimenti sugli aspetti “salienti” della nuova disciplina né, tantomeno, emanato gli annunciati provvedimenti attuativi.
Tale stato di cose determina incertezza nei contribuenti che, a fine anno, si troveranno a dover verificare se poter continuare a fruire di tale regime agevolato o meno, nonché nei soggetti che hanno iniziato (o si apprestano a farlo) una nuova attività d’impresa o professionale.

Innanzitutto, non risulta chiaro se il regime delle nuove iniziative produttive di cui all’art. 13 della L. 388/2000 potrà continuare ad essere applicato nel 2012, oppure debba intendersi implicitamente abrogato a partire dalla medesima data. L’art. 27 del DL 98/2011, infatti, afferma che gli attuali regimi forfetari sono riformati e concentrati allo scopo di favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani ovvero di coloro che perdono il lavoro. Sembrerebbe che la nuova disciplina “unifichi” i regimi forfetari in vigore, con conseguente inapplicabilità del “forfettino” dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni. Peraltro, l’assenza di un’espressa disposizione abrogativa dell’art. 13 della L. 388 ha fatto dubitare della suddetta interpretazione.
La necessità di chiarimenti è forte, poiché si tratta di un aspetto non di poco conto per i contribuenti. Si consideri, ad esempio, un soggetto che ha iniziato l’attività ad agosto 2011: nella convinzione di poter fruire del “forfettino” anche per il periodo successivo, lo stesso potrebbe effettuare acquisti di beni strumentali, conseguire ricavi/compensi, ecc. superiori ai limiti previsti per l’accesso al regime dei minimi. Qualora l’Amministrazione finanziaria chiarisse che, dal 2012, il regime non è più utilizzabile, il soggetto non potrebbe fruire di alcun regime agevolato, non avendo più i requisiti per essere “minimo”.
Inoltre, relativamente ai soggetti che applicano attualmente il “forfettino”, permangono dubbi sul passaggio da tale regime a quello dei “nuovi minimi”, già evidenziati su queste colonne in “Con i nuovi minimi, forfettini al buio” del 20 luglio 2011.
Limitazione del regime per età anagrafica
Altro aspetto poco chiaro riguarda la limitazione di fruibilità del regime legata all’età anagrafica. Si dispone, infatti, che, di regola, il nuovo regime dei minimi è applicabile per il periodo d’imposta in cui l’attività è iniziata e per i quattro successivi. Peraltro, l’applicabilità si estende anche oltre il quarto periodo d’imposta successivo a quello di inizio dell’attività, fino al periodo d’imposta di compimento del trentacinquesimo anno d’età.
Ciò posto, ci si chiede se un contribuente che inizi l’attività a 32 anni avvalendosi del regime dei minimi possa fruire del regime per cinque periodi d’imposta e, quindi, fino ai 36 anni, oppure debba fuoriuscire dal regime al termine del periodo d’imposta nel quale compie 35 anni, fruendone per soli 4 anni.
In attesa di chiarimenti al riguardo, sembra che le predette disposizioni siano in rapporto di regola ed eccezione. La regola generale dispone la fruizione del regime per un quinquennio a prescindere dall’età in cui si inizia l’attività; in via eccezionale, qualora, al termine di tale periodo, non siano stati ancora compiuti 35 anni, il contribuente può continuare ad utilizzarlo fino al 35° anno di età (incluso).
/ Paola RIVETTI

Costi «black list» in UNICO, lente sugli acquisti da stabili organizzazioni

Fiscalità internazionale

Costi «black list» in UNICO, lente sugli acquisti da stabili organizzazioni

In determinati casi tali costi devono essere indicati separatamente nel quadro RF, anche se non trovano posto negli «elenchi black list»

/ Lunedì 26 settembre 2011
Tra gli ultimi controlli da effettuare prima dell’invio di UNICO 2011 una particolare attenzione va posta alla corretta compilazione, nel quadro RF, dei righi relativi ai costi derivanti dalle operazioni effettuate con imprese residenti o localizzate in Stati a fiscalità privilegiata (art. 110, comma 10 del TUIR).
Gli elementi di novità non stanno tanto nella disciplina in sé, che è da qualche anno sostanzialmente stabile, ma nel rapporto di quest’ultima con gli obblighi di segnalazione delle operazioni con i paradisi fiscali introdotti dall’art. 1 del DL 40/2010 (c.d. “elenchi black list”), che per il 2010 sono limitati alle operazioni effettuate dal 1° luglio.
Relativamente alle operazioni passive (acquisti di beni e servizi da parte dell’impresa italiana), di regola ciò che è stato segnalato negli elenchi va anche indicato separatamente nel quadro RF. Tralasciando, infatti, per semplicità le problematiche connesse al momento di rilevazione negli elenchi delle operazioni, se si prende ad esempio un semplice caso di importazione di merce da Hong Kong o Singapore, essa è segnalata sia nelle comunicazioni presentate su base mensile o trimestrale, sia nel quadro RF del modello UNICO.
Occorre, però, prestare particolare attenzione alle situazioni in cui tale automatismo non si verifica. Una di queste è rappresentata dai rapporti con le stabili organizzazioni: si pensi, ad esempio, al caso degli acquisti che un’impresa italiana effettua da una stabile organizzazione svizzera di una società tedesca.
Applicando i principi contenuti nella prassi amministrativa dell’Agenzia delle Entrate (circolare n. 53 del 21 ottobre 2010, § 2.1; circolare n. 2 del 28 gennaio 2011, § 1.4), gli acquisti in questione non dovrebbero essere inseriti nelle comunicazioni delle operazioni con i paradisi fiscali presentate a norma dell’art. 1 del DL 40/2010.
Come rilevato dalle suddette circolari, infatti, ai fini dell’individuazione delle controparti estere si fa riferimento non allo Stato di localizzazione della stabile organizzazione, bensì a quello della casa madre (la stabile organizzazione, in altre parole, è a questi fini un soggetto “trasparente”); essendo la casa madre in Germania, le transazioni non devono essere monitorate.
Impostazioni differenti nelle stesse circolari dell’Agenzia delle Entrate
Per quanto riguarda, invece, l’indicazione separata dei costi nel modello UNICO, è opinione comune che l’art. 110, comma 10 del TUIR, nell’imporre l’indicazione separata delle operazioni con le “imprese residenti o localizzate” in Stati a fiscalità privilegiata, considera tali le stabili organizzazioni situate in uno Stato “black list”, anche se la casa madre ha sede in uno Stato a fiscalità ordinaria.
La stessa impostazione si rinviene nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 51 del 6 ottobre 2010 (§ 9.1), secondo la quale gli obblighi di indicazione separata dei costi nella dichiarazione dei redditi devono ritenersi estesi a tutti i rapporti commerciali posti in essere con imprese, e non solo con società, situate in Stati a fiscalità privilegiata, tra le quali devono quindi annoverarsi tutte le stabili organizzazioni ivi localizzate, indipendentemente dalla sede della casa madre.
In conclusione, in questi casi i costi sostenuti dall’impresa italiana:
- non devono essere segnalati nelle comunicazioni presentate ai sensi del DL 40/2010;
- devono essere, invece, esposti in modo separato nel quadro RF del modello UNICO (in aumento sempre e comunque, in diminuzione se l’impresa residente è in grado di dimostrare lo svolgimento di un’attività commerciale da parte dell’impresa estera, ovvero l’effettivo interesse economico della transazione e la sua concreta esecuzione).
La diversa impostazione tra i due ambiti impositivi non appare comunque fondata, e fornisce ulteriore supporto alle critiche che erano state poste alla circolare 53/2010 sulla supposta “trasparenza” della stabile organizzazione ai fini delle comunicazioni “black list” (impostazione che, però, è stata più volte confermata dall’Agenzia delle Entrate).
/ Gianluca ODETTO

Libro cespiti da compilare entro il 30 settembre

Scritture contabili

Libro cespiti da compilare entro il 30 settembre

Il termine coincide con quello per la presentazione del modello UNICO

/ Lunedì 26 settembre 2011
Il prossimo 30 settembre scade il termine per la compilazione del registro dei beni ammortizzabili da parte dei soggetti titolari di reddito d’impresa obbligati a presentare il modello UNICO entro la medesima data.
L’art. 16 comma 1 del DPR 600/73 stabilisce, infatti, che il registro in esame debba essere compilato entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno di riferimento.
Pertanto, ad esempio, una società di capitali con esercizio sociale che chiude il 31 dicembre deve effettuare le registrazioni relative al 2010 entro il 30 settembre 2011.
Data la prossimità della scadenza, si riepilogano di seguito le disposizioni relative alla tenuta del registro.
Come noto, nel registro dei beni ammortizzabili (o libro cespiti) devono essere indicati i beni assoggettabili ad ammortamento.
Gli elementi da riportare e le relative modalità di indicazione variano in relazione alla tipologia di bene.
Più in particolare, ai sensi dell’art. 16 comma 2 del DPR 600/73, occorre indicare l’anno di acquisizione, il costo originario, le rivalutazioni e le svalutazioni, il fondo di ammortamento (nella misura raggiunta al termine del periodo d’imposta precedente a quello di riferimento), il coefficiente di ammortamento effettivamente praticato nel periodo d’imposta, la quota annuale di ammortamento, le eliminazioni dal processo produttivo.
Per i beni immobili e beni mobili registrati (ad esempio, gli autoveicoli), le annotazioni devono essere eseguite per singolo bene, mentre, per i beni diversi dagli immobili e dai beni mobili registrati, il contribuente può scegliere di eseguire le annotazioni per categorie di beni omogenee per anno di acquisizione e coefficiente di ammortamento.
Analoga possibilità di raggruppamento è prevista per i beni materiali strumentali utilizzati per l’esercizio delle attività regolate di distribuzione e trasporto di gas naturale e di energia elettrica (art. 102-bis del TUIR). In questo caso, occorre fornire le stesse informazioni rese per i beni immobili e i beni mobili registrati, ma, a scelta del contribuente, le annotazioni possono essere eseguite per categorie di beni omogenee per anno di acquisizione e vita utile oppure per singolo bene.
In relazione ai beni gratuitamente devolvibili, oltre alle informazioni sopra riportate, deve essere distintamente indicata la quota annua che affluisce al fondo di ammortamento finanziario.
I costi di manutenzione vanno scritti separatamente
L’art. 16 comma 5 del DPR 600/73 stabilisce, inoltre, che i costi di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione non capitalizzati a incremento del costo del bene cui si riferiscono e non immediatamente deducibili in quanto eccedenti il limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili, quale risulta all’inizio dell’esercizio dal registro dei beni ammortizzabili (art. 102 comma 6 del TUIR) devono essere iscritti in voci separate del registro in esame, a seconda dell’anno di formazione. Gli stessi, quindi, non si sommano al valore dei beni cui si riferiscono.
Con riferimento al registro, la circolare ministeriale 30 aprile 1977 n. 7 ha chiarito che vi è la possibilità di riservare alcune pagine in bianco, quando si presume che siano necessarie per lo sviluppo degli ammortamenti. In questo caso, le pagine bianche devono essere espressamente intitolate al bene o alla categoria di beni cui sono riservate, con l’esplicita indicazione che si tratta di continuazione dello sviluppo dell’ammortamento del bene (o della categoria di beni) e il richiamo della pagina in cui è iscritto il bene (o la categoria di beni) medesimo.
Si ricorda, da ultimo, che il Legislatore ha introdotto nel tempo (DPR 435/2001 e DPR 695/96) specifiche semplificazioni in ordine alla tenuta del registro.
/ Silvia LATORRACA

Modello IVA 2011 «separato» per tutti i soggetti passivi

iva

Modello IVA 2011 «separato» per tutti i soggetti passivi

La circ. Assonime 24 illustra le novità su compilazione e presentazione, che può essere effettuata separatamente da quella delle imposte sui redditi

/ Sabato 24 settembre 2011
Approssimandosi il termine del 30 settembre per la presentazione della dichiarazione IVA annuale relativa al 2010, Assonime, con la circolare n. 24 di ieri, 23 settembre 2011, ha illustrato le principali novità del modello.
Tra di esse si segnala, innanzitutto, la generalizzazione della possibilità di presentare la dichiarazione IVA annuale separatamente da quella delle imposte sui redditi. In pratica, a partire da quest’anno, tale facoltà è stata estesa a tutti i soggetti passivi: non solo, cioè, a quelli che intendono compensare “orizzontalmente” o chiedere a rimborso il credito IVA annuale, ma anche a coloro che evidenzino un conguaglio annuale a debito o a saldo zero (circ. Agenzia delle Entrate n. 1/2011). Dato che la dichiarazione in via autonoma può essere presentata già dal 1° febbraio, i soggetti passivi che hanno adempiuto all’obbligo entro il 28 febbraio 2011 sono esonerati dalla presentazione della comunicazione dati IVA (art. 8-bis, comma 2, del DPR n. 322/1998).Passando ad esaminare le novità dei singoli quadri del modello IVA 2011, nel frontespizio – che va compilato solo quando la dichiarazione viene presentata in via autonoma – è stata eliminata la sezione denominata “Domicilio per la notificazione degli atti”, in quanto è con un’apposita comunicazione all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che va esplicitata l’intenzione del contribuente di farsi notificare gli atti o gli avvisi dell’Agenzia ad un indirizzo diverso da quello di residenza anagrafica. Riguardo al quadro VA (Informazioni sull’attività), nel rigo VA1 è stata soppressa la casella 6, prima riservata ai soggetti non residenti operanti in Italia attraverso una duplice posizione IVA, di cui una attribuita alla stabile organizzazione. Dal 26 settembre 2009, per effetto delle modifiche operate dal DL n. 135/2009, la stabile organizzazione in Italia del soggetto non residente preclude l’ulteriore identificazione, nella forma diretta, ex art. 35-ter del DPR n. 633/1972, ovvero per mezzo di un rappresentante fiscale.
Le modifiche al quadro VE (Operazioni attive e determinazione del volume d’affari) discendono dal recepimento, ad opera del DLgs. n. 18/2010, della Direttiva n. 2008/8/CE, in materia di territorialità delle prestazioni di servizi. I servizi intracomunitari che, fino a tutto il 2009, andavano fatturati in regime di non imponibilità (es. lavorazioni intracomunitari su beni mobili materiali, trasporti intracomunitari di beni e relative prestazioni accessorie e di intermediazione), dal 2010 – pur continuando ad essere fatturati (art. 21, comma 6, del DPR n. 633/1972) – sono esclusi da IVA in Italia in difetto del presupposto territoriale; tali servizi, da indicare nel nuovo rigo VE39, sono, pertanto, diventati irrilevanti ai fini sia della creazione del plafond e dell’acquisizione dello status di esportatore abituale, sia della formazione del volume d’affari (art. 20, comma 1, del DPR n. 633/1972).
Nel quadro VF (Operazioni passive e IVA ammessa in detrazione), relativamente alle operazioni da indicare nel rigo VF34 per il calcolo del pro rata di detrazione, è stato introdotto il campo 7. In esso vanno indicate le operazioni di natura finanziaria, bancaria e assicurativa, rese a soggetti extracomunitari o relative a beni destinati ad essere esportati in territorio extra-UE; si tratta delle operazioni che, fino a tutto il 2009, beneficiavano, dal lato attivo, del regime di non imponibilità di cui all’art. 9, comma 1, n. 12), del D.P.R. n. 633/1972 e, dal lato passivo, del diritto di detrazione. Dal 2010, tali operazioni, dal lato attivo, si qualificano come esenti e, dal lato passivo, mantengono il diritto di detrazione per effetto della “nuova” lett. a-bis), aggiunta al terzo comma dell’art. 19 del DPR n. 633/1972. Secondo Assonime, in tale campo vanno riportate solo le operazioni esenti territorialmente rilevanti in Italia; diversamente, l’importo delle operazioni escluse da IVA, ove fosse indicato, “andrebbe erroneamente ad elidere l’ammontare delle operazioni esenti che limitano il diritto di detrazione”.
Infine, il nuovo quadro VR, preordinato alla richiesta di rimborso dell’eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione, sempreché ricorrano i presupposti di cui all’art. 30 del DPR n. 633/1972, sostituisce il precedente modello VR, che i soggetti passivi dovevano presentare, in forma cartacea, all’Agente della riscossione per chiedere la restituzione del credito IVA annuale. Con l’inserimento del quadro VR all’interno della dichiarazione si eviterà, come finora accaduto, che l’Ufficio neghi il rimborso quando la relativa richiesta (modello VR) è stata omessa pur avendo indicato il credito IVA chiesto a rimborso nel rigo VX4 del quadro VX.
Particolari modalità di compilazione riguardano i soggetti “operativi”, tenuti ad attestare tale condizione barrando la casella contenuta nel rigo VR9, oltre che producendo un’apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio per dichiarare l’assenza dei requisiti che qualificano il contribuente come “di comodo”. I c.d. “contribuenti virtuosi”, esonerati dalla prestazione della garanzia in ragione delle condizioni di affidabilità e solvibilità soddisfatte, da attestare con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, devono invece barrare la casella 1 del rigo VR9 e indicare nel campo 2 l’importo erogabile senza garanzia.
/ Marco PEIROLO

Contributo unificato, dubbi anche dopo la circolare

Contenzioso

Contributo unificato, dubbi anche dopo la circolare

Il Ministero non ha chiarito bene il caso, importante per le società di persone, del processo con pluralità di parti

/ Sabato 24 settembre 2011
La circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha lasciato irrisolti vari problemi relativi all’applicazione del contributo unificato. Infatti, se i chiarimenti possono dirsi soddisfacenti in merito alla parte relativa ai controlli della segreteria nonché agli effetti dell’omesso/insufficiente versamento del contributo unificato, altrettanto non può essere sostenuto per la parte relativa sia alla debenza che alla quantificazione del contributo.
È palese che il contributo deve essere applicato quando si deposita il ricorso di primo grado o di appello, anche se, in quest’ultimo caso, sarebbero stati opportuni maggiori chiarimenti, dovuti al fatto che il contributo è pagato in base agli scaglioni di cui all’art. 13 del DPR 115/2002 (si veda sull’argomento “L’appello tributario deve fare «i conti» con il contributo unificato” del 17 settembre 2011).
Tanto premesso, a nostro avviso, pare che nella circolare il Ministero abbia commesso un errore dogmatico di fondo, e che tale errore si sia riverberato in merito alle successive affermazioni in tema di debenza del contributo.
Infatti, viene affermato che, ai sensi dell’art. 18 del DPR 115/2002, “sono soggetti a contributo unificato gli atti e i provvedimenti del processo tributario non soggetti all’imposta di bollo”: a ben vedere, l’art. 18 citato non dice proprio così, poiché viene sancito che gli atti del processo tributario, in quanto processo tassato secondo il sistema del contributo unificato, non sono soggetti a bollo.
Il presupposto impositivo, in altri termini, non è in alcun modo l’atto processuale, ma il grado di giudizio, come prevede a chiare lettere l’art. 9 del DPR 115/2002.
Da tale affermazione, il Ministero trae conclusioni poco convincenti su alcune situazioni, per così dire, marginali: infatti, si dice che il reclamo ex art. 28 del DLgs. 546/92 è soggetto a contributo, mentre non lo è l’atto di riassunzione a seguito di declinatoria di competenza. A nostro avviso, il reclamo non deve essere soggetto a contributo, per lo stesso motivo per cui il Ministero ritiene che non lo sia il richiamato atto di riassunzione: il contributo è già stato pagato all’atto del deposito.
Se il presupposto impositivo è il grado di giudizio (concetto non citato nella circolare), il contributo è dovuto in primo grado, in appello, in sede di rinvio, per la revocazione e per l’ottemperanza.
Volendo, letteralmente, accogliere la tesi del Ministero (“sono soggetti a contributo unificato gli atti e i provvedimenti del processo tributario non soggetti all’imposta di bollo”), tutti gli atti del processo tributario dovrebbero scontare il contributo.
Il presupposto impositivo è il grado di giudizio, non l’atto processuale
La scarsa coerenza di alcune affermazioni contenute nella circolare emerge, sempre a nostro sommesso avviso, in maniera abbastanza chiara quando si legge il motivo per cui i “motivi aggiunti” devono, in certe circostanze, essere assoggettati a contributo.
Si ricorda che l’art. 24 del DLgs. 546/92 consente l’integrazione dei motivi solo quando le altre parti hanno depositato documenti non conosciuti.
Il Ministero, invece, afferma che i “motivi aggiunti” ex art. 24, comma 4, del DLgs. 546/92 scontano il contributo “nei casi in cui configurino la proposizione di un nuovo ricorso avverso atti non indicati in quello introduttivo e depositati in giudizio”: ora, tale affermazione non sembra consona al modello processuale tributario attuale, ove con il ricorso si impugnano uno o più atti, e, al massimo, per effetto dell’art. 24 si integrano i motivi. Pare sconosciuta l’ipotesi in cui con i “motivi aggiunti” si configuri un nuovo ricorso contro atti non indicati in quello precedente.
Se, eventualmente, il Ministero avesse voluto fare riferimento al peculiare caso delle società di persone, avrebbe forse dovuto specificarlo, ma questo è un aspetto degno di un commento a parte.
Del pari, è poco comprensibile il motivo per cui dovrebbe essere soggetto a contributo l’intervento del terzo, ma non quando questo è chiamato in causa.
Ad ogni modo, sui suddetti argomenti, restano i dubbi, quindi si spera che il Ministero ritorni sull’argomento o che le singole segreterie emanino direttive specifiche sul tema.
/ Alfio CISSELLO

Tutela ristretta negli accertamenti «esecutivi»

Accertamento

Tutela ristretta negli accertamenti «esecutivi»

Ipoteca e fermo adottabili decorsi, nella maggior parte dei casi, 90 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento

/ Venerdì 23 settembre 2011
Man mano che si avvicina il sistema degli accertamenti “esecutivi”, i contribuenti devono fare mente locale sulle novità del neointrodotto sistema di riscossione, novità che, per certi aspetti, si profilano pregiudizievoli nei confronti dei contribuenti, in quanto, se rapportiamo il nuovo modello esattivo con quello pregresso, emerge che, ora, il fermo e l’ipoteca potranno essere disposti con maggiore celerità.
Occorre ricordare che l’adozione di un’ipoteca esattoriale può compromettere i rapporti con gli istituti di credito, specie se l’impresa accertata ha delle trattative in corso per la concessione di credito.
Sotto la vigenza del ruolo, l’accertamento veniva, in un primo momento, notificato al contribuente, e questi, se del caso, poteva presentare ricorso in Commissione tributaria. Poi, il funzionario formava il ruolo (per la totalità delle somme o per la metà/un terzo, a seconda del fatto che il contribuente avesse o meno presentato ricorso), lo validava in via informatica e lo consegnava ad Equitalia, che, a sua volta, doveva notificare la cartella di pagamento, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento aveva acquistato definitività.
Decorsi sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, il contribuente era considerato inadempiente, quindi l’Agente della Riscossione poteva disporre i fermi di beni mobili registrati e l’ipoteca, per tutelar il proprio credito, nonché disporre il pignoramento, che, tuttavia, era soggetto a termini prescrizionali, quindi suscettibili d’interruzione.
Il contribuente, dal canto suo, aveva davanti a sé due possibilità per evitare sia l’espropriazione sia l’adozione di fermi e ipoteche:
- chiedere la sospensiva al giudice tributario, possibile, secondo parte della giurisprudenza, solo nel momento in cui il contribuente riceveva la cartella di pagamento;
- chiedere la dilazione delle somme iscritte a ruolo, inibendo in tal modo le cautele (Equitalia, con la presentazione della domanda entro i sessanta giorni, sospendeva le attività esecutive/cautelari, che venivano “definitivamente” bloccate con il pagamento della prima rata).
Dal 1° ottobre cambia tutto, e anche in maniera radicale.
La Direzione provinciale emetterà l’avviso di accertamento, contro cui il contribuente potrà fare ricorso e, contestualmente, chiedere la sospensiva senza problemi di sorta.
Ciò, tuttavia, non sospende il termine per il pagamento delle somme, che deve avvenire entro il termine per il ricorso, quindi, di norma, entro sessanta giorni dalla notifica del provvedimento. Successivamente al decorso di trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, le somme (per l’intero o per un terzo, a seconda del fatto che sia stato o meno notificato il ricorso) verranno date ad Equitalia.
La domanda di dilazione non blocca né fermi né ipoteche
A questo punto:
- immediatamente, possono essere azionati i fermi di auto e le ipoteche, in costanza ovviamente dei presupposti di legge (ad esempio, l’ipoteca non è adottabile per crediti sino a 20.000 euro se il credito è contestato e l’immobile è adibito a prima casa del contribuente);
- decorsi 180 giorni dall’affidamento del credito, pertanto 270 giorni dalla notifica dell’atto, la sola espropriazione è sospesa (quindi ciò riguarda esclusivamente il pignoramento);
- il pignoramento va disposto, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento ha acquistato definitività.
Quindi, è ben difficile, data la ristrettezza dei tempi, che la sospensiva del giudice arrivi prima del momento in cui Equitalia può adottare ipoteche e fermi, in quanto dovrebbe giungere entro novanta giorni dalla notifica dell’accertamento.
Inoltre, la dilazione delle somme non potrà essere chiesta alla Direzione provinciale dopo la notifica dell’atto, ma, come ora, solo ad Equitalia, quindi quando il contribuente è già inadempiente: in breve, la domanda di dilazione non preclude nessun fermo e nessuna ipoteca, visto che viene presentata quando l’ipoteca è già adottabile.
Equitalia, tuttavia, con la prossima direttiva ove dovrebbero essere fornite le nuove linee guida per le dilazioni sugli accertamenti esecutivi, potrebbe prevedere che, ove il contribuente presenti domanda di dilazione subito dopo l’affidamento del credito, siano sospese le ordinarie cautele, in attesa del provvedimento di accoglimento e, soprattutto, della prima rata.
/ Alfio CISSELLO

CONTENZIOSO TRIBUTARIO : Condono sui processi compatibile con il diritto Ue

Contenzioso

Condono sui processi compatibile con il diritto Ue

Nessun problema per l’IVA, non è una rinuncia all’imposizione

/ Venerdì 23 settembre 2011
La Corte di Cassazione (sentenza n. 19333, depositata ieri) torna a pronunciarsi sulla compatibilità, con l’ordinamento comunitario, del condono IVA, con specifico riferimento alla definizione delle liti pendenti.
Infatti, la Suprema Corte stabilisce che in questa ipotesi lo Stato italiano non ha, di fatto, rinunciato all’imposizione, come avvenuto ad esempio nel “condono tombale”, confermando in tal modo quanto già detto con la precedente sentenza n. 3676 del 2010.
Per i giudici, la definizione delle liti pendenti segue una logica strumentale alla riduzione del contenzioso in atto, “secondo parametri rapportati allo stato della lite ed al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto, sulla base di un trattamento paritario tra contribuenti”.
Alla luce di tale ragionamento, l’art. 16 della L. 289/2002 non può essere disapplicato per contrasto con il diritto comunitario, anche perché i princìpi contenuti nella sentenza della Corte di Giustizia 17 luglio 2008 devono essere interpretati restrittivamente.
Questo discorso, sebbene riguardi, nello specifico, il condono del 2002, è tutt’altro che anacronistico, visto che il Legislatore, con l’art. 39, comma 12, del DL 98/2011, ha in sostanza riprodotto l’art. 16, circoscrivendone l’ambito di applicazione.
Lo stesso discorso dovrebbe valere per il condono 2011
Ora, per le cause pendenti al primo maggio scorso, il contribuente può fruire del condono delle liti in presenza di due condizioni:
- l’atto deve essere stato emesso dall’Agenzia delle Entrate, quindi può riguardare l’IVA;
- il valore della lite non deve essere superiore a 20.000 euro, intendendosi per valore l’ammontare dell’imposta contestata in giudizio, al netto di sanzioni e interessi.
Peraltro, se, ove la questione sulla compatibilità con il diritto Ue finisse di nuovo in Corte di Cassazione, è ragionevole prevedere che i giudici non si discostino dall’orientamento richiamato, a nostro avviso non può essere altrettanto scontata la presa di posizione della Corte di Giustizia, che non si è ancora pronunciata ex professo sul punto.

giovedì 22 settembre 2011

Servizi verso l’estero

ilcasodelgiorno

Servizi verso l’estero con verifica multipla

Nelle prestazioni di servizi «generiche», il fornitore nazionale deve compiere alcuni accertamenti per determinare il trattamento IVA dell’operazione

/ Giovedì 22 settembre 2011
Le prestazioni di servizi “generiche” rese da operatori economici nei confronti di soggetti passivi sono territorialmente rilevanti ai fini IVA nel luogo in cui il destinatario ha stabilito la propria attività. L’accertamento delle menzionate caratteristiche è demandato agli stessi soggetti coinvolti nell’operazione, secondo regole fissate dal Legislatore o dalla singola Amministrazione fiscale. In particolare, il regolamento del Consiglio Ue n. 282/2011, di rifusione del precedente Regolamento n. 1777/2005, ha previsto alcune disposizioni volte a garantire i soggetti coinvolti nelle prestazioni di servizi transnazionali, con particolare riguardo alla figura del prestatore adempiente, il quale è ora tenuto all’accertamento dello status, della qualità e del luogo di stabilimento del committente.
Tali caratteristiche devono essere valutate esclusivamente al momento del fatto generatore dell’imposta (articolo 25 del Regolamento Ue n. 282/2011), cioè, in sostanza, al momento di effettuazione dell’operazione secondo la normativa nazionale, da individuarsi in base ai criteri di cui all’art. 6 del Decreto IVA. Un diverso trattamento fiscale può aversi, invece, nel caso di iniziale versamento di un acconto con previsione di un determinato impiego del servizio (ad esempio, per fini privati) e successivo pagamento del saldo, in presenza, tuttavia, di una diversa utilizzazione dello stesso (ad esempio, per fini d’impresa), nel qual caso si applicherà un regime IVA differenziato con riferimento ai due diversi momenti (circ. Agenzia delle Entrate n. 37/2011).
Tanto premesso, il prestatore del servizio dovrà innanzitutto verificare che il committente sia un soggetto passivo IVA. A tal fine, occorre distinguere l’ipotesi in cui quest’ultimo sia appartenente alla Ue da quella in cui non lo sia.
Il prestatore Ue, qualora il committente Ue gli comunichi il proprio numero di partita IVA, sarà tenuto, per essere esonerato da ogni responsabilità (salvo che, naturalmente, possegga informazioni contrarie), semplicemente a verificare:
- la validità di tale numero mediante il sistema VIES;
- la corrispondenza del nome e dell’indirizzo comunicati in base alle disposizioni del Regolamento comunitario n. 904/2010, in vigore, tuttavia, soltanto dal 2012.
Laddove, poi, il committente non abbia ancora ottenuto il numero di partita IVA, ma abbia informato il prestatore di averne fatta richiesta, il prestatore potrà fare riferimento a qualsiasi prova fornita dal committente, fermo restando che il primo dovrà effettuare una verifica di ragionevole ampiezza, attraverso le normali procedure di sicurezza commerciali (controlli d’identità o di pagamento), dell’esattezza delle informazioni fornite dal committente. In assenza di elementi che dimostrino palesemente l’assenza di status di soggetto passivo, può attribuirsi rilevanza alla richiesta di attribuzione della partita IVA che il committente estero mette a disposizione del prestatore stabilito nel territorio dello Stato (circ. n. 37/2011). Nel caso in cui, invece, il prestatore dimostri che il committente non gli ha comunicato il suo numero individuale di identificazione IVA, egli può considerare il committente privo di soggettività passiva, salvo che, anche in questo caso, disponga di informazioni contrarie sullo status di quest’ultimo.
Laddove, poi, il committente sia un soggetto extra-Ue, il prestatore Ue per essere al riparo da ogni contestazione, posto che emette una fattura senza IVA ai sensi dell’art. 7-ter, comma 1, lett. a) del DPR n. 633 del 1972, deve ottenere dal committente extra-Ue il certificato attestante il diritto al rimborso ai sensi della tredicesima direttiva (Direttiva 86/560/CEE - Modalità di rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti nel territorio della Comunità). In mancanza di tale certificato (che peraltro è rilasciato solo da un limitato numero di Paesi, come ad esempio Israele, Svizzera e Norvegia), il destinatario dovrà disporre di un numero di partita IVA o di un altro numero identificativo equivalente attribuitogli dal Paese di stabilimento o, comunque, dovrà fornire al prestatore qualsiasi altra prova attestante il proprio status di soggetto passivo. L’esattezza delle informazioni fornite dovrà, poi, essere verificata dal prestatore attraverso le normali procedure di sicurezza commerciali, quali quelle relative ai controlli di identità o di pagamento.
Eseguita questa prima valutazione, il committente dovrà, poi, verificare se il committente stia acquistando il servizio per destinarlo alla propria attività economica o esclusivamente a uso privato, dal momento che, in quest’ultimo caso, lo stesso dovrà considerarsi soggetto non passivo ai fini della individuazione del luogo di imposizione dell’operazione. Tuttavia, nell’ipotesi in cui il destinatario abbia comunicato al prestatore il proprio numero di partita IVA, quest’ultimo può senz’altro considerare che i servizi siano destinati all’attività economica del destinatario anche in caso di effettiva destinazione ad uso privato, salvo che non disponga di informazioni contrarie (art. 19 del Regolamento n. 282/2011), come ad esempio la natura del servizio di fatto incompatibile per un utilizzo commerciale. Inoltre, in caso di servizi compatibili sia con la sfera privata sia con la veste di soggetti passivi, il prestatore potrà chiedere al committente non comunitario anche gli elementi necessari a giustificare la mancata applicazione dell’imposta secondo il criterio generale B2B (circ. n. 37/2011). Nell’ipotesi, poi, di servizi unici, destinati cioè sia ad uso privato, ivi compreso quello reso ai dipendenti del destinatario, sia a fini commerciali, il destinatario dei servizi dovrà essere considerato soggetto passivo per l’intera prestazione ricevuta (in assenza, tuttavia, di pratiche abusive).
Ricordiamo, al riguardo, che società, enti, associazioni o società semplici devono essere sempre considerate, a tali fini, soggetti passivi, salvo l’ipotesi in cui il servizio sia destinato a un uso privato delle persone che fanno parte di tali organizzazioni ovvero dei dipendenti delle stesse (ancora circ. n. 37/2011). L’esercizio di attività imprenditoriale, artistica o professionale non è, invece, sufficiente nel caso in cui il committente sia una persona fisica, per cui in questa ipotesi il prestatore del servizio sarà tenuto a effettuare una valutazione di compatibilità complessiva, al fine di verificare che il servizio sia acquistato nell’esercizio di tale attività.
Successivamente, il prestatore dovrà determinare il luogo di stabilimento del committente verificando l’esattezza delle pertinenti informazioni (tra le quali il numero di identificazione IVA), ricevute dal committente attraverso le normali procedure di sicurezza commerciale (controlli di identità o di pagamento).
Ricordiamo, infine, che il prestatore riveste un ruolo importante anche con riferimento alla verifica della circostanza che, in relazione alla prestazione di servizio eseguita nello Stato membro del committente, non sia dovuta l’imposta poiché, ad esempio, considerata esente o non imponibile in base alla legislazione locale. A tal fine, l’operatore italiano sarà esente da responsabilità circa la qualificazione dell’operazione (e la conseguente non inclusione della stessa negli elenchi INTRASTAT) laddove richieda e ottenga dal committente Ue una dichiarazione in cui quest’ultimo afferma che la prestazione è esente o non imponibile nel suo Paese di stabilimento (circ. Agenzia delle Entrate n. 43/2010).
Tale dichiarazione è valida per tutte le prestazioni della stessa specie dallo stesso ricevute, e rimane tale fino a che non vi siano cambiamenti per quanto concerne il trattamento fiscale delle stesse nel Paese del committente o le caratteristiche del servizio reso. In mancanza di tale dichiarazione, il soggetto IVA nazionale potrà essere esentato dall’obbligo di presentazione degli elenchi INTRASTAT esclusivamente nell’ipotesi in cui abbia la certezza, in base ad elementi di fatto obiettivi, che con riferimento alle stesse non è dovuta l’imposta nello Stato membro del committente.
/ Lelio CACCIAPAGLIA e Francesco D'ALFONSO

Contributo unificato, ecco l’attesa circolare del Ministero dell’Economia

Contenzioso

Contributo unificato, ecco l’attesa circolare del Ministero dell’Economia

Il contributo è dovuto per i ricorsi, gli appelli sia principali sia incidentali e per il neointrodotto giudizio di reclamo

/ Giovedì 22 settembre 2011
Ieri, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha emanato la tanto attesa circolare esplicativa sulle modalità di applicazione del contributo unificato, operante, come noto, a partire dai ricorsi notificati dallo scorso 7 luglio 2011.
Le specificazioni del Ministero sono alquanto interessanti, specie per ciò che concerne le modalità con cui le segreterie delle Commissioni tributarie appurano la correttezza del contributo versato, in quanto pare che il contribuente che, per errore, abbia sbagliato nella determinazione del valore, quindi nell’entità del contributo, non sia immediatamente sanzionato.
Prima di tutto, viene giustamente chiarito che il contributo si applica per i ricorsi notificati dal 7 luglio 2011, non avendo rilievo il deposito del ricorso presso la segreteria della Commissione.
Tra gli atti che scontano il contributo unificato la circolare rammenta:
- i ricorsi di primo grado;
- i ricorsi in appello principali e incidentali;
- il ricorso in ottemperanza;
- il neointrodotto reclamo, ove la procedura “conciliativa” non abbia avuto esito positivo, quindi nel caso in cui il contribuente, a causa di ciò, provveda al deposito del ricorso;
- il reclamo di cui all’art. 28 del DLgs. 546/92, avverso il decreto presidenziale di inammissibilità del ricorso.
Per contro, non scontano il contributo, ad esempio, le richieste di sospensione dell’atto impugnato, ancorché notificate separatamente dal ricorso, così come i neointrodotti reclami notificati all’Agenzia delle Entrate (come detto, il contributo, in questo caso, è dovuto solo se ci si costituisce in giudizio, successivamente alla fase di mediazione).
In riferimento all’appello, viene specificato che l’imposta è dovuta dalla parte soccombente, e che, in caso di soccombenza parziale, in sostanza entrambe le parti devono versare il contributo, il che si verifica quando, successivamente all’appello principale, l’appellato propone appello incidentale (non viene affrontato il problema che deriva dagli scaglioni di valore della causa, si veda “L’appello tributario deve fare «i conti» con il contributo unificato” del 17 settembre 2011). Nulla, inoltre, viene detto sulla quantificazione del contributo per i ricorsi contro i provvedimenti di fermo e ipoteca (si veda su tal punto “Contributo unificato da chiarire nei ricorsi contro fermi e ipoteche” del 27 luglio 2011), nonché sui ricorsi in ottemperanza.
Segreterie clementi sull’immediata applicazione delle sanzioni
Invece, il Ministero chiarisce che sono cause di valore indeterminabile quelle contro i provvedimenti catastali e contro il diniego di iscrizione all’Anagrafe delle ONLUS, e che quindi il contributo si versa nella misura fissa di 120 euro. Molto importanti sono i chiarimenti relativi alla debenza del contributo ove il contribuente, ad esempio, impugni una parte dell’atto: se nel ricorso si contestano solo alcuni tributi, prestando, evidentemente, acquiescenza per gli altri, il contributo si paga solo sulla parte di atto oggetto di ricorso. Inoltre, in coerenza con il disposto normativo, il contributo è maggiorato della metà se difetta la casella PEC del difensore e il codice fiscale della parte (se il ricorso è proposto dalla parte personalmente, la maggiorazione concerne solo la mancata indicazione del codice fiscale).

Per le partite IVA inattive, niente cessazione di attività

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Per le partite IVA inattive, niente cessazione di attività

Ai fini della regolarizzazione, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che non è necessario presentare la dichiarazione di cessazione attività

/ Giovedì 22 settembre 2011
A ridosso della scadenza per la regolarizzazione della partite IVA inattive (coincidente con il 4 ottobre prossimo) e dopo diverso tempo dall’entrata in vigore della relativa disposizione (art. 23, comma 23 del DL 6 luglio 2011 n. 98), l’Agenzia delle Entrate interviene, con la risoluzione n. 93 di ieri, per dirimere le incertezze applicative relative alla sanatoria.
Un primo aspetto che viene esaminato riguarda la presentazione della comunicazione di cessazione attività ai fini IVA, quale adempimento ulteriore al versamento della sanzione ridotta di 129 euro.
Al riguardo, con il comunicato stampa dell’11 luglio 2011, l’Agenzia delle Entrate aveva indicato che “Nell’ottica della semplificazione non è necessario presentare anche la dichiarazione di cessazione attività, con il mod. AA7 (previsto per i soggetti diversi dalle persone fisiche) od il mod. AA9 (previsto per le imprese individuali e lavoratori autonomi), perché la chiusura della partita Iva verrà effettuata dall’Agenzia sulla base dei dati desunti dal modello F24 presentato” per il versamento della sanzione.
Successivamente, con la circolare 5 agosto 2011 n. 41 (§ 5), venne fornita una diversa indicazione: per l’operatività della sanatoria, entro il 4 ottobre 2011, oltre al versamento della sanzione in misura ridotta, sarebbe stato necessario presentare la dichiarazione di cessazione di attività (modelli AA9/10 o AA7/10), in deroga al termine ordinario di 30 giorni (allo stesso modo aveva disposto anche la Relazione illustrativa al DL 98/2011). Tale chiarimento era in linea con quello reso con riferimento alla precedente regolarizzazione delle partite IVA inattive realizzata nel 2004, prevista dall’art. 5 del DL 282/2002, conv. L. 27/2003. 
Con la risoluzione in commento, l’Agenzia ritorna alla posizione espressa con il comunicato di luglio. Viene precisato che la chiusura della partita IVA è effettuata sulla base dei dati ricavati dal modello di pagamento e che, per semplificare gli adempimenti ed evitare di richiedere informazioni già in possesso dell’Amministrazione, non sono posti a carico del contribuente ulteriori adempimenti. Conseguentemente, non è necessaria la presentazione:
- della copia del pagamento effettuato agli uffici dell’Agenzia delle Entrate (i dati dei pagamenti effettuati con il modello F24-Elementi identificativi, sia che vengano effettuati in modo telematico, sia presso banche o uffici postali, vengono acquisiti nel sistema informativo dell’Anagrafe Tributaria);
- della dichiarazione di cessazione attività con il modello AA7/10 o AA9/10, in quanto l’effettuazione del versamento nelle forme descritte sostituisce la presentazione della dichiarazione di cui all’art. 35 del DPR 633/72.
Si precisa, inoltre, che, per fruire della sanatoria, nei periodi successivi all’anno di effettiva cessazione dell’attività, il soggetto:
- non deve aver esercitato attività d’impresa o di arti e professioni;
- non deve aver effettuato alcuna operazione.

Il versamento sana le violazioni per omessa presentazione
Per quanto riguarda le violazioni degli obblighi dichiarativi relativi ai periodi successivi a quello di effettiva cessazione dell’attività (risultante dal modello di pagamento), viene precisato che il versamento della sanzione sana anche le irregolarità derivanti dalla mancata presentazione:
- delle dichiarazioni IVA;
- delle dichiarazioni dei redditi, limitatamente ai redditi d’impresa e di lavoro autonomo con importi pari a zero.

In ogni caso, qualora si accerti che nei predetti periodi il contribuente ha effettuato operazioni, ritorna piena la potestà sanzionatoria dell’Amministrazione.
/ Paola RIVETTI