Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

venerdì 24 febbraio 2012

Diritto societario Per la srl semplificata, occorre il decreto

Diritto societario

Per la srl semplificata, occorre il decreto

Secondo le Camere di Commercio, l’iscrizione al Registro delle imprese non può avvenire senza l’emanazione dello statuto standard della società
/ Mercoledì 22 febbraio 2012
L’art. 3 del DL n. 1/2012 ha introdotto per i giovani “under 35” un nuovo tipo di società, la società semplificata a responsabilità limitata di cui al nuovo art. 2463-bis c.c.
Semplificata, come noto, in punto regime agevolato previsto dal Legislatore per le formalità di costituzione.
Tale prescrizione – come già rilevato in un precedente intervento (si veda “Srl semplificate in Gazzetta, ma la norma è in «standby»” del 28 gennaio 2012) – già immediatamente operativa dal 24 gennaio 2012, data di entrata in vigore del DL 1/2012, è stata però di fatto limitata dallo stop dato dalle Camere di Commercio per l’iscrizione nel Registro delle imprese.
In attesa, infatti, del decreto attuativo che predisporrà lo statuto standard della società e che individuerà anche i criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci, sembra che le Camere di Commercio abbiano bloccato l’iscrizione nel Registro delle imprese di tale nuova tipologia societaria (si vedano le note informative diramate dalle Camere di Commercio, ad esempio, di Milano, Torino, Roma e Venezia).
Il decreto andrà emanato entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del DL n. 1/2012, termine per la conversione previsto per il prossimo 24 marzo 2012 e attualmente all’esame del Senato (A.S. 3110).
Secondo le Camere di Commercio, le domande presentate prima dell’emanazione del predetto decreto attuativo saranno così rifiutate.
Ma veniamo ai punti fondamentali della srl semplificata: avere meno di 35 anni e possibilità di prevedere un capitale sociale minimo di un euro quale importo di valore simbolico, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione.
Per la sua costituzione, con contratto o con atto unilaterale (quindi, la società può essere anche unipersonale), basta una scrittura privata da depositare nel Registro delle imprese entro 15 giorni a cura degli amministratori a mezzo della procedura di comunicazione unica, esente da bolli e diritti di segreteria. Nei 15 giorni successivi, il Registro delle imprese accerta le condizioni e iscrive (non per ora almeno) la società. In mancanza, il Giudice del Registro, adito da uno degli amministratori, verificata la sussistenza dei presupposti e ordina con decreto l’iscrizione.
A tal proposito, anche in considerazione della ratio sottesa alla norma, ossia favorire l’iniziativa imprenditoriale dei più giovani e meno abbienti tramite la partecipazione a strutture associative senza i limiti rigorosi previsti per le società di capitali, per la costituzione della società non dovrebbe occorrere l’intervento del notaio. L’atto costitutivo deve essere redatto per scrittura privata: pertanto, non servirebbe l’atto pubblico né la scrittura privata autenticata (così la Camera di Commercio di Venezia). È stato osservato, però, che sarebbe opportuna – stando alle osservazioni poste nella scheda di lettura al Ddl. di conversione del DL n. 1/2012 (A.S. 3110), elaborato dal Servizio Studi del Senato – una formulazione normativa più chiara, anche alla luce della portata generale dell’art. 11, comma 4, del DPR 581/95, ai sensi del quale l’atto da iscrivere nel Registro delle imprese deve essere depositato in originale con sottoscrizione autenticata se si tratta di scrittura privata non depositata presso un notaio e, negli altri casi, in copia autentica. Così, in sede di conversione in legge, si richiama la precisazione proprio di tale ultimo punto, e cioè se per il riferimento alla “scrittura privata” contenuta nell’art. 3 del DL 1/2012 debba intendersi la sufficienza della scrittura privata semplice o la necessità dell’autentica per l’iscrizione nel Registro delle imprese.
antiriciclaggio

Antiriciclaggio: per il professionista, approccio basato sul rischio

Il GAFI ha aggiornato le raccomandazioni, stabilendo che la corretta valutazione del rischio è determinante nell’adeguata verifica della clientela
/ Martedì 21 febbraio 2012
In materia di antiriciclaggio, cresce l’importanza dell’approccio basato sul rischio nell’ambito degli obblighi di adeguata verifica della clientela imposti al professionista dal DLgs. 231/2007. Lo conferma anche il GAFI, che lo scorso 16 febbraio ha pubblicato l’aggiornamento delle proprie raccomandazioni per fornire un efficace riferimento nel contrasto ai fenomeni del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo. Le nuove raccomandazioni, a cura della Financial Action Task Force (FATF), rafforzano obblighi e adempimenti in situazioni ad alto rischio, imponendo agli Stati membri un innalzamento del livello generale di allerta: in caso di valutazione negativa da parte del GAFI, il Paese “richiamato” rischierebbe, infatti, l’eliminazione dall’elenco degli Stati collaborativi. Dunque, ai soggetti obbligati all’adozione delle misure antiriciclaggio è richiesta – tra le altre cose – una maggiore efficacia dell’azione preventiva.
Molteplici sono gli input forniti nell’ambito delle 40 raccomandazioni aggiornate:
- maggiore trasparenza nelle compagini societarie, al fine sia di agevolare l’identificazione del cosiddetto titolare effettivo, cioè del soggetto che di fatto esercita il controllo, sia di rendere più difficile ai criminali e ai terroristi nascondere la propria identità o mascherare i propri beni per mezzo di entità o persone giuridiche;
- adempimenti rafforzati e più stringenti per l’individuazione e il controllo delle persone esposte politicamente (PEP);
- ampliamento della sfera dei reati presupposto di riciclaggio di denaro, ivi compresi i reati fiscali;
- miglioramento della cooperazione internazionale, che comprende lo scambio di informazioni tra le autorità competenti, nonché le indagini congiunte anche per il tracciamento, il sequestro e la confisca dei proventi illeciti;
- maggiori poteri e strumenti operativi sia per le unità di informazione finanziaria sia per le forze dell’ordine, al fine di potenziare le indagini sul riciclaggio di denaro e sul finanziamento del terrorismo;
- miglioramento dell’approccio basato sul rischio, che consente ai Governi e al settore privato di agire in modo più efficiente concentrandosi sulle situazioni ad alto rischio.
Proprio in relazione all’approccio basato sul rischio, vale la pena di ricordare che della materia si è recentemente occupata anche la Banca d’Italia (provvedimento del 2 febbraio 2012), che ha posto in consultazione un documento, destinato alle banche e agli altri intermediari finanziari destinatari della normativa antiriciclaggio, recante disposizioni attuative in materia di adeguata verifica della clientela (art. 7, comma 2 del DLgs. 231/2001). Sul tema era intervenuto fino ad oggi solo il CNDCEC, che, in assenza di disposizioni attuative degli obblighi imposti anche ai professionisti, nel 2008 aveva emanato le proprie Linee Guida (il cui ultimo aggiornamento risale al luglio 2011).
Le raccomandazioni GAFI e il documento di Bankitalia offrono lo spunto per formulare alcune riflessioni. In particolare, pare interessante rilevare come l’approccio basato sul rischio sia correttamente inquadrato come il “termometro” dell’adeguata verifica, dal momento che consente di valutare l’intensità e l’estensione dell’obbligo. In particolare, l’approccio basato sul rischio viene collocato da Bankitalia nell’ambito del principio di proporzionalità, ritenendo che la sua applicazione consenta di massimizzare l’efficacia dei presidi aziendali, di razionalizzare l’uso delle risorse e di ridurre gli oneri a carico dei destinatari.
Viene naturale chiedersi se ciò valga anche per i professionisti destinatari dell’obbligo: l’approccio basato sul rischio richiede la predisposizione di complesse misure la cui adozione, se ha indubbiamente senso all’interno di una banca, non ne ha altrettanto nell’ambito di uno studio professionale. Ad ogni modo, in entrambi i casi identici sono i fattori soggettivi (connessi al cliente) e oggettivi (connessi all’operazione) da considerare ai fini della valutazione del rischio di riciclaggio, in modo da consentire una profilatura della clientela all’esito della quale ciascun cliente è incluso in una specifica classe di rischio precedentemente definita.
A tale scopo, il metodo logico seguito nel provvedimento in esame è lo stesso posto alla base delle Linee Guida CNDCEC, con le dovute differenziazioni motivate dalle maggiori possibilità di utilizzo, da parte degli intermediari finanziari, di sistemi anche complessi di segmentazione della clientela in classi di rischio. Nel documento di Bankitalia si parla, infatti, di procedure strutturate di raccolta e di elaborazione dei dati e delle informazioni: la raccolta può avvenire mediante percorsi guidati o questionari, l’elaborazione mediante algoritmi predefiniti e procedure informatiche. In maniera analoga, seppure a titolo meramente esemplificativo, le Linee Guida CNDCEC propongono una procedura elementare per l’attribuzione di un punteggio espressivo del grado di rischio di riciclaggio da associare a ciascun cliente, nel tentativo di “standardizzare” in qualche modo un obbligo che ben poco si accorda con l’attività normalmente svolta dal professionista.
Diritto societario

Per i sindaci, prescrizione dal momento del danno

Incompatibile l’art. 2393 comma 4 c.c. che autorizza l’esercizio dell’azione di responsabilità entro 5 anni dalla cessazione dell’amministratore
/ Venerdì 24 febbraio 2012
Il termine di prescrizione (quinquennale) per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità nei confronti dei sindaci decorre dal momento in cui il danno si è verificato. A precisarlo è il Tribunale di Lecce in una sentenza dello scorso 9 dicembre.
Il curatore del fallimento di una srl, dichiarata fallita il 15 settembre 2004, agiva, con atto di citazione notificato il 9 settembre 2008, nei confronti dell’amministratore unico e dei componenti del collegio sindacale della stessa. In particolare, a fronte di un patrimonio netto che sarebbe stato negativo già dal 31 dicembre 2001 – con integrazione di un virtuale stato di scioglimento che avrebbe dovuto precludere la prosecuzione dell’attività imprenditoriale – si chiedeva il risarcimento delle perdite accumulate a partire dal 2002. I sindaci eccepivano, tra l’altro, la prescrizione dell’azione sociale di responsabilità.
Il Tribunale di Lecce osserva, in primo luogo, come su tale argomento la situazione risulti ben delineata con riguardo agli amministratori. L’art. 2393, comma 4 c.c., infatti, in relazione agli amministratori di spa, stabilisce che l’azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dalla carica. In materia di amministratori di srl non esiste una disposizione analoga, ma, dal punto di vista sostanziale, la situazione risulta identica operando la causa di sospensione della prescrizione prevista dall’art. 2941 n. 7 c.c. (in base al quale il termine di prescrizione quinquennale resta sospeso tra le persone giuridiche ed i loro amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi).
Più complessa si presenta la situazione relativa ai sindaci. Nei loro confronti, infatti, come sottolineato da Cass. 12 giugno 2007 n. 13765, non trova applicazione il ricordato art. 2941 n. 7 c.c. Occorre, quindi, stabilire se, per effetto di una serie di richiami normativi, sia possibile applicare anche ai sindaci l’art. 2393, comma 4 c.c.
In particolare, bisogna verificare se, per effetto del richiamo operato dall’art. 2407 comma 3 c.c. (ai sensi del quale “all’azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395”), a sua volta richiamato in materia di srl dall’art. 2477 comma 5 c.c., possa applicarsi anche ai sindaci l’art. 2393 comma 4 c.c. che ricollega il decorso della prescrizione alla “cessazione dell’amministratore dalla carica”.
La risposta fornita dal Tribunale è negativa. La permanenza in carica dell’amministratore rappresenta un ostacolo all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità contro i sindaci soltanto quando la loro responsabilità derivi da mancata vigilanza sul comportamento degli amministratori e non anche quando si sia in presenza di altri addebiti, imputabili in via esclusiva ai componenti del collegio sindacale: in quest’ultimo caso non vi sarebbe alcuna ragione di ordine logico e/o giuridico per escludere il decorso della prescrizione per tutto il tempo in cui gli amministratori rimangono in carica.
Va applicata la regola generale di cui all’art. 2935 c.c.
Né è possibile, poi, pensare di interpretare la norma forzando il dato letterale ovvero ricollegando la decorrenza della prescrizione alla “cessazione dalla carica” non già dell’amministratore, ma dei sindaci medesimi. Infatti, tenuto conto del fatto che questi – a differenza degli amministratori, i quali, ad esempio, potrebbero ritardare la convocazione dell’assemblea competente ad autorizzare l’esercizio dell’azione – hanno ben poche possibilità di ostacolare l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, inutile sarebbe la sospensione della prescrizione per tutto il tempo in cui rimangono in carica.
Deve, quindi, escludersi che sia compatibile con l’azione di responsabilità contro i sindaci l’art. 2393, comma 4 c.c., con conseguente applicazione della regola generale di cui all’art. 2935 c.c. ovvero con decorrenza della prescrizione quinquennale dal momento in cui il danno si sia verificato (in senso contrario, peraltro, si è espresso il medesimo Tribunale di Lecce con sentenza del 25 novembre 2011).
Nel caso di specie, la curatela chiedeva il risarcimento dei danni costituiti dalle perdite accumulatesi a partire dal 2002 (dal momento che, dal 31 dicembre 2001, il patrimonio netto sarebbe stato negativo). A fronte di un atto di citazione (interruttivo del decorso della prescrizione) notificato il 9 settembre 2008, allora, avrebbero potuto costituire oggetto di risarcimento i danni verificatisi nei cinque anni precedenti (dal 9 settembre 2003), con prescrizione per quelli anteriori. Ma l’attività risultava definitivamente cessata prima del settembre 2003. Veniva, quindi, dichiarata la prescrizione dell’azione sociale di responsabilità nei confronti dei sindaci.
ilcasodelgiorno

Utili extracontabili attribuibili ai soci se l’accertamento alla società è definitivo

Nell’attesa che il reddito accertato in capo alla società diventi definitivo, i giudici di merito devono sospendere il giudizio nei confronti del socio
/ Venerdì 24 febbraio 2012
I giudici di merito devono sospendere il giudizio nei confronti del socio di società di capitali a ristretta base partecipativa nell’attesa che diventi definitivo il reddito accertato in capo alla società stessa. Lo conferma l’ordinanza n. 1867 dell’8 febbraio scorso della Corte di Cassazione, pronunciatasi in merito all’annosa questione della presunta attribuzione di utili extrabilancio distribuiti ai soci.
L’ordinanza merita attenzione poiché, si spera, mette fine al procedimento eseguito dall’Amministrazione finanziaria, che emette, in ogni caso, gli avvisi di accertamento nei confronti dei soci come conseguenza del maggior reddito accertato sulla società.
Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte riguarda un accertamento effettuato nei confronti di una società di capitali. Sulla base di detto accertamento e del presupposto che l’ente si considera a ristretta base azionaria, l’Agenzia delle Entrate emette un avviso di accertamento nei confronti del socio, recante un maggior reddito di partecipazione. Espletato il primo grado di giudizio, la Commissione tributaria regionale annulla l’accertamento della società. Pur non essendo il giudizio definitivo, i giudici di secondo grado annullano anche l’atto riguardante il socio.
Contro questa sentenza, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassare la sentenza della Regionale, rilevando che questa erroneamente ha annullato l’accertamento in capo al socio in conformità ad una pronuncia non definitiva. Ancora, l’Ufficio ritiene che i giudici d’appello avrebbero dovuto sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., dove è disposto che il giudice sospende il processo “in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. Nel caso di specie, bisognava attendere che il giudizio della società, quindi, divenisse definitivo.
I giudici della legge hanno accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, stabilendo che la Commissione d’appello ha erroneamente considerato definitiva la sentenza emessa nei confronti della società, tanto da ritenerla valida per annullare l’accertamento, per lo stesso anno, del socio della stessa. Per il caso in esame e sulla base dell’ormai pacifico principio, i giudici di merito avrebbero dovuto sospendere il giudizio nei confronti del socio, in attesa della definizione del reddito della società a ristretta compagine sociale.
Le controversie di questo genere si possono facilmente riscontrare nel “panorama” del contenzioso tributario. Infatti, spesso, l’Ufficio, richiamando nelle motivazioni dell’avviso di accertamento alcune sentenze di Cassazione, peraltro superate, imputa pro quota il reddito accertato ai soci della società a ristretta base azionaria, sulla legittimità della presunzione di distribuzione di utili non contabilizzati, ma riscontrati in sede di accertamento sulla società stessa. In più, non dimostra l’effettiva percezione di questi dividendi da parte dei soci. In sostanza, nella motivazione dell’atto si considera (presunzione semplice) che la società è costituita a ristretta base sociale, ma manca del tutto uno specifico accertamento probatorio che attesti l’iter logico-giuridico che porta l’Ufficio ad esprimersi in tal senso.
La giurisprudenza di legittimità, in proposito, detta un principio corretto: gli utili extracontabili accertati nei confronti di una società di capitali a base ristretta e/o familiare possono essere legittimamente attribuiti ai soci solamente se esiste a carico della società un accertamento divenuto definitivo. (cfr. Cass. n. 20870 dell’8 ottobre 2010).
La constatazione della ristretta base societaria non è di per sé sufficiente
Dunque, in giudizio, la mera constatazione della ristrettezza della base societaria non può, di per sé sola, essere sufficiente a soddisfare quanto affermato dall’Amministrazione finanziaria, ma vi è la necessità che pervenga una decisione passata in giudicato.
L’ordinanza esaminata, dunque, viene salutata con favore nella speranza che, in futuro, l’Ufficio, prima di emettere gli avvisi di accertamento nei confronti dei soci, attenda la sentenza definitiva della società.
Accertamento

L’Ufficio deve dimostrare di aver valutato le osservazioni del contribuente

Secondo una recente sentenza, in caso contrario l’avviso di accertamento può considerarsi nullo
/ Venerdì 24 febbraio 2012
È nullo l’avviso di accertamento emesso sulla base del PVC redatto dalla Guardia di Finanza, se l’Ufficio non dimostra di aver adeguatamente valutato le osservazioni formulate dal contribuente dopo il rilascio del verbale. Lo ha stabilito la C.T. Prov. di Reggio Emilia, con la sentenza n. 10/4/12 del 1° febbraio 2012.
La Guardia di Finanza aveva sottoposto a verifica una società quotata in borsa. In esito alle attività ispettive, aveva constatato delle differenze inventariali già rilevate dalla stessa contribuente nella sua contabilità di magazzino. Le Fiamme Gialle, sulla base di tali incongruenze nelle giacenze, avevano ritenuto operanti le presunzioni di acquisto e di vendita senza fattura, di cui al DPR 441/1997, a seconda che si trattasse di differenze inventariali positive o negative.
Entro 60 giorni dal rilascio del PVC, la società aveva presentato all’Ufficio, ai sensi dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000), delle osservazioni con cui aveva evidenziato che le differenze rilevate dai militari della Finanza erano da ricondurre ad errori fisiologici nella gestione di un simile magazzino: la società esponeva, infatti, che i codici dei prodotti trattati erano circa 30.000, per un numero complessivo di movimentazioni di circa 800.000 all’anno; a fronte di ciò, le contestazioni della GdF si riferivano a differenze inventariali pari allo 0,1-0,3% del fatturato. La contribuente, infine, sottolineava la scarsa plausibilità dell’asserita strategia di evasione, che sarebbe stata perpetrata attraverso vendite e acquisti in nero di migliaia di articoli di importi singoli del tutto irrisori.
L’Agenzia delle Entrate, alla luce di tali osservazioni, ridimensionava la pretesa impositiva, riconoscendo che la società aveva giustificato in gran parte le differenze inventariali contestate dalla Guardia di Finanza, ma non totalmente. Di conseguenza, l’Amministrazione finanziaria emetteva gli atti impositivi per la parte residuante.
La società proponeva ricorso alla C.T. Prov., eccependo, tra l’altro, la violazione del summenzionato art. 12, comma 7, dello Statuto del Contribuente, in base al quale, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro 60 giorni osservazioni e richieste “che sono valutate dagli uffici impositori”. La ricorrente lamentava la mancata valutazione delle sue osservazioni da parte dell’Ufficio, atteso che non era stata motivata la ragione per cui non si era proceduto all’archiviazione totale del verbale della Finanza alla luce di tali allegazioni ed essendosi l’Agenzia delle Entrate limitata ad affermare che “la società non ha adeguatamente giustificato” le residuanti differenze inventariali, poi poste a base degli accertamenti.
Secondo i giudici provinciali, l’Amministrazione finanziaria, stante la prefata disposizione statutaria, deve dimostrare di aver adeguatamente valutato le osservazioni del contribuente, poiché, in caso di carente motivazione sul punto, non può che conseguire la nullità dell’atto impositivo. Tale principio, secondo i giudici di prime cure, sarebbe confermato anche dalla recente presa di posizione della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22320/2010) e costituzionale (Cost. n. 244/2009) sull’altra disposizione, sempre recata dallo stesso art. 12, comma 7, dello Statuto, in base alla quale l’Ufficio non può notificare l’avviso di accertamento prima del decorso di 60 giorni dal rilascio del PVC, salvo casi di particolare e motivata urgenza. Per tale fattispecie, la predetta giurisprudenza ha stabilito, infatti, che il cosiddetto accertamento “anticipato” è nullo se non vengono allegate le ragioni di particolare e motivata urgenza che ne hanno determinato l’adozione.
Nel caso di specie, la ripresa fiscale delle residuanti differenze inventariali, dopo le osservazioni formulate dalla contribuente, era stata motivata genericamente con la mancanza di “un’adeguata giustificazione” di queste da parte della società. Secondo il collegio giudicante, una simile affermazione non poteva assurgere a prova dell’avvenuta valutazione di tali osservazioni da parte dell’Ufficio. Conseguentemente, gli atti impositivi sono stati annullati.
Le interessanti conclusioni raggiunte dai giudici di merito trovano il loro limite, innanzitutto, proprio nel richiamo alla giurisprudenza relativa all’altra disposizione statutaria, ovvero il divieto di emanazione dell’atto impositivo prima di 60 giorni dal PVC: la questione, infatti, è tutt’altro che pacifica, giacché la Cassazione, proprio con l’ultima sentenza sulla questione, la n. 21103/2011, è tornata sulla sua originaria posizione, già manifestata nel 2008, in base alla quale, in assenza di una specifica sanzione di nullità, la violazione della prefata disposizione statutaria non comporta alcun pregiudizio all’atto impositivo (Cass. n. 19875/2008).
Si sottolinea, poi, che la C.T. Prov. di Torino, con la sentenza n. 3/1/10 del 14 gennaio 2011,  è giunta, invece, a conclusioni diverse rispetto a quelle dei giudici emiliani, stabilendo che l’atto impositivo non è nullo neppure se l’Ufficio ha completamente ignorato le osservazioni del contribuente, senza neanche menzionarle nell’avviso di accertamento.
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Sull’«exit tax», l’Italia deve correggere il tiro

Norme del DL 1/2012 non in linea col principio della Corte di Giustizia sull’imposizione delle plusvalenze latenti all’atto del trasferimento all’estero
/ Venerdì 24 febbraio 2012
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata sulla causa promossa dalla società olandese National Grid Indus BV (C‑371/10 del 29 novembre 2011), nell’applicazione della norma domestica sull’exit tax, al momento del trasferimento della residenza fiscale in Gran Bretagna. Il caso rivestiva particolare interesse, poiché le precedenti sentenze, favorevoli ai contribuenti, riguardavano il trasferimento della residenza di persone fisiche (sentenze 11 marzo 2004, causa C‑9/02 e 7 settembre 2006, causa C‑470/04).
La Corte ha stabilito che, in via generale, uno Stato membro, sulla base del principio di territorialità fiscale, associato a un elemento temporale, vale a dire la residenza fiscale del contribuente sul territorio nazionale durante il periodo in cui le plusvalenze latenti si sono originate, ha il diritto di tassare tali plusvalenze al momento del trasferimento all’estero dell’impresa. L’exit tax, secondo la Corte, mira infatti a prevenire situazioni tali da compromettere il diritto dello Stato membro di “uscita” di esercitare la propria competenza fiscale in merito alle attività prodotte sul proprio territorio e può pertanto essere giustificata da motivi legati alla tutela della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri.
Ciò che, invece, lede la libertà di stabilimento è la riscossione immediata dell’imposta su queste eventuali plusvalenze, norma, quindi, contraria allo spirito dell’art. 49 TFUE e non proporzionale. Ne discende, conseguentemente, che una normativa di uno Stato membro, che impone ad una società che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva la riscossione immediata dell’imposta sulle plusvalenze latenti, al momento stesso di tale trasferimento, è disposizione sproporzionata, in quanto idonea ad ostacolare o, quantomeno, a dissuadere l’esercizio della libertà di stabilimento garantita dal Trattato. Inoltre, la riscossione anticipata dell’imposta non è nemmeno giustificabile come misura volta a prevenire l’evasione fiscale. La mera circostanza che una società trasferisca la propria sede in un altro Stato membro, sancisce la Corte, non può fondare una presunzione generale di evasione fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (si veda, tra le altre, la sentenza 12 settembre 2006, causa C-196/04, punto 50).
Gli Stati, come evidenziato dalla Corte, possono ricorrere ai meccanismi di assistenza reciproca previsti della Direttiva del Consiglio 26 maggio 2008, 2008/55/CE, in materia di recupero dei crediti fiscali. In particolare, la Direttiva offre alle autorità dello Stato membro di “uscita” un ambito di cooperazione e di assistenza che consente loro di riscuotere effettivamente il credito fiscale nello Stato membro ospitante nel momento in cui gli attivi vengono alienati.
La sentenza è destinata a modificare le attuali norme di exit tax presenti nei diversi ordinamenti degli Stati membri. Recentemente, il legislatore italiano, a seguito del pronunciamento della Corte e al fine di ovviare allo specifico procedimento d’infrazione aperto dalla Commissione UE sulla norma domestica (n. 2010/4141, promosso a seguito di una denuncia dell’AIDC), all’art. 91, comma 1 del DL 1/2012, è intervenuto ad emendare l’art. 166 del TUIR, aggiungendo, dopo il comma 2-ter, i commi 2-quater e 2-quinquies.
Sotto un profilo tecnico, vi è sostanziale differenza tra l’enunciato principio della Corte, che ritiene contraria alla libertà di stabilimento la riscossione anticipata dell’imposta, e l’emendato comma 2-quater, nel quale si legge che i contribuenti “possono richiedere la sospensione degli effetti del realizzo”. In realtà, non può trattarsi di una concessione dello Stato italiano, quanto di un vero e proprio “diritto” del contribuente di pagare l’imposta solo al momento del realizzo. Per cui, l’opzione (facoltativa) è il pagamento immediato e non la sospensione che, invece, costituisce la regola. Sul punto la norma andrebbe opportunamente modificata in sede di conversione.
Il comma 2 del citato art. 91 prevede poi che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai trasferimenti effettuati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Anche se non credo vi siano casi pendenti, questa disposizione è contraria al principio statuito nella causa C‑371/10, in quanto la nostra norma interna (art. 166 del TUIR), per il passato, continua ad essere incompatibile con l’art. 49 del TFUE. Si tratta di un vecchio e pervicace vizio italiano.
In primo luogo, le sentenze interpretative della Corte di Giustizia vincolano il giudice nazionale, che dovrà disapplicare la norma nazionale confliggente. In secondo luogo, per quanto riguarda gli effetti nel tempo della pronuncia della Corte, essa esplica i propri effetti retroattivamente (ex tunc). Solo in via eccezionale la Corte, applicando il principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, ha limitato in passato la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede, con specifica statuizione. Nella causa National Grid Indus BV la Corte nulla ha detto e, pertanto, la sentenza esplica i propri effetti retroattivamente.
semplificazione amministrativa

L’Agenzia delle Entrate vuole un sistema VIES «nazionale»

È una delle idee avanzate ieri, in un’audizione parlamentare, dal Direttore Befera, che sul DL semplificazioni fiscali assicura: «Ridurrà i costi»
/ Venerdì 24 febbraio 2012
I contenuti definitivi del DL sulle semplificazioni fiscali – che approderà oggi pomeriggio al Consiglio dei Ministri – ancora non si conoscono, ma il Direttore dell’Agenzia delle Entrate avanzava già ieri una prima certezza: il Decreto, ha commentato, “è un buon passo avanti per diminuire i costi” degli adempimenti tributari. Attilio Befera è un testimone “autorevole”, visto che proprio all’Agenzia ha aiutato il Governo a predisporre il testo, “per l’eliminazione, o comunque la riduzione, degli adempimenti”.
Semplici anticipazioni di massima, il resto trapelerà nelle prossime ore. Intanto, sempre nella giornata di ieri, il numero uno delle Entrate ha presentato, nel corso di un’audizione alla Commissione parlamentare per l’Anagrafe tributaria, un resoconto sull’attività dell’Archivio Anagrafico e sulla cooperazione tra banche dati informatiche delle Amministrazioni Pubbliche. Se, da un lato, le nuove tecnologie hanno favorito l’incrocio delle informazioni disponibili (e l’individuazione di irregolarità), dall’altro il sistema dei codici fiscali e delle partite IVA meriterebbe un restyling. Negli quarant’anni di attività del sistema, sono stati creati circa 90 milioni di codici fiscali relativi a persone fisiche (di cui 17,5 milioni ormai risalenti a cittadini deceduti) e quasi 26 milioni di partite IVA (di queste, 17 milioni risultano cessate). Allo stato attuale, sono numerosi gli enti che alimentano l’Archivio anagrafico: oltre ad Uffici e servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate, ulteriori dati provengono dai Comuni (cittadini residenti), dai Consolati (cittadini non residenti), dal Registro delle Imprese, dagli Sportelli unici per l’immigrazione e dalle Questure (cittadini stranieri).
Alcuni tra i maggiori problemi di coordinamento riguardano, appunto, la registrazione dei cittadini stranieri che entrano nel nostro Paese e ricevono, per il nulla osta all’ingresso e per il rilascio del permesso di soggiorno, un apposito codice fiscale. Le difficoltà possono derivare dalla trascrizione dei nomi (cfr. circ. Agenzia delle Entrate n. 34/2011) o dalla mancanza, sui documenti d’identità, dei dati anagrafici previsti dal nostro ordinamento (nome, cognome, luogo e data di nascita). Senza contare i (pochi, appena 28mila) casi di omocodia, ossia cittadini in possesso dello stesso codice fiscale. Per ovviare a questi problemi – costi e necessità permettendo – l’Agenzia sta studiando un nuovo sistema di codifica, compatibile con quello attuale.
Quanto alle partite IVA, le recenti novità tecnologiche e legislative hanno migliorato il monitoraggio, finalizzato alla chiusura delle partite IVA inattive o non operative. Grazie all’art. 23 del DL 98/2011, ad esempio, i soggetti che non abbiano presentato la comunicazione di cessata attività entro i 30 giorni previsti possono rimettersi in regola, entro il prossimo 31 marzo, versando tramite F24 una sanzione ridotta, pari a 129 euro. Inoltre, lo stesso articolo prevede la revoca della partita IVA qualora venga accertato il mancato svolgimento dell’attività o non siano state presentate le dichiarazioni annuali IVA per le ultime tre annualità.
Sul fronte del futuro accesso ai dati delle partite IVA, Befera pensa ad un sistema VIES “nazionale”: “È auspicabile – ha dichiarato – un intervento normativo che consenta all’Agenzia di rendere disponibile la verifica della partita IVA, fornendo riscontro sullo stato di attività e sui dati identificativi del soggetto titolare, con servizio a libero accesso, analogamente a quanto reso possibile per la verifica del codice fiscale dal decreto legge n. 78/2010”.
Migliorie necessarie contro frodi e cartelle pazze
Intanto, prosegue l’opera di bonifica dei dati, con la cancellazione di doppioni e la disattivazione di codici di cittadini il cui decesso non sia stato comunicato all’Amministrazione finanziaria. Nel mirino ci sono soprattutto gli episodi di frode, connessi a richieste di codice fiscale avanzate con documenti falsi. Il fenomeno, ha spiegato Befera, è in aumento e comporta danni per il Fisco, le banche e le società finanziarie. La soluzione ci sarebbe – ha poi aggiunto – e consiste nella creazione di un database che consenta alle Amministrazioni di verificare in tempo reale la veridicità dei documenti d’identità presentati.
L’ultima nota dolente riguarda la cooperazione con gli enti locali, in particolare con i Comuni. Riferendosi alle contestazioni contro le cartelle pazze emesse da Equitalia, Befera ha spiegato che la società di riscossione “ha risentito delle inefficienze a monte, degli errori delle banche dati degli enti a monte. C’è la necessità – ha concluso – che questi enti dialoghino maggiormente con noi. Ne parleremo con l’ANCI: migliorare la qualità dei dati equivale a migliorare il rapporto con i cittadini”.
iva

«Spesometro», nuovo invio senza annullamenti

Dopo i chiarimenti dell’Agenzia sulle operazioni per l’anno 2010, chi vuole inviare una nuova comunicazione non deve annullare la precedente
/ Giovedì 23 febbraio 2012
A seguito dei numerosi chiarimenti intervenuti a ridosso della scadenza del 31 gennaio 2012 da parte dell’Agenzia delle Entrate in relazione alle modalità di comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, di cui all’art. 21 del DL 78/2010, per l’anno 2010, numerosi contribuenti hanno ritenuto opportuno apportare alcune modifiche alla comunicazione già presentata entro il predetto termine del 31 gennaio scorso.
A tale proposito, il punto 4.4. del provvedimento direttoriale del 22 dicembre 2010 stabilisce che “è consentita la trasmissione di una comunicazione in sostituzione di un’altra precedentemente inviata, purché essa si riferisca al medesimo periodo temporale e la sostituzione avvenga, previo annullamento della precedente comunicazione, non oltre 30 giorni dalla scadenza del termine previsto per la trasmissione dei dati”.
Secondo tale disposizione, quindi, il soggetto che ha presentato tempestivamente la comunicazione (e quindi entro il 31 gennaio 2012, per l’anno 2010) può, entro trenta giorni dallo scadere del predetto termine (entro il 1° marzo 2012), presentare una “nuova” comunicazione, senza applicazione di sanzioni, purché sussistano le seguenti condizioni:
- la comunicazione inviata sostituisce una precedente comunicazione presentata entro i termini previsti;
- il periodo di riferimento della comunicazione sostitutiva deve riferirsi al medesimo periodo della comunicazione originariamente trasmessa;
- l’invio della comunicazione sostitutiva deve avvenire entro 30 giorni dalla scadenza del termine originario;
- prima dell’invio della comunicazione sostitutiva, il soggetto deve procedere all’annullamento della precedente comunicazione.
Successivamente, con il provvedimento direttoriale del 16 settembre 2011, l’Agenzia delle Entrate, nel disporre la proroga del termine di presentazione della comunicazione per l’anno 2010 al 31 dicembre 2011 (scadenza successivamente prorogata ulteriormente al 31 gennaio 2012), ha sostituito integralmente le specifiche tecniche da seguire per l’invio telematico della comunicazione in oggetto, non richiedendo più, per l’invio di una comunicazione sostitutiva entro i 30 giorni dallo scadere del termine, il previo annullamento della comunicazione in precedenza inviata.
Il cambiamento della procedura descritta, tuttavia, non è stata esplicitata nel contenuto del provvedimento del 16 settembre 2011, in cui, come detto, l’Agenzia ha solamente disposto l’integrale sostituzione delle specifiche tecniche per l’invio della comunicazione, senza modificare in alcun modo il disposto del punto 4.4 del provvedimento del 22 dicembre 2010. Da ciò ne è derivato che numerosi contribuenti, assistiti dai propri professionisti di fiducia, hanno proceduto seguendo le originarie indicazioni disposte dal predetto punto 4.4, annullando previamente la comunicazione inviata al fine di poterla sostituire con una nuova comunicazione (corretta).
Tuttavia, a seguito delle descritte modifiche delle specifiche tecniche per l’invio, disposte con il provvedimento del 16 settembre 2011, si trovano ora ad aver annullato il precedente invio, con la conseguenza che la comunicazione sostitutiva (da inviare, come detto, entro il prossimo 1° marzo) risulterebbe presentata oltre il termine del 31 gennaio 2012.
Resta fermo l’obbligo di conservazione delle ricevute telematiche
Sul punto, però, a seguito dell’invio di una specifica richiesta alla Direzione Centrale Accertamento, l’Agenzia delle Entrate ha comunicato che, fermo restando l’obbligo di conservazione delle ricevute telematiche relative alla comunicazione originariamente inviata, e dell’annullamento della stessa, si può procedere all’invio ordinario di una nuova comunicazione, sia pure oltre il termine originario.
Tale comunicazione, infatti, sarà elaborata e la presunta tardività della stessa (a seguito dell’annullamento di quella originaria) potrà essere sanata dal contribuente mediante esibizione delle ricevute telematiche, che costituiscono prova dell’avvenuto invio della comunicazione entro il termine del 31 gennaio 2012. Resta fermo che, per coloro che nei prossimi giorni intendono presentare una comunicazione in sostituzione della precedente, non è necessario procedere all’annullamento della comunicazione originaria, ma è sufficiente inviare una comunicazione sostitutiva.
riscossione

Sanzioni leggere per l’omesso versamento dello 0,40%

Pagare le imposte con la dilazione di 30 giorni senza lo 0,40% comporta la sola sanzione su detto interesse e non anche sull’imposta
/ Giovedì 23 febbraio 2012
Ancora una sentenza a favore del contribuente che abbia versato nei 30 giorni successivi alla scadenza senza maggiorazione dello 0,40%.
Come evidenziato in precedenti articoli, gli uffici dell’Agenzia delle Entrate, nel caso in cui il contribuente, in occasione del pagamento delle imposte e del primo acconto, abbia effettuato il versamento nei 30 giorni successivi alla scadenza (dunque alla data del 16 luglio e non del 16 giugno), senza però maggiorare la somma dello 0,40%, iscrivono a ruolo la sanzione del 30% per ritardato pagamento sull’intera imposta e non sulla sola maggiorazione dello 0,40% non versata a titolo di interesse di dilazione. Si tratta di una situazione poco condivisibile, soprattutto nell’ottica della lealtà e reciprocità dei rapporti tra contribuenti e Amministrazione finanziaria, posto che è di tutta evidenza che non vi sia alcun intento evasivo e che l’incidente sia sempre ed esclusivamente dovuto a una mera dimenticanza.
Il caso classico è quello del commercialista che predispone il modello F24 per il proprio cliente entro il 16 luglio raccomandandosi di rispettare la data e questi, invece, porta in banca la distinta con qualche giorno di ritardo.
La posizione degli uffici dell’Agenzia, sconfessata ora anche dalla decisione della C.T. Reg. di Bologna, poggia sul fatto che l’omesso versamento dello 0,40% non perfezionerebbe lo slittamento dell’adempimento, talché vi sono gli estremi per considerare il versamento delle imposte effettuato in ritardo rispetto alla prescritta scadenza.
Una posizione assai poco in linea con l’art. 10, comma 1 dello Statuto del contribuente, rubricato “Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente”, posto che in esso si stabilisce che “i rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. Senza contare, dal punto di vista strettamente tecnico-pratico, che la maggiorazione dello 0,40% confluisce nel medesimo codice tributo dell’imposta cui si riferisce, cosicché si potrebbe eccepire che, a fronte di un’imposta dovuta di 10.000 euro, il versamento si riferisce a 9.960 euro di imposta e 40 euro di maggiorazione 0,40%, avendo voluto omettere il pagamento di 40 euro di imposta.
La decisione della C.T. Reg. di Bologna n. 3/8/2012 dell’11 gennaio 2012 (del tutto conforme alle sent. n. 102/15/11 e n. 2/1/12 della C.T. Prov. di Torino) rimette le cose al loro posto stabilendo che, a norma dell’art. 17, commi 1 e 2 del DPR 435/2001, il versamento dell’imposta dovesse essere effettuato entro la data del 16 luglio 2007 avendo la società approvato il bilancio il 29 giugno 2007, oppure nel termine dilazionato di 30 giorni (fino al 15 agosto 2007) con la maggiorazione della somma da versare dello 0,40% a titolo di interesse. Nel caso di specie, il pagamento dell’imposta è stato effettuato in data 20 luglio 2007, nel termine dilazionato senza il versamento dello 0,40% in quanto la somma versata corrisponde esattamente a quanto indicato nella dichiarazione presentata dalla contribuente.
Preso atto di ciò, la Commissione ritiene che non vada applicata la sanzione piena così come irrogata dalla cartella impugnata, che sarebbe dovuta solo nel caso del mancato rispetto del termine del 15 agosto 2007. La norma, sottolinea la Commissione, non prevede che il diritto ad effettuare il pagamento entro 30 giorni venga meno per il mancato pagamento degli interessi, la cui omissione comporta un’irregolarità a sé stante che ritiene sanabile con il pagamento dello 0,40% dovuto a titolo di interessi e della relativa sanzione. Secondo la Commissione sarebbe iniquo sanzionare, equiparando un omesso versamento degli interessi ad un omesso versamento dell’intera imposta (che è stata versata nei termini consentiti dalla legge), con una sanzione del 30% sull’intera imposta.
Se queste sono le conclusioni della Commissione, occorrerebbe ora un atteggiamento da parte degli uffici dell’Agenzia delle Entrate improntato ai criteri e alle raccomandazioni che il Direttore Attilio Befera ha ricordato ai propri uffici con la lettera di ottobre 2010: “La nostra azione di controllo può rivelarsi realmente efficace solo se è corretta. Se il contribuente ha dato prova sostanziale di buona fede e di lealtà nel suo rapporto con il Fisco, ripagarlo con la moneta dell’accanimento formalistico significa venire meno a un obbligo morale di reciprocità ed essere perciò gravemente scorretti nei suoi confronti”.  Utilizzando detti principi, si libererebbero certamente risorse dell’Agenzia, oggi impegnate in queste futili querelle, per la vera lotta all’evasione.
Iva

IVA detraibile sugli immobili abitativi destinati all’impresa turistico-alberghiera

La ris. 18 dell’Agenzia chiarisce che, in tal caso, conta la strumentalità per natura del fabbricato e non l’accatastamento
/ Giovedì 23 febbraio 2012
L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 18 di ieri, 22 febbraio 2012, ha affrontato la tematica dell’indetraibilità dell’imposta sul valore aggiunto assolta sugli immobili a destinazione abitativa e sulle corrispondenti spese, precisando che la stessa non opera nel caso in cui il fabbricato sia utilizzato nell’ambito imprenditoriale dell’attività turistico-alberghiera.
Non è stato, quindi, ritenuto applicabile l’art. 19-bis1, lett. i) del DPR n. 633/1972, secondo cui non è ammessa in detrazione l’imposta relativa all’acquisto di immobili a destinazione abitativa, o porzioni degli stessi, né quella afferente la loro locazione, manutenzione, ristrutturazione o gestione. La disposizione non è, tuttavia, applicabile nei confronti di due tipologie di imprese, ovvero quelle:
- aventi ad oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la costruzione dei predetti fabbricati;
- pongono in essere locazioni esenti di cui all’art. 10, n. 8) del DPR n. 633/1972 - recentemente modificato dall’art. 57, comma 1, lett. a) del DL n. 1/2012, entrato in vigore lo scorso 24 gennaio - determinanti la riduzione della percentuale di detrazione dell’IVA, a norma degli artt. 19, comma 5 e 19-bis del predetto Decreto.
L’Amministrazione finanziaria ha, quindi, affermato un’eccezione ad un principio generale ormai consolidato, e da ultimo affermato nella circolare n. 12/2007: l’indetraibilità dell’imposta riguarda i fabbricati abitativi, intendendosi per tali quelli così desumibili dalle risultanze catastali, a prescindere dall’effettivo utilizzo degli stessi.
In particolare, la risoluzione n. 18/2012 ha sostenuto che tali immobili civili - utilizzati dal soggetto passivo nell’ambito di un’attività di tipo ricettivo (esercizi di affittacamere, case ed appartamenti per vacanze), comportanti l’effettuazione di prestazioni di servizi imponibili ad IVA - devono essere trattati come i fabbricati strumentali per natura, indipendentemente dalla classificazione catastale del bene.
Con l’effetto che le spese di acquisto e manutenzione relative a tali cespiti devono ritenersi escluse dal regime di indetraibilità di cui all’art. 19-bis1, lett. i) del DPR n. 633/1972.
A sostegno della propria tesi, l’Agenzia dell’Entrate ha richiamato la stessa circ. n. 12/2007 (paragrafo 9), nonché la ris. n. 117/2004. In tale sede, era stato, infatti, affermato che gli immobili abitativi, quando sono destinabili - secondo la normativa regionale di settore - ad attività turistico-alberghiera, danno luogo a servizi di alloggio imponibili ad IVA con l’aliquota del 10% ai sensi del n. 120 della Tabella A, Parte III, allegata al suddetto Decreto relativo all’imposta, concernente le “prestazioni rese ai clienti alloggiati nelle strutture ricettive di cui all’art. 6 della Legge 17 maggio 1983, n. 217 e successive modificazioni”: quest’ultima norma fa, quindi, riferimento agli immobili arredati gestiti in forma imprenditoriale per l’affitto a turisti, senza offerta di servizi centralizzati, nel corso di una o più stagioni, con contratti aventi validità superiore ai tre mesi consecutivi.
Dall’ambito del regime di esenzione di cui all’art. 10, n. 8), del DPR n. 633/1972 devono, infatti, considerarsi escluse - in conformità di quanto espressamente stabilito dalla normativa comunitaria (art. 135, punto 2, lett. a) della Direttiva 2006/112/CE) - le prestazioni di alloggio effettuate nel comparto alberghiero, comprendenti quelle di locazione degli immobili ad uso turistico, purché qualificabili come tali in base alla legislazione di settore.
La detraibilità è coerente con i principi generali dell’IVA
Conseguentemente, per ragioni di coerenza con i principi generali dell’IVA, il tributo sull’acquisto di beni e servizi riguardanti tali tipologie di prestazioni deve ritenersi detraibile, ancorché si riferisca ad unità immobiliari che, sotto il profilo fiscale, si presentano come abitative. Ai fini dell’applicazione di tale orientamento, appare, pertanto, necessario verificare concretamente se l’immobile abitativo - nel momento in cui sono realizzati i lavori di manutenzione o ristrutturazione - sia già effettivamente utilizzato per lo svolgimento di attività ricettizia, ovvero se a tale utilizzazione risulti inequivocabilmente destinato.
accertamento

Per il redditometro, va dimostrato il reddito derivante da società

Per la C.T. Prov. di Alessandria, bisogna provare che gli utili prelevati da una società partecipata sono stati dichiarati e assoggettati a tassazione
/ Giovedì 23 febbraio 2012
Il contribuente sottoposto ad accertamento redditometrico, che intende giustificare lo scostamento rispetto al suo reddito dichiarato attraverso un corposo prelievo di utili di esercizi precedenti da una società partecipata, deve provare che tali utili sono stati dichiarati ed assoggettati a tassazione, nonché effettivamente utilizzati per il mantenimento dei beni indice e gli incrementi patrimoniali contestati dal Fisco; in assenza di tale prova, l’accertamento risulta pienamente fondato. È quanto si desume dalla sentenza della C.T. Prov. di Alessandria n. 17/3/12 del 9 febbraio 2012.
L’Ufficio aveva effettuato il controllo della posizione fiscale di un contribuente avvalendosi del redditometro di cui al “vecchio” art. 38, comma 4 e ss. del DPR 600/1973 (ante riforma prevista dall’art. 22 del DL 78/2010). L’Agenzia delle Entrate aveva rilevato, in particolare, diversi beni indicatori di capacità contributiva contemplati dai vecchi decreti ministeriali del 1992, tra cui il possesso di un’immobile di circa 500mq, gravato da mutuo ipotecario con rate complessive di circa 15.000 euro nell’anno oggetto di controllo, oltre che diverse auto di grossissima cilindrata e incrementi patrimoniali di svariate migliaia di euro derivanti da acquisti di auto e di un’imbarcazione di circa 16 metri. A fronte del reddito dichiarato di poco più di 10.000 euro, l’Ufficio, sulla base della presunzione redditometrica fondata sui predetti elementi, lo aveva rideterminato nella misura di circa 150.000 euro.
Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento, adducendo che un importo di circa 180.000 euro e, quindi, ben superiore al reddito accertato dall’Ufficio, era stato prelevato da una sas in cui deteneva una partecipazione. In particolare, tale somma sarebbe derivata da un’asserita riserva di utili di esercizi precedenti della predetta società. Il contribuente, così, riteneva di aver giustificato il reddito con cui era stata finanziata la spesa per gli incrementi patrimoniali ed il mantenimento dei beni indicatori di capacità contributiva contestati dal Fisco. Di tutto ciò, esibiva solo la scheda di mastro di tale sas relativa ai prelevamenti soci, tra cui vi era, appunto, quello del ricorrente.
I giudici di primo grado hanno ricordato, innanzitutto, che l’utile conseguito da una sas è generalmente ripartito tra i soci in proporzione alla quota di partecipazione di ognuno e, anche se tale utile viene accantonato come riserva di bilancio, ogni socio deve dichiarare la sua quota parte, inserendo l’importo tra i redditi di partecipazione da indicare nel quadro H del modello UNICO. Alla luce di ciò, il collegio ha osservato che, se la predetta somma prelevata dal ricorrente presso la società deriva da una simile riserva di utili pregressi appostata in bilancio, si tratterebbe di utili già assoggettati ad imposizione negli anni precedenti e desumibili dalle dichiarazioni del ricorrente dei precedenti periodi d’imposta; dichiarazioni che, però, non sono state né richiamate né citate né esibite. Tale circostanza, secondo il collegio di prime cure, è assai singolare, dato che la dichiarazione presentata per l’anno oggetto di accertamento non conteneva l’indicazione di alcun reddito di partecipazione in società.
La C.T. Prov. ha aggiunto, poi, che neppure era stato allegato lo statuto di tale sas, da cui si sarebbero potute desumere e confermare le modalità di riparto degli utili e di accantonamento delle riserve. In conclusione, secondo i giudici provinciali, il ricorrente, con la documentazione allegata, aveva solo dimostrato che era stato effettuato il prelevamento di utili pregressi della riserva della sas partecipata, ma non aveva provato che tali utili erano stati correttamente dichiarati e, quindi, già tassati negli anni precedenti, né aveva dimostrato che tale somma fosse stata usata per finanziarie gli incrementi patrimoniali ed il mantenimento delle auto e dell’immobile contestati dal Fisco. Il ricorso, pertanto, è stato respinto ed il contribuente è stato condannato a pagare consistenti spese di giudizio.
In proposito, si osserva che il nuovo redditometro, a differenza di quello precedente, a cui si riferiscono i fatti di causa, non prevede più la ripartizione della spesa per incrementi patrimoniali sugli ultimi cinque anni da quello in cui si è verificato tale incremento (ex art. 38, comma 5 del DPR 600/1973 ante riforma); ora, infatti, tale spesa assume integralmente rilievo nell’anno in cui si manifesta, salva la prova contraria da parte del contribuente.
Inoltre, mentre con la precedente disciplina il contribuente aveva solo la facoltà di dimostrare che il maggior reddito determinato sinteticamente era costituito in tutto o in parte da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo  d’imposta (dimostrazione che, nel caso oggetto della pronuncia odierna, non era riuscita), con il “nuovo” redditometro, invece, sembra ampliarsi il campo probatorio a disposizione del contribuente, giacché la prova contraria può essere fornita attraverso la dimostrazione di redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile (“nuovo” art. 38, comma 4 del DPR 600/1973).

riforma fiscale Calo delle tasse a partire dal 2014

riforma fiscale

Calo delle tasse a partire dal 2014

Tra le misure nel decreto all’esame del CdM di venerdì, invece, possibili novità sulla rateazione dei debiti tributari e in materia di studi di settore
/ Mercoledì 22 febbraio 2012
Dalla cancellazione del “mini-debiti” fiscali alle liste selettive di evasori, oltre alla reintroduzione dell’elenco “clienti e fornitori”. Sarebbero solo alcune delle misure del DL sulle semplificazioni fiscali in arrivo al Consiglio dei Ministri di venerdì. Il calo delle tasse, riguardante redditi più bassi e famiglie, non dovrebbe essere immediato. Lo ha confermato ieri il premier Mario Monti, parlando del provvedimento: infatti, possibili decisioni in merito dovrebbero essere rinviate al 2014, anche se “non è detto”, poiché si attendono “robusti benefici” dalla lotta all’evasione. Nessuna certezza sull’ICI (sostituita dall’IMU a partire dal 2012 in via sperimentale, e in via definitiva dal 2014), sui beni della Chiesa, quantomeno quelli a prevalente, e non per forza esclusiva, destinazione commerciale. “Non so se viaggia con il decreto di venerdì – ha spiegato Monti – ma è in dirittura d’arrivo”.
In relazione, invece, al decreto, sulla base di una bozza di testo circolata ieri, le misure potrebbero riguardare: semplificazioni in materia tributaria; efficientamento e potenziamento dell’azione dell’amministrazione tributaria; modifiche delle sanzioni amministrative; novità per il contenzioso.
Nel dettaglio, sarebbero allo studio semplificazioni relative alla rateizzazione dei debiti tributari.
Innanzitutto, la dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo di cui all’art. 19 del DPR n. 602/73 potrebbe essere ammessa anche nei casi di decadenza del beneficio previsto dall’art. 3-bis del DLgs. n. 462/97, con l’effetto che il contribuente potrebbe comunque accedere, una volta ricevuta la cartella di pagamento, all’istituto della rateazione. Inoltre, mediante un coordinamento con quanto già disposto dal DL n. 201/2011 convertito, il debitore potrebbe chiedere che il piano di rateazione previsto dal citato art. 19, commi 1 e 1-bis preveda, al posto di rate costanti, rate variabili d’importo crescente per ciascun anno. L’agente della riscossione, poi, potrebbe iscrivere l’ipoteca (ex art. 77 del DPR 602/73) solo nel caso di mancato accoglimento dell’istanza, o di decadenza. Resterebbe comunque fermo che i piani di rateazione, già emessi alla data di entrata in vigore del decreto, non sarebbero soggetti a modificazioni, salvo il caso di proroga previsto dall’art. 19, comma 1-bis.
Ancora, l’obbligo d’indicare il domicilio fiscale in tutti gli atti, contratti, denunce e dichiarazioni presentiti agli uffici finanziari, potrebbe essere limitato solo ai casi espressamente previsti dalla legge per singole tipologie di atti, dato che, nella maggior parte dei casi, tali informazioni sono già disponibili nell’Anagrafe tributaria. Si starebbe anche valutando, a partire dal 1° luglio 2012, di non procedere ad accertamento, iscrizione a ruolo e riscossione dei crediti relativi ai tributi erariali, regionali e locali se l’ammontare dovuto, comprese sanzioni e interessi, non supera, per ciascun credito, 30 euro, in ogni periodo d’imposta.
Con riferimento a comunicazioni e adempimenti formali, a partire dall’esercizio finanziario 2012 potrebbero partecipare al riparto del 5 per mille gli enti che, pur non avendo assolto in tutto o in parte agli adempimenti richiesti entro il termine previsto, abbiano i requisiti richiesti, presentino la domanda entro il 30 settembre e versino l’importo pari alla misura minima della sanzione stabilita dall’art. 11, comma 1 del DLgs. n. 471/97.
Dovrebbe tornare il vecchio elenco “clienti e fornitori”
Come già anticipato nei giorni scorsi, poi, con una modifica all’art. 21 del DL n. 78/2010 potrebbe tornare il vecchio elenco clienti e fornitori”: in particolare, con vigenza a far corso dal 1° gennaio 2012, per le operazioni rilevanti ai fini IVA soggette all’obbligo di fatturazione, sarebbe previsto l’obbligo di comunicazione dell’importo complessivo delle operazioni attive e/o passive effettuate. Solo per le operazioni non soggette all’obbligo di fatturazione, la comunicazione telematica andrebbe effettuata quando esse siano d’importo non inferiore a 3.600 euro, comprensivo dell’IVA.
Tra le altre misure, potrebbe essere allungato il termine per l’integrazione degli indicatori di coerenza economica ai fini dell’applicazione del nuovo regime premiale per i soggetti a cui si applicano gli studi di settore, introdotto dall’art. 10, commi 9 e 10 del DL n. 201/2011. La proposta sarebbe di pubblicare in Gazzetta, entro il 30 aprile 2012, invece del 31 marzo ora previsto, eventuali integrazioni agli studi applicabili per il periodo d’imposta 2011.
Infine, in materia di IMU, potrebbe essere modificato l’art. 13, comma 6 del DL n. 201/2011 convertito. In pratica, la disposizione prevedrebbe che, per la loro efficacia, le delibere comunali, con le quali i Comuni possono cambiare, in aumento o diminuzione, l’aliquota di base pari allo 0,76% sino a 0,3 punti percentuali, debbano essere pubblicate entro il 30 aprile dell’anno a cui si riferiscono. Pertanto, in occasione delle scadenze per il pagamento dell’imposta del 16 giugno (acconto) e del 6 dicembre (saldo), i contribuenti potrebbero determinare in modo più agevole e una sola volta l’importo dovuto per l’anno di riferimento, limitandosi a ripartirlo in due rate di pari ammontare.

canone radiotelevisivo Non si paga il canone speciale Rai per il solo possesso di un pc

canone radiotelevisivo

Non si paga il canone speciale Rai per il solo possesso di un pc

L’azienda ha chiarito che la lettera inviata dalla Direzione Abbonamenti si riferisce al canone speciale dovuto se i computer sono usati come televisori
/ Mercoledì 22 febbraio 2012
La Rai non ha mai richiesto il pagamento del canone speciale per il “mero possesso del personale computer”. È quanto ha precisato l’azienda ieri, mediante una nota ufficiale, al termine di un confronto con il Ministero dello Sviluppo economico, aggiungendo che “la lettera inviata dalla Direzione Abbonamenti si riferisce al canone speciale dovuto nel caso in cui i computer siano utilizzati come televisori, fermo restando che il canone speciale non va corrisposto nel caso in cui tali imprese, società ed enti” abbiano già pagato per il possesso di una o più tv.
A tal proposito, si ricorda che l’invito a sottoscrivere l’abbonamento speciale Rai, recapitato nei giorni scorsi a molti soggetti, aveva suscitato non poche polemiche.
Infatti, dallo spot mandato in onda, sembrava che i destinatari dell’obbligo fossero solo coloro che, in qualche modo, potessero divulgare le trasmissioni televisive, mentre, nei fatti, la richiesta pareva rivolta a chiunque disponesse di un apparecchio atto o adattabile alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive.
Sulla base dell’analisi normativa in materia, il canone speciale potrebbe però essere richiesto solo con riferimento a soggetti in grado di porre in essere audizioni in locali pubblici o aperti al pubblico (si veda “Canone speciale Rai solo per chi compie «audizioni in luogo pubblico»” di ieri, 21 febbraio 2012).
Partendo dal presupposto che, per ciò che concerne i personal computer, il canone sia dovuto solo se essi vengono usati come televisori, la Rai ha poi precisato che ciò “limita il campo di applicazione del tributo a un’utilizzazione molto specifica del computer rispetto a quanto previsto in altri Paesi europei per i loro broadcaster (Bbc), che, nella richiesta del canone, hanno inserito tra gli apparecchi atti o adattabili alla ricezione radiotelevisiva, oltre alla televisione, il possesso dei computer collegati alla rete, i tablet e gli smartphone”.
Canone limitato a un’utilizzazione molto specifica del computer
Se, al momento, non sembrerebbe previsto l’invio di una lettera “riparatoria” a professionisti e imprenditori, soddisfazione è stata espressa ieri sia dalle associazioni di consumatori, sia da rappresentanti del mondo imprenditoriale.
Anche l’ANC – Associazione Nazionale Commercialisti ha commentato la richiesta di pagamento, poi chiarita dalla Rai: “Il dettato normativo di riferimento, che è il RDL del 1938 – ha dichiarato il presidente Giuseppe Pozzato – non è cambiato e a questo non si è aggiunta alcuna nuova interpretazione”. Per questo motivo, l’ANC ha denunciato “l’urgenza di chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate e dei Ministeri competenti”.
canone radiotelevisivo

Canone speciale Rai solo per chi compie «audizioni in luogo pubblico»

Parrebbe questa la conclusione più logica desumibile dalla norma, ma sugli avvisi inviati ai professionisti possessori di computer regna la confusione
/ Martedì 21 febbraio 2012
In questi giorni molti soggetti si sono visti recapitare l’invito a sottoscrivere l’abbonamento speciale Rai. Dallo spot mandato in onda sulle reti della tv di Stato, sembrerebbe che destinatari dell’obbligo siano soltanto i soggetti che, in qualche modo, potrebbero divulgare le trasmissioni televisive (alberghi, ristoranti, pubblici esercizi in genere). Invece, la richiesta del canone speciale pare poi rivolta, nei fatti, a chiunque disponga di un apparecchio atto o adattabile alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive. La confusione regna sovrana.
Il sito della Rai, alla voce “abbonamenti speciali”, recita testualmente: “Devono pagare il canone di abbonamento speciale coloro che detengono uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive in esercizi pubblici, in locali aperti al pubblico o comunque fuori dell’ambito familiare, o che li impiegano a scopo di lucro diretto o indiretto (R.D.L.21/02/1938 n.246 e D.L.Lt.21/12/1944 n.458)”.
Il riferimento è dunque al RDL n. 246/1938 e al DLgs. luogotenenziale n. 458/1944. In pieno conflitto bellico, mostrando una notevole lungimiranza, il Legislatore trovò il tempo per estendere il balzello del canone radio (la televisione non c’era ancora) agli utilizzi “non privati”. Trovandosi ad ascoltare la radio all’osteria o all’oratorio, migliaia di famiglie si sottraevano al pagamento del canone: da qui, l’inserimento di una norma volta a far pagare un abbonamento “speciale” al soggetto che, con o senza fine di lucro specifico, consentiva a soggetti terzi di avvalersi delle trasmissioni radiofoniche. Infatti, l’art. 2 del DLgs. luogotenenziale n. 458/1944 recita: ”Qualora le radioaudizioni siano effettuate in esercizi pubblici o in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dell’ambito familiare, o gli apparecchi radioriceventi siano impiegati a scopo di lucro diretto o indiretto, l’utente dovrà stipulare uno speciale contratto di abbonamento con la società concessionaria”. Questa norma ha, dunque, introdotto un duplice sistema: da una parte l’obbligo di pagare il canone per chi possiede o detiene apparecchi per uso familiare, dall’altra l’obbligo del canone “speciale” per chi effettua radioaudizioni al di fuori dell’ambito famigliare, indipendentemente dalla finalità.
In modo incoerente rispetto al sito aziendale, ma a nostro avviso correttamente, gli avvisi cartacei che la Rai ha mandato in circolazione non fanno riferimento al DLgs. luogotenziale citato, ma solo all’articolo 27 del RDL del 1938 (ambito applicativo) e all’art. 16 della L. n. 488/1999 (modalità di calcolo dell’importo dovuto). Quest’ultima norma fissa, infatti, la tariffa dell’abbonamento “speciale” in funzione delle categorie e delle caratteristiche degli esercizi commerciali, peraltro facendo ragionevolmente (date le finalità della norma) esclusivo riferimento ai “televisori”, nonostante nel 1999 i computer fossero già esistenti e connessi ad internet. Dovrebbe essere dirimente, però, proprio il fatto che l’invito a pagare contenga il riferimento al solo art. 27 del RDL n. 246/1938. Tale norma dispone, infatti, che “il canone di abbonamento dovuto per audizioni date in locali pubblici od aperti al pubblico è stabilito in ragione di anno solare ed è determinato mediante speciali convenzioni di abbonamento con la Società concessionaria”.
Sulla base di quanto sopra, a parere di chi scrive, con la piena disponibilità ad essere smentito sulla base di un adeguato supporto normativo, il canone speciale può essere richiesto solo con riferimento a soggetti in grado di porre in essere audizioni in locali pubblici o aperti al pubblico. Questa interpretazione avrebbe il pregio di essere logica, coerente con il dettato normativo, conforme allo spot divulgato dalla Rai e al fatto che, per ottenere il modulo per l’attivazione dell’abbonamento speciale sul sito della Rai, occorra cliccare in un box titolato “Esercizio commercialee non già “Titolare di partita IVA”.
Infine, si potrebbe dire per mero scrupolo difensivo, usando tutto l’armamentario giuridico-interpretativo-giurisprudenziale già sperimentato per l’IRAP, che – per imprenditori e professionisti individuali senza autonoma organizzazione – l’abbonamento Rai sottoscritto a fini familiari dovrebbe coprire almeno il pc portatile e il telefonino, posto che è ormai acquisito che il numero di apparecchi non influenza l’ammontare del canone di famiglia. Infatti, chi ha un televisore per stanza paga come chi ne ha uno in tutto.
Accogliendo una diversa interpretazione, si aprirebbe una discriminazione inaccettabile tra chi per lavorare ha dovuto aprire la partita IVA e chi, invece, è riuscito a farsi assumere (il computer gli è fornito dal datore di lavoro e può detenere in santa pace l’ipad personale in quanto apparecchio coperto dall’abbonamento di famiglia). Tuttavia, anche per questo, nonostante la crisi suggerisca di non obbligare gli operatori economici e i loro consulenti a spendere tempo e risorse in attività che nulla hanno a che fare con la sopravvivenza del loro business e dei connessi posti di lavoro, corre l’obbligo di chiudere avvertendo che è quantomai opportuno attendere i consueti auspicati chiarimenti ufficiali.
Iva

Dal 17 marzo, IVA esigibile quando i servizi «generici» sono ultimati

Per effetto della Comunitaria 2010, da tale data il momento impositivo dei rapporti «B2B» non coinciderà col pagamento del corrispettivo
/ Mercoledì 22 febbraio 2012
Dal 17 marzo 2012 entreranno in vigore le modifiche alla disciplina IVA delle prestazioni di servizi generiche” scambiate con soggetti passivi non stabiliti in Italia, introdotte dalla legge 15 dicembre 2011 n. 217 (legge Comunitaria 2010).
Tale legge ha finalmente recepito la Direttiva n. 2008/117/CE, già in vigore dal 1° gennaio 2010, modificando l’art. 6 del DPR n. 633/1972, e, segnatamente, prevedendo che i servizi “generici”, regolati dall’art. 7-ter del DPR n. 633/1972, scambiati con soggetti passivi non stabiliti in Italia (cosiddetti rapporti “B2B”), si considerano effettuati e, quindi, l’imposta diviene esigibile, al momento in cui sono ultimati o, se sono di carattere periodico o continuativo, alla data di maturazione dei corrispettivi, salvo che anticipatamente non sia stato pagato il corrispettivo, nel qual caso l’operazione si considerata effettuata alla data del pagamento, limitatamente all’importo corrisposto.
Quando gli stessi servizi sono resi in modo continuativo e con durata ultrannuale, il momento di effettuazione è stato confermato, come nella disciplina vigente, al termine di ciascun anno solare, finché non sono conclusi. L’emissione anticipata della fattura rispetto agli eventi sopra evidenziati è irrilevante ai fini dell’individuazione del momento impositivo.
Attualmente e sino al 16 marzo 2012, ai sensi dell’art. 6, comma 3 del DPR n. 633/1972, tutte le prestazioni di servizi, indipendentemente dalla loro natura interna o transnazionale, si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, anche se questa regola per i servizi “generici” di natura intracomunitaria è in contrasto con l’art. 66, par. 2 della Direttiva n. 2006/112/CE, che prevede per i servizi soggetti al cosiddetto reverse charge l’esigibilità dell’imposta nel momento in cui è effettuata la prestazione, senza possibilità di deroga.
Dal 17 marzo 2012, la regola generale dell’esigibilità dell’IVA ancorata all’atto del pagamento del corrispettivo, di cui all’art. 6, comma 3 del DPR n. 633/1972, rimane in vigore per i servizi interni, per i servizi resi a committenti non soggetti passivi non stabiliti in Italia (cosiddetti rapporti “B2C”) e per i servizi “non generici” di cui agli art. 7-quater (prestazioni relative agli immobili, trasporto passeggeri, ristorazione e catering, locazione a breve di mezzi di trasporto) e 7-quinquies (prestazioni culturali, artistiche, sportive, scientifiche, ricreative).
In nuce, il nuovo momento di effettuazione della prestazione fondato sull’ultimazione della stessa, in base al nuovo sesto comma dell’art. 6 del DPR n. 633/1972, si applica ai servizi “generici” scambiati con soggetti passivi non stabiliti in Italia, siano essi comunitari o extracomunitari. L’estensione “italiana” di tale criterio anche ai soggetti extracomunitari appare estranea alla finalità della normativa comunitaria, che è quella di combattere la frode fiscale, facendo sì “che sia il fornitore sia l’acquirente dichiarino le operazioni intracomunitarie per lo stesso periodo d’imposta”.
Dal punto di vista operativo, il criterio dell’ultimazione dei servizi e, quindi, del momento di emissione della fattura, risulta più complesso e meno obiettivamente identificabile, anche da parte dell’Amministrazione finanziaria, rispetto a quello della data di pagamento, che è certo e incontrovertibile. In ogni caso, giova evidenziare che il criterio del completamento è quello che regola anche la competenza dei servizi ai fini delle imposte dirette, come previsto dall’art. 109, comma 2, lettera b) del TUIR.
Per tentare di contenere, almeno in parte, le complicazioni create dall’adozione del nuovo canone, l’art. 222, par. 1 della Direttiva 2006/112/CE, con effetto dal 1° gennaio 2013, prevede un maggior tempo per adempiere all’obbligo di fatturazione, e, segnatamente, per i servizi “generici” scambiati tra soggetti passivi “la fattura è emessa entro il quindicesimo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il fatto generatore dell’imposta”.
Maggiori difficoltà operative per i servizi “generici” ricevuti
Occorre, da ultimo, rilevare che le difficoltà di individuazione del nuovo momento di effettuazione dei servizi, con conseguente rischio di incorrere in una tardiva fatturazione, avranno conseguenze di particolare intensità, a livello sanzionatorio, per i servizi “generici” ricevuti, che, ai sensi dell’art. 7-ter del DPR n. 633/1972, sono soggetti all’imposta in Italia tramite il reverse charge, piuttosto che per quelli resi, che non sono soggetti all’imposta in Italia.