Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

giovedì 29 marzo 2012

ilcasodelgiorno

Responsabilità della controllante più facile da provare

La responsabilità per violazione dei principi di corretta gestione nell’attività di direzione e coordinamento ha natura contrattuale
/ Giovedì 29 marzo 2012
La responsabilità della “controllante” verso i soci della società controllata per violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nell’attività di direzione e coordinamento ha natura contrattuale; ne consegue la semplificazione dell’onere probatorio in capo ai soci della controllata danneggiati, dal momento che sarà la controllante a doversi esimere da responsabilità provando che l’inadempimento non le è imputabile (per mancanza di dolo o colpa). È quanto emerge dalla sentenza 17 giugno 2011 del Tribunale di Milano.
La natura contrattuale della responsabilità delineata dall’art. 2497 comma 1 c.c. e, in particolare, della società controllante nei confronti dei soci della società controllata, è desumibile dal fatto che la norma prevede obblighi di corretto esercizio del potere di direzione e coordinamento in capo alla holding e nei confronti della società che vi soggiace, trascendendo ampiamente il generale dovere di astensione dal compimento di atti lesivi; inoltre, si tratta di obblighi non volti esclusivamente a tutelare la società eterodiretta, concernendo anche le posizioni soggettive dei suoi soci, specie di minoranza. Si configura, quindi, la sussistenza di un preesistente dovere di protezione, avente contenuto definito, posto a carico della società “dirigente” verso la società “diretta” ed i suoi soci; ovvero una situazione fondante una responsabilità contrattuale, secondo l’ampia accezione che tale responsabilità è venuta assumendo nella più recente evoluzione giurisprudenziale (cfr. Trib. Milano 22 gennaio 2001).
La tecnica di tutela utilizzata, precisa la sentenza in commento, è particolarmente efficace. Essa, infatti, stimola i soci (di minoranza) della controllata all’azione, tramite l’introduzione della responsabilità diretta della controllante nei loro confronti (con conseguente possibilità di vedersi direttamente risarcita la diminuzione di valore o di redditività della loro partecipazione); coinvolge in solido tutti i soggetti partecipanti all’evento lesivo, oltre a chi ne abbia tratto vantaggio (art. 2497 comma 2 c.c.); coinvolge la stessa società controllata nel procurare il soddisfacimento delle ragioni dei propri soci (art. 2497 comma 3 c.c.).
Onere probatorio semplificato in capo al socio della controllata
A fronte di ciò, il socio della società controllata è tenuto a provare: l’esercizio da parte di una società dell’attività di direzione e coordinamento; l’antigiuridicità della condotta, ovvero l’esercizio della suddetta attività nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, vale a dire estraneo a quello della società soggetta ad attività di direzione e coordinamento, in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale delle società sottoposte; l’evento dannoso, ovvero il pregiudizio arrecato al valore o alla redditività della propria partecipazione; il nesso di causalità tra condotta ed evento. La società controllante, di contro, può esimersi da responsabilità provando che l’inadempimento non le è imputabile.
In tale contesto gioca un ruolo fondamentale la previsione di una responsabilità diretta della società controllante nei confronti dei soci della controllata, a fronte di un danno, subìto da questi ultimi, che può anche essere indiretto. Tale, infatti, è il danno subìto dai soci della controllata quale conseguenza di quello direttamente cagionato dalla holding al patrimonio della società controllata (ovvero la diminuzione del valore o della redditività della frazione di capitale della società eterodiretta di cui sono titolari). Ne deriva la “specialità” della previsione normativa sia rispetto alla disciplina generale di cui all’art. 1223 c.c., che rispetto alle azioni esperibili dal socio in nome e per conto proprio nei confronti degli amministratori della società ex artt. 2476 comma 6 c.c. e 2395 c.c. (non in grado di tutelare il socio rispetto al pregiudizio che il valore o la redditività della propria partecipazione subisce da atti di direzione e coordinamento illegittimamente compiuti dalla società “dirigente” e direttamente incidenti solo sul patrimonio sociale).
La decisione del Tribunale di Milano si pone in contrasto con le intenzioni del legislatore della riforma del diritto societario (cfr. la Relazione illustrativa del DLgs. 6/2003). Nella giurisprudenza di merito - a parte il precedente citato nella motivazione (Trib. Milano 22 gennaio 2001) che, relativamente alla disciplina ante riforma, configurava una responsabilità contrattuale a fronte dell’esercizio costante della direzione unitaria - si segnalano App. Milano 17 luglio 2008 e Trib. Napoli 28 maggio 2008, che propendono per la natura extracontrattuale (nel secondo caso, però, con specifico riguardo alla posizione dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della controllata). La dottrina sembra preferire la natura contrattuale della responsabilità in questione. Secondo taluni autori, peraltro, occorrerebbe distinguere: la responsabilità sarebbe contrattuale verso i soci ed extracontrattuale verso i creditori sociali.
redditi diversi

Redditi di capitale e capital gain, arrivano le istruzioni

La circolare 11/2012 dell’Agenzia delle Entrate analizza le modifiche del DL 138/2011, che hanno introdotto l’aliquota unica del 20%
/ Giovedì 29 marzo 2012
L’Agenzia delle Entrate ha diramato ieri, 28 marzo 2012, la circolare n. 11, che analizza il regime dei redditi di capitale e dei redditi di natura finanziaria, ridisegnato dal DL 138/2011 con l’obiettivo di sostituire le aliquote del 12,50% e del 27% delle ritenute e delle imposte sostitutive che gravano su tali redditi con l’aliquota unica del 20%.
Il corposo documento presenta la struttura delle altre circolari che l’Amministrazione finanziaria ha rilasciato in occasione delle precedenti riforme sulla materia: in particolare, come era stato fatto con la C.M. n. 165/E del 24 giugno 1998, sono analizzate in dettaglio tutte le norme modificate, dando un ampio spazio al regime transitorio previsto dal DL 138/2011 per l’affrancamento delle plusvalenze latenti al 31 dicembre 2011 (si veda “Regime transitorio del capital gain, prima scadenza al 31 marzo 2012” di oggi).
Non sfugge neanche la tempistica adottata dall’Agenzia per il rilascio della circolare: tra pochi giorni, infatti (il 31 marzo 2012), scade il primo termine di legge previsto dal Legislatore, rappresentato dalla comunicazione da effettuare all’intermediario presso cui sono intrattenuti rapporti in regime di risparmio amministrato al fine di optare per l’affrancamento dei titoli detenuti (si tratta, naturalmente, di un termine a cui sono soggetti i soli contribuenti che intendano adeguare il valore dei titoli pagando la relativa imposta sostitutiva).
Un primo importante chiarimento della circolare riguarda la circostanza per cui la ritenuta deve essere prelevata nella misura del 20% anche se essa è operata a titolo di acconto; si tratta di una questione sulla quale l’Amministrazione finanziaria non si era ancora pronunciata, e che nasceva dal fatto che la norma fa riferimento ai “redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria”, circostanza che autorizzava anche una lettura per cui le modifiche avrebbero riguardato i soli proventi corrisposti ai soggetti non imprenditori (quando, tipicamente, le ritenute sono operate a titolo di acconto nei confronti dei soggetti imprenditori).
La circolare esamina, poi, tutto il sistema di decorrenze previsto dal DL 138/2011 e dai successivi decreti (in primis il DL 216/2011). In linea generale, la nuova aliquota del 20% si applica ai redditi di capitale esigibili, nonché ai redditi diversi di natura finanziaria, realizzati a decorrere dal 1° gennaio 2012; tuttavia, i provvedimenti correttivi hanno man mano esteso il criterio della maturazione a tutta una serie di proventi, tra cui gli interessi delle obbligazioni e quelli dei conti correnti, facendo di fatto diventare la maturazione il criterio generale (si veda “Per le obbligazioni, aliquota unica per i proventi maturati dal 2012” di oggi).
L’Agenzia delle Entrate esamina, inoltre, tutte le casistiche che, per ragioni di salvaguardia di interessi di natura pubblica, sono state escluse dall’applicazione dell’aliquota del 20% e hanno mantenuto il previgente regime impositivo. Tra queste, quella più importante riguarda i titoli pubblici (italiani ed esteri), che continuano a scontare l’aliquota del 12,50% sia per i redditi di capitale (interessi e scarti di emissione), sia per i redditi diversi di natura finanziaria.
Per quanto riguarda il regime dei dividendi, l’Agenzia delle Entrate conferma che la nuova aliquota del 20% sugli utili derivanti dal possesso di partecipazioni non qualificate (nulla cambia, infatti, per le partecipazioni qualificate) grava sui proventi percepiti dal 1° gennaio 2012, a nulla rilevando la data in cui la distribuzione è stata deliberata, che può essere anteriore a tale data. Viene, altresì, confermato il mantenimento del prelievo dell’11% sui proventi corrisposti a fondi pensione esteri. La circolare 11/2012 precisa poi che, per i dividendi corrisposti agli enti non commerciali, la ritenuta di acconto sulla quota imponibile passerà al 20%, in luogo della previgente misura del 12,50%.
Per quanto riguarda le gestioni individuali di portafoglio, l’Agenzia delle Entrate chiarisce che dal 2012 sono disapplicate, oltre alle ritenute e alle imposte sostitutive previste dall’art. 7, comma 3, del DLgs. 461/97:
- l’imposta sostitutiva sugli interessi delle obbligazioni dei “grandi emittenti” non residenti (art. 2 del DLgs. 239/96);
- la ritenuta sugli interessi delle obbligazioni dei “grandi emittenti” residenti con scadenza inferiore ai 18 mesi;
- la ritenuta sugli interessi e altri proventi dei conti correnti bancari, indipendentemente dall’entità della giacenza media annua;
- la ritenuta sugli interessi dei conti correnti e depositi bancari esteri (art. 26, comma 3, del DPR 600/73);
- la ritenuta sui proventi delle operazioni di riporto, pronti contro termine e mutuo di titoli garantito, a prescindere dalla natura del titolo sottostante.
Iva

Reverse charge anche se il cessionario non è identificato in Italia

La precisazione fornita dalla ris. 28/2012 implica che l’IVA non deve essere assolta dal cedente, previamente identificato in Italia
/ Giovedì 29 marzo 2012
Nelle operazioni per le quali si considera debitore d’imposta il cessionario o committente, è quest’ultimo, anche se non stabilito in Italia, che deve identificarsi ai fini IVA per assolvere gli obblighi (formali e sostanziali) connessi alla cessione o alla prestazione di cui è parte.
Con questo importante principio, espresso dalla risoluzione n. 28 di ieri, 28 marzo 2012, l’Agenzia delle Entrate ha escluso che il debitore d’imposta sia il cedente o prestatore, ritenendo che il divieto di traslazione dell’obbligo d’imposta previsto dall’art. 17, comma 3, del DPR n. 633/1972 non operi laddove, in forza di disposizioni speciali, sia prevista l’applicazione del meccanismo del reverse charge.
Il dubbio interpretativo è stato sollevato in riferimento alle cessioni di rottami e di altri materiali di recupero, per le quali l’art. 74, comma 7, del DPR n. 633/1972 prevede che “al pagamento dell’imposta è tenuto il cessionario, se soggetto passivo nel territorio dello Stato”. Tuttavia, la soluzione offerta dall’Agenzia è estensibile agli altri settori, disciplinati dall’art. 17, commi 5, 6 e 7, del DPR n. 633/1972 (es. mercato dell’oro, subappalti edili, ecc.), rispetto ai quali l’IVA è dovuta dal destinatario del bene o del servizio, in luogo del cedente o del prestatore.
Ipotizzando che né il cedente/prestatore né il cessionario/committente siano stabiliti in Italia, se l’operazione risulta ivi territorialmente rilevante, dovrebbe – in linea di principio – applicarsi la regola di cui all’art. 17, comma 3, del DPR n. 633/1972, secondo cui il reverse charge resta precluso qualora la cessione o la prestazione sia effettuata da un soggetto passivo non residente, privo di stabile organizzazione in Italia, nei confronti di un cessionario o committente anch’esso non stabilito nel territorio nazionale.
Di conseguenza, gli obblighi IVA andrebbero adempiuti dal cedente/prestatore che, in quanto non stabilito in Italia, dovrebbe ivi identificarsi “direttamente” o per mezzo di un rappresentante fiscale, ripristinando così regola generale di cui all’art. 17, comma 1, del DPR n. 633/1972, che considera dovuta l’imposta in capo al cedente/prestatore.
Nella risoluzione in commento si afferma però che tale impostazione è derogata “tutte le volte in cui, in forza di disposizioni speciali, il debitore di imposta sia espressamente individuato, anche per le operazioni fra soggetti stabiliti in Italia, nel cessionario o committente”. In questi casi, “il debitore dell’imposta è da individuarsi in ogni caso nel cessionario, ove soggetto passivo ai fini IVA, anche se non avente né sede né stabile organizzazione in Italia, indipendentemente dal fatto che il soggetto passivo cedente abbia la sede o la stabile organizzazione in Italia e del fatto che tale ultimo soggetto sia identificato ai fini IVA in Italia”.
La risoluzione conclude precisando che il cessionario non stabilito, per assolvere l’obbligo d’imposta, “dovrà identificarsi ai fini IVA in Italia oppure dovrà provvedere alla nomina di un rappresentante fiscale”.
È opportuno osservare che l’Agenzia, a sostegno della propria interpretazione, non ha richiamato la circolare n. 11/2007 (§ 5.1). Eppure, in tale occasione, era già stato chiarito, ancorché rispetto alla disciplina anteriore alle novità introdotte, in materia di debitore d’imposta, dal DLgs. n. 18/2010, che, nel caso in cui appaltatore e subappaltatore siano entrambi soggetti esteri, non stabiliti in Italia, soltanto l’appaltatore, in quanto debitore d’imposta ex art. 17, comma 6, lett. a), del DPR n. 633/1972, è tenuto ad identificarsi in Italia.
Rilevanza per le cessioni di telefonini e dispositivi a circuito integrato
In ogni caso, è rispetto alla risoluzione n. 36/2011 (§ C), avente per oggetto le cessioni di telefonini e di dispositivi a circuito integrato, anch’esse soggette a reverse charge, che le nuove indicazioni dell’Agenzia assumono rilevanza.
È stato infatti specificato che il destinatario della cessione, anche se non residente, ma identificato in Italia, è obbligato all’assolvimento dell’imposta in luogo del cedente. Andava, quindi, definitivamente chiarito se il reverse charge si applicasse anche nell’ipotesi in cui il cessionario non residente fosse privo di identificazione in Italia, posto che – a rigori – la soluzione affermativa, già riconosciuta dalla circolare n. 11/2007, si pone in contrasto con lo status (di “soggetto passivo d’imposta nel territorio dello Stato”) richiesto al cessionario dagli artt. 17, comma 5, e 74, comma 7, del DPR. n. 633/1972, così come interpretato dalla risoluzione n. 36/2011.
reddito d'impresa

Il limite del patrimonio netto incastra l’ACE

Il calcolo del bonus delle società di capitali potrebbe essere impossibile: su tale limite incide l’utile dell’esercizio, a sua volta influenzato dall’ACE
/ Giovedì 29 marzo 2012
Il DM 14 marzo 2012 ha dato attuazione all’art. 1 del DL n. 201/2011 (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 214/2011), concernente l’Aiuto alla crescita economica (ACE). I modelli UNICO 2012 predisposti prima ancora dell’emanazione del decreto attuativo contengono apposite sezioni per l’individuazione della quota di reddito detassata. Nella sostanza, il decreto attuativo ha introdotto, tra le cause antielusive, tutte le fattispecie previste a suo tempo dalla normativa DIT - dual income tax (conferimenti, incremento crediti da finanziamenti, acquisto aziende, all’interno del gruppo), aggiungendone peraltro altre (conferimenti da soci black list e acquisto di partecipazioni in società controllate).
Tra gli elementi positivi della variazione del capitale proprio sono contemplati:
- i conferimenti in denaro, quali, ad esempio, i versamenti a fondo perduto o a copertura di perdite (che vanno ragguagliati a giorni); non rilevano i conferimenti in natura (crediti, aziende, immobili e così via);
- gli utili accantonati a riserva, ad esclusione di quelli destinati a riserve non disponibili, che rilevano per intero, senza necessità di ragguaglio temporale, nel periodo d’imposta in cui vi è la delibera. Occorre sottolineare che rilevano in senso positivo anche gli utili accantonati a riserva legale e gli utili delle cooperative accantonati a riserva indivisibile, posto che si tratta di utili realmente conseguiti, non frutto di mere valutazioni e comunque disponibili per la copertura delle perdite;
- la rinuncia da parte dei soci ai crediti da finanziamento vantati nei confronti della società. Anche tale componente va ragguagliata a giorni e, presumibilmente, per quanto si attenda sul punto la circolare esplicativa, verrà richiesta la data certa (PEC, scrittura autenticata, raccomandata senza busta). Dunque, nell’ipotesi in cui un socio dovesse vantare un credito di natura commerciale, la rinuncia allo stesso non contribuerebbe ad alimentare l’ACE. Da questo punto di vista, rifarsi alla vecchia DIT non ha giovato alla norma e l’esperienza non sembra aver insegnato nulla. È del tutto evidente che, nel caso di specie, per risolvere la questione è sufficiente che il socio incassi il credito e che esegua subito dopo un bonifico con causale “versamento a fondo perduto non restituibile”. Non sembra proprio che si possa eccepire che si tratti di manovra elusiva.
Tra le variazioni in diminuzione figura la distribuzione di riserve ai soci (in denaro e in natura), che rileva nell’anno senza alcun ragguaglio temporale, retrocedendo, in sostanza, al primo giorno dell’esercizio.
Per effetto dell’art. 11, in ciascun esercizio la variazione in aumento rilevante ai fini ACE, così come risultante dalla somma di variazioni positive e negative, non può comunque eccedere il patrimonio netto risultante dal relativo bilancio (incluso l’utile di esercizio), che va peraltro depurato dell’eventuale riserva azioni proprie. La funzione limitativa del patrimonio netto è quella di evitare che si ottenga una variazione agevolabile agli effetti dell’ACE che presuppone l’esistenza di un patrimonio “figurativo” non corrispondente all’effettiva entità contabile. La norma differisce rispetto alla DIT, dove vi era il limite del patrimonio netto, ma, a differenza dell’ACE, acquisito escludendo l’utile dell’esercizio.
Utile dell’esercizio con IRES calcolata senza l’agevolazione ACE
Resta il fatto che, così come già all’epoca per la DIT (dove rilevava però solo la perdita), tale limite comporta anche per l’ACE una sostanziale ingestibilità dei calcoli. Infatti, per stabilire l’importo del patrimonio netto al termine dell’esercizio, incluso l’utile, occorre stabilire l’importo dell’IRES che incide sull’utile. L’IRES, però, è anche funzione dell’ACE, che a sua volta potrebbe essere influenzato dal limite del patrimonio netto, utile compreso. Insomma, il classico cane che si morde la coda. Una soluzione potrebbe essere, laddove si dovesse incontrare questa criticità, di considerare l’utile dell’esercizio con l’IRES calcolata senza l’agevolazione ACE. Ciò potrebbe avvantaggiare la società, poiché suscettibile di alzare l’asticella del limite invalicabile, ma si può dubitare che la generalità delle società possa arricchirsi per questo, considerato che poi il coefficiente moltiplicatore (rendimento nozionale) è fissato nel 3%.
contenzioso

Il 2 aprile scade il termine per versare gli importi per la definizione delle liti

Entro la medesima data deve essere inviata telematicamente la domanda di definizione della lite
/ Giovedì 29 marzo 2012
Il prossimo 2 aprile scadono due termini molto importanti concernenti la definizione delle liti pendenti:
- il termine per il versamento delle somme, che deve avvenire in un’unica soluzione e senza possibilità di avvalersi della compensazione con altri crediti disponibili;
- il termine per l’inoltro telematico della domanda di definizione, adempimento necessario per il perfezionamento della sanatoria.
La definizione delle liti è stata introdotta dall’art. 39, comma 12, del decreto 98 del 2011 ed è circoscritta alle cause su atti emessi dall’Agenzia delle Entrate di valore non superiore a 20.000 euro.
Come evidenziato (si veda “Definizione delle liti pendenti, contano i giudicati formatisi prima della proroga” del 16 marzo 2012), il “decreto milleproroghe” ha postergato alcuni termini relativi alla predetta sanatoria, infatti il termine entro cui avrebbe dovuto essere pendente la lite è passato dal 1° maggio 2011 al 31 dicembre 2011, mentre quello per i versamenti dal 30 novembre 2011 al 2 aprile 2012.
Bisogna rammentare che il rispetto del termine per il versamento, così come quello contemplato per la domanda di definizione, si ergono a condizione per la validità della sanatoria, con la conseguenza che, ove, per ipotesi, il versamento o la domanda fossero tardivi, il contribuente, a settembre 2012, potrebbe ricevere il diniego di condono.
A differenza di quel che è avvenuto nel 2002, non è possibile avvalersi del pagamento rateale degli importi.
Per i versamenti incompleti o errati rimane, però, la possibilità per i contribuenti di invocare l’errore scusabile (si veda “Errore scusabile se l’irregolarità non è dovuta a negligenza” del 28 novembre 2011), il che può tornare utile qualora, ad esempio, il contribuente abbia commesso errori nel calcolo delle somme da condono in ipotesi dubbie, sulle quali vi sono diversi orientamenti. Si pensi al giudizio di rinvio, ove l’Agenzia delle Entrate, anche con la recentissima circolare n. 7 del 2012, continua a sostenere che se la Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza occorre versare nella misura del 30%, quando la stessa Corte di Cassazione si è dimostrata di diverso avviso. Inoltre, la formazione di giudicati interni può causare problemi nel computo del valore della lite, siccome bisogna scorporare la parte di sentenza favorevole da quella sfavorevole, tenendo anche in considerazione i giudicati parziali formatisi.
In arrivo i dinieghi di condono
Tanto premesso, se l’errore scusabile non venisse riconosciuto d’ufficio, il contribuente potrà proporre impugnazione contro il diniego di condono.
È bene ricordare che, in merito alla definizione delle liti pendenti, dopo i versamenti e l’invio della domanda di definizione, la “partita con il Fisco” non può ancora ritenersi chiusa, perchè:
- il 30 giugno cessa la sospensione dei termini per i processi astrattamente definibili, mentre per quelli interessati dalla sanatoria la sospensione cessa al 30 settembre;
- entro il 30 settembre del 2012, l’Agenzia delle Entrate o comunica alla Commissione tributaria la regolarità della definizione, e il processo potrà essere dichiarato estinto, o notifica il diniego di condono.
Si aprirà allora il “contenzioso da condono” che, sul versante processuale, pone molte problematiche sulle quali si avrà modo di tornare.
riscossione

Più facile ottenere la rateizzazione da Equitalia

Con un comunicato stampa, la società di riscossione riepiloga le ultime novità in materia di dilazione
/ Mercoledì 28 marzo 2012
Con un comunicato stampa diffuso ieri, Equitalia ha riepilogato le principali novità in materia di dilazione, a seguito di recenti interventi normativi e regolamentari.
Innanzitutto, il comunicato sottolinea la maggiore facilità di accesso alla rateizzazione delle cartelle di pagamento. Si tratta di una modalità di pagamento apprezzata dai contribuenti, considerando che, dal 2008, è stato concesso più di un milione di rateizzazioni, per un importo che sfiora i 20 miliardi di euro (per i dati suddivisi per Regione, si veda la tabella in calce all’articolo).
Scendendo nel dettaglio delle novità, Equitalia ricorda che il DL n. 201/2011 convertito ha prorogato i termini per beneficiare della rateizzazione: i contribuenti che dimostrano un peggioramento della propria situazione economica, infatti, possono richiedere la proroga della rateizzazione già concessa, per un periodo ulteriore e fino a 72 mesi (sei anni), purché non sia intervenuta decadenza.
Inoltre, il contribuente può chiedere rate d’importo variabile e crescente per ogni anno.
In seguito, il DL n. 16/2012, in vigore dal 2 marzo, ha stabilito che, fin dalla prima richiesta di dilazione, si può chiedere un piano di ammortamento a rate variabili e crescenti anziché a rate costanti. Inoltre, Equitalia non iscrive ipoteca nei confronti di un contribuente che ha chiesto e ottenuto di pagare il debito a rate, e che, di conseguenza, non è più considerato inadempiente e può partecipare alle gare d’appalto.
Infine, per effetto del decreto sulle semplificazioni fiscali, si decade alla rateizzazione solo in caso di mancato pagamento di due rate consecutive.
Dal 2008, concesso più di 1 milione di rateizzazioni, per quasi 20 mld
Sul fronte regolamentare, invece, il comunicato stampa di Equitalia ricorda che la direttiva n. 7 del 1° marzo 2012 ha portato da 5 a 20 mila euro la soglia per ottenere la rateizzazione, solo mediante richiesta motivata che attesti la situazione di temporanea difficoltà economica del contribuente che la presenta (si veda “Equitalia rende più «appetibile» la dilazione” del 2 marzo 2012). Quindi, non occorrono più documenti per dimostrare la situazione economico-finanziaria, che restano necessari solo se il debito supera la nuova soglia.
In relazione, ancora, all’indice Alfa, parametro prima utilizzato per ottenere il rateizzo, esso servirà solo per determinare il numero massimo di rate che possono essere concesse. Si amplia così la platea delle aziende che possono beneficiare del pagamento dilazionato dei tributi non pagati.
accertamento

Rettifica dell’avviamento anche senza il calcolo legale

L’Amministrazione finanziaria è tenuta però ad indicare gli elementi indiziari che l’hanno indotta ad utilizzare metodologie diverse
/ Mercoledì 28 marzo 2012
In caso di cessione d’azienda, il valore di avviamento dichiarato in atto può essere rettificato dall’Ufficio anche con l’applicazione di metodologie differenti da quella prevista per legge ai fini dell’accertamento con adesione, sempre che il Fisco alleghi gli elementi indiziari che lo hanno indotto ad avvalersi di tale diverso metodo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4931 del 27 marzo 2012.
La pronuncia trae origine da una cessione d’azienda per cui, nel relativo atto notarile, le parti avevano dichiarato un valore di avviamento che però, in sede di controllo, l’Ufficio non riteneva congruo, procedendo così alla sua rettifica secondo specifici criteri adottati per il caso di specie. L’art. 51, comma 4, del DPR 131/1986 stabilisce infatti che, per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse, il valore dichiarato è controllato dall’Ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento, al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile, escluse quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere; a tal fine, l’Ufficio può tenere conto anche degli accertamenti compiuti ai fini di altre imposte e può procedere ad accessi, ispezioni e verifiche.
I contribuenti, sin dai gradi di merito, eccepivano che l’Ufficio non si era attenuto ai criteri di rettifica dell’avviamento previsti dall’art. 2, comma 4, del DPR 460/1996, in base al quale, per le aziende e per i diritti reali su di esse, il valore di avviamento è determinato sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3 (cosiddetto criterio della capitalizzazione del reddito economico).
Sia i giudici di prime cure che quelli d’appello stabilivano che l’Ufficio non si era avvalso dell’unico criterio normativamente previsto, precludendosi così la possibilità di assolvere legalmente al proprio onere probatorio e, per questo motivo, si erano pronunciati a favore dei contribuenti.
L’Ufficio può discostarsi dai criteri stabiliti dalla norma
La Cassazione, però, investita della questione, ha ribaltato le conclusioni raggiunte dai giudici di merito, confermando l’orientamento di legittimità ormai consolidato per cui il criterio dettato dal DPR 460/1996 costituisce la procedura transattiva che il legislatore ha previsto affinché l’Amministrazione finanziaria possa addivenire all’accertamento con adesione. Secondo gli Ermellini, tuttavia, se a tali criteri si può attribuire un valore indiziario, esso deve essere inteso nel senso che il valore effettivo dell’avviamento non può essere inferiore a quello cui si perviene mediante la loro applicazione e, di conseguenza, l’Amministrazione finanziaria può anche discostarsi da tali criteri normativamente stabiliti, sostituendoli con altri ritenuti maggiormente significativi nel caso di specie, purché, però, fornisca gli elementi indiziari idonei a supportare tale diversa scelta metodologica (cfr. Cass. n. 20280/2008, n. 16705/2007, n. 3505/2006 e n. 613/2006).
È appena il caso di ricordare in proposito che, solo qualche mese fa, invece, la C.T. Reg. di Milano, con la sentenza n. 16/15/12, aveva stabilito che il metodo di cui al DPR 460/1996, in quel caso utilizzato dall’Ufficio, non era idoneo a cogliere l’effettivo valore dell’avviamento, poiché si basa soltanto su un’elaborazione matematica, mentre la corretta valutazione dell’avviamento richiede la considerazione di ben altri fattori non matematicamente determinabili, quali, ad esempio, le capacità imprenditoriali di organizzazione dei fattori produttivi.

Agevolazioni per gli autotrasportatori anche per il 2012

agevolazioni

Agevolazioni per gli autotrasportatori anche per il 2012

L’Agenzia delle Entrate, con un comunicato stampa, riconferma le misure dello scorso anno
/ Martedì 27 marzo 2012
Confermate anche per il 2012 le misure di favore per gli autotrasportatori, consistenti nella deduzione forfetaria ex art. 66, comma 5 del TUIR e nel credito d’imposta per il recupero di quanto versato al SSN. Lo ha precisato l’Agenzia delle Entrate, con il comunicato stampa pubblicato ieri.
Riguardo alla prima agevolazione menzionata, si ricorda che l’art. 66, comma 5 del TUIR prevede un criterio di deduzione forfetaria dal reddito d’impresa delle spese non documentate, a favore delle imprese di autotrasporto merci per conto terzi. Più precisamente, “per le imprese autorizzate all’autotrasporto di merci per conto di terzi il reddito determinato a norma dei precedenti commi è ridotto, a titolo di deduzione forfetaria di spese non documentate, di euro 7,75 per i trasporti personalmente effettuati dall’imprenditore oltre il comune in cui ha sede l’impresa ma nell’ambito della regione o delle regioni confinanti e di euro 15,49 per quelli effettuati oltre tale ambito”.
Nonostante la suddetta norma individui importi specifici, la misura dell’agevolazione è stata modificata nel corso degli anni, tenendo conto dello stanziamento annuale previsto e dell’adeguamento dei predetti importi all’ISTAT; ciò in ottemperanza al disposto dell’art. 2 comma 1-bis del DL n. 451/1998.
Il comunicato stampa dell’Agenzia precisa che sono confermati anche per quest’anno gli importi già previsti nel 2011 (si veda “Confermata la deduzione per gli autotrasportatori” del 22 giugno 2011). Infatti, secondo quanto espressamente affermato nel comunicato, per i trasporti effettuati personalmente dall’imprenditore oltre il Comune in cui ha sede l’impresa, è prevista una deduzione forfetaria per le spese non documentate, per il periodo d’imposta 2011, pari a:
- 56 euro per i trasporti effettuati all’interno della Regione e delle Regioni confinanti. Tale deduzione spetta anche per i trasporti personalmente effettuati dall’imprenditore all’interno del Comune in cui ha sede l’impresa, per un importo pari al 35% di quello spettante per i medesimi trasporti nell’ambito della Regione o delle Regioni confinanti;
- 92 euro per i trasporti effettuati oltre tale ambito.
Confermati credito e codice tributo
Le imprese di autotrasporto merci per conto terzi o conto proprio possono fruire anche di un credito d’imposta ad hoc, che consente di recuperare quanto versato nel 2011 a titolo di contributo al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) per responsabilità per danni. Vengono, infatti, confermati dal comunicato stampa in commento la misura del credito d’imposta e il relativo codice tributo.
In particolare, le imprese di autotrasporto merci – conto terzi e conto proprio – possono recuperare nel 2012 fino a un massimo di 300 euro per ciascun veicolo, le somme versate nel 2011 come contributo al Servizio Sanitario Nazionale sui premi di assicurazione per la responsabilità civile, per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore adibiti a trasporto merci di massa complessiva a pieno carico non inferiore a 11,5 tonnellate.
Considerato che il credito d’imposta può essere utilizzato in compensazione mediante il modello F24 (ai sensi dell’art. 17 del DLgs. 241/97), l’Agenzia delle Entrate precisa che, anche quest’anno, deve essere utilizzato il codice tributo “6793”.
Imposta di registro

Registro fisso sul concordato preventivo «con garanzia»

L’Agenzia delle Entrate muta orientamento sulla tassazione del decreto di omologa del concordato preventivo
/ Martedì 27 marzo 2012
I decreti di omologazione del concordato preventivo, sia che avvengano “con garanzia”, che con cessione di beni, devono essere assoggettati ad imposta di registro in misura fissa.
Questo è il principio affermato dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 27 di ieri, 26 marzo 2012.
In questo documento, l’Agenzia rivede il proprio precedente orientamento, contenuto nella ris. n. 28 del 2008, in tema di tassazione del concordato preventivo.
In proposito, giova ricordare che il concordato preventivo è una procedura concorsuale alternativa al fallimento, strumentale ad una parziale soddisfazione del ceto creditorio, che consiste, in linea generale, in un accordo tra imprenditore e creditori.
A norma dell’art. 160 L. fall. (RD 267/42), in particolare, l’imprenditore che si trovi in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere:
- “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito”;
- “l’attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore“, con la precisazione che “possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato”;
- “la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei”;
- “trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse”.
Al termine della procedura di “approvazione” del concordato (disciplinata dagli artt. 171 e s.s. L. fall.), il giudice emette un decreto di “omologa” del concordato preventivo che, a norma dell’art. 8 della Tariffa, allegata al DPR 131/86 (che riguarda gli atti giudiziari) deve essere registrato.
Tuttavia, sul corretto trattamento impositivo da applicare a tale sentenza, in caso di concordato cosiddetto “con garanzia”, vi erano orientamenti discordanti nella giurisprudenza e nella prassi dell’Amministrazione finanziaria, anche dovuti all’evoluzione normativa che ha riguardato sia l’imposta di registro che il diritto fallimentare.
Infatti, nella ris. 28/2008, l’Agenzia delle Entrate aveva affermato che il decreto di omologa del concordato preventivo dovesse essere assoggettato ad imposta di registro nella misura proporzionale del 3%, in quanto rientrante tra gli atti di cui all’art. 8, comma 1, lett. b) del DPR 131/86 (atti “recanti condanna al pagamento di somme o valori, ad altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura”). Secondo l’Agenzia, anche a seguito della riforma del diritto fallimentare, infatti, il giudizio di omologazione del concordato preventivo sarebbe un giudizio “a cognizione piena”, con conseguente assoggettamento a tassazione nella misura proporzionale.
In senso opposto, però, si è espressa la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, nelle sentenze 19 maggio 2010 n. 12257 e 7 settembre 2010 n. 19141, ha sostenuto la tassazione in misura fissa (168 euro) per il decreto di omologa del concordato “con garanzia”, ritenendo che tale atto debba rientrare nella previsione della lett. g) dell’art. 8 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR 131/86 (che riguarda gli atti “di omologazione”).
Si privilegia un’interpretazione letterale
Con la risoluzione 27/2012 in commento, l’Agenzia delle Entrate muta orientamento rispetto al passato e accoglie la conclusione giurisprudenziale, affermando che i decreti di omologazione dei concordati preventivi con garanzia (così come i decreti di omologazione di concordati con cessioni di beni) devono essere assoggettati ad imposta di registro in misura fissa, a norma della lett. g) dell’art. 8 citato.
La medesima soluzione non trova applicazione, invece – precisa l’Agenzia – in caso di concordato con trasferimento di beni al terzo assuntore, in quanto in tal caso si realizzano effetti traslativi. Si rientra, pertanto, nella disposizione dettata dalla lett. a) del più volte citato art. 8.
ires

Sulla nuova IRI indicazioni troppo generiche

La bozza di Ddl. delega fiscale ne prevede l’introduzione, ma nulla è stato detto, ad esempio, sulla determinazione della base imponibile
/ Martedì 27 marzo 2012
Come riportato nel quotidiano di sabato scorso, il Governo ha rinviato l’approvazione del Ddl. delega per la riforma fiscale, “al fine di ponderare e analizzare con maggiore attenzione i dettagli tecnici della riforma”.
A tal proposito, uno degli elementi maggiormente caratterizzanti la bozza di Ddl. circolata nei giorni scorsi è rappresentato dall’art. 12, relativo alla tassazione dei redditi prodotti dalle imprese e dai lavoratori autonomi.
In esso si stabilisce che tutti i redditi prodotti nell’esercizio di attività d’impresa o di lavoro autonomo sono assoggettati a un’imposta unica che sostituirebbe tanto l’IRPEF quanto l’IRES. Inoltre, diventano deducibili le somme prelevate dall’imprenditore, dal professionista o dai soci o associati, somme che concorreranno a formare il reddito IRPEF della persona fisica.
L’estrema sinteticità del dato normativo autorizza diverse letture. Dalla semplice previsione di un’aliquota proporzionale unica per titolari di redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa e soggetti IRES, alla cancellazione del Capo V e VI del TUIR, e del Titolo II sempre del TUIR, che disciplinano i predetti redditi.
Se valesse questa seconda ricostruzione e si volesse, quindi, introdurre a tutti gli effetti una nuova imposta (IRI, imposta su reddito imprenditoriale o forse IRIP, imposta sul reddito imprenditoriale e professionale), il Parlamento dovrebbe delineare in modo più dettagliato i caratteri del nuovo tributo, soprattutto con riferimento alla determinazione della base imponibile.
La scelta di rendere deducibili “le somme prelevate” dai soci è tutt’altro che irrilevante sul piano sistematico.
L’art. 60 del TUIR prevede attualmente l’esatto opposto, considerando indeducibili le somme erogate all’imprenditore e ai suoi familiari per il lavoro prestato nell’impresa.
Analogo discorso vale con riguardo alle società per le quali i dividendi, a differenza degli interessi passivi, sono indeducibili.
Dovrebbero essere quindi analizzati e chiariti i rapporti tra la nuova imposta e gli istituti che hanno qualificato l’IRES, quali l’esclusione dei dividendi e la participation exemption.
Nella bozza di Ddl. delega, viene infatti previsto che “le predette somme” concorrono alla formazione del reddito complessivo imponibile ai fini IRPEF, ma nulla si dice con riferimento ai dividendi percepiti dalla società, che dovrebbero essere assoggettati alla nuova IRI e che oggi, ai fini IRES, sono esclusi dal reddito della società nella misura del 95% del loro ammontare.
Non solo: se i dividendi diventano deducibili, dovrebbe essere rivisto anche il meccanismo della participation exemption, che introduce l’esenzione per le plusvalenze da cessione di partecipazione sulla base del presupposto che il soggetto inciso dal tributo deve essere la società e non il socio.
Altro tema di grande rilevanza è quello del principio di competenza. La legge delega del 1971 ne aveva previsto l’applicazione con riferimento ai soli redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali, tant’è che, per quanto riguarda i redditi di lavoro autonomo, proprio il DPR 597/73 aveva introdotto il principio di cassa, innovandosi rispetto al Testo Unico del 1958, che contemplava, invece, quello di competenza.
Questo per dire che il principio di cassa per i professionisti, come il principio di competenza per le imprese, non è certamente un dogma sul piano tecnico, ma vi dovrebbe essere una chiara volontà politica in un senso o in un altro.
L’ipotesi dell’IRI non tiene conto di alcune considerazioni operative
Il nuovo tributo sembra poi trascurare alcune considerazioni operative che rischiano di rendere l’applicazione pratica del nuovo tributo alquanto problematica.
Se il professionista o l’imprenditore individuale possono dedurre le somme prelevate dal reddito di lavoro autonomo o d’impresa per fini personali, diventa difficile tenere traccia di questi passaggi per i soggetti in contabilità semplificata, che dovrebbero passare probabilmente in ordinaria.
Inoltre, si amplificherebbe la questione dell’utilizzo personale di beni relativi all’impresa, oggetto di un recente intervento normativo che ha previsto anche la comunicazione all’Agenzia dei beni assegnati ai soci o ai familiari dell’imprenditore.
Aumenterebbe, infatti, la convenienza per l’imprenditore ad intestare all’azienda anche i beni utilizzati per fini personali; in questo modo, eviterebbe la tassazione sulle somme prelevate per fini personali prevista dalla nuova imposta.
Comportamento certamente illegittimo, ma alquanto complicato da intercettare sul fronte dei controlli fiscali.

Comunicazione per l’agevolazione del 55% entro il 30 marzo

agevolazioni

Comunicazione per l’agevolazione del 55% entro il 30 marzo

Vanno trasmesse le spese sostenute nel 2011 per interventi di riqualificazione energetica se i lavori non sono terminati al 31 dicembre 2011

/ Martedì 27 marzo 2012
I contribuenti che intendono fruire delle detrazioni IRPEF/IRES del 55% per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici esistenti, di cui all’art. 1, commi 344-347, della Finanziaria 2007 (L. n. 296/2006), devono comunicare entro il 30 marzo 2012 le spese sostenute nel 2011 se i lavori non sono terminati entro il 31 dicembre 2011.
L’adempimento, introdotto dall’art. 29, comma 6, del DL n. 185/2008 (conv. L. n. 2/2009), è necessario a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2008 (per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, cioè rispetto alle spese sostenute dal 2009) e soltanto se le spese oggetto di comunicazione riguardano un intervento che si protrae nel periodo d’imposta successivo.
La comunicazione deve essere inviata in via telematica all’Agenzia delle Entrate entro 90 giorni dalla fine del periodo d’imposta in cui sono state sostenute le spese, termine che per i soggetti IRPEF e per i cosiddetti “solari” coincide con il 30 marzo 2012.
Non è invece necessario inviare alcuna comunicazione se, nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2011, non sono state sostenute spese e se, nello stesso periodo d’imposta, i lavori sono stati iniziati e conclusi.
Devono essere indicate le sole spese sostenute nel 2011
Nella comunicazione, devono essere indicate le sole spese sostenute nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2011 (vale a dire nel 2011, per i soggetti “solari”), ancorché l’intervento fosse già avviato nei periodi d’imposta precedenti (ad esempio, nel 2009 e/o nel 2010, per i soggetti “solari”) e, nel corso di questi ultimi, si fossero già effettuati uno o più pagamenti delle spese agevolate.
Possono beneficiare dell’agevolazione in questione sia le persone fisiche, gli enti e i soggetti di cui all’art. 5 del TUIR, sia i soggetti titolari di reddito d’impresa, che sostengono le spese per l’esecuzione degli interventi agevolati su edifici esistenti, su parti di edifici esistenti o su unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, posseduti o detenuti.
Legittimato a fruire della detrazione del 55% e a presentare il modello di comunicazione, quindi, è il contribuente, residente o meno in Italia, titolare o meno di reddito d’impresa, che possiede o detiene l’immobile sul quale viene effettuato l’intervento di riqualificazione energetica, di cui all’art. 1, commi 344-347, della L. n. 296/2006 e ne sostiene le spese. Sono altresì legittimati i familiari conviventi con il possessore o detentore dell’immobile, purché abbiano sostenuto le spese relative all’intervento, e solo nel caso di lavori inerenti immobili che non siano strumentali all’attività di impresa, arte o professione.
Se le spese sono sostenute da più soggetti, la comunicazione può essere trasmessa da uno soltanto di essi (è il caso di comproprietà, contitolarità di diritti reali, coesistenza di più diritti reali sullo stesso immobile e pluralità di locatari o comodatari). Per gli interventi su parti comuni di edifici residenziali, la stessa comunicazione può essere trasmessa dall’amministratore del condominio o da uno dei condomini.
Il modello di comunicazione da utilizzare è quello approvato dal Provvedimento Agenzia delle Entrate 6 maggio 2009, disponibile sui siti dell’Agenzia delle Entrate e del Dipartimento delle Finanze.
L’invio della comunicazione deve avvenire esclusivamente con modalità telematiche, direttamente dai soggetti interessati, ovvero tramite intermediario abilitato (dottori commercialisti, esperti contabili, associazioni di categoria, CAF, consulenti del lavoro, ecc.).
Per la redazione guidata della comunicazione e per la predisposizione del file da inviare telematicamente, sul sito dell’Agenzia delle Entrate è disponibile l’applicativo “Comunicazione per interventi di riqualificazione energetica”.
 / Arianna ZENI

Nel reclamo, valore della lite legato sempre all’atto impugnato

Contenzioso

Nel reclamo, valore della lite legato sempre all’atto impugnato

Se si impugnano più atti con un unico ricorso, si fa sempre riferimento al singolo atto; nelle perdite, si somma all’imposta virtuale quella accertata
/ Martedì 27 marzo 2012
Uno dei tanti aspetti che sono stati chiariti nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 9/2012 concerne la delineazione degli atti reclamabili, con peculiare riferimento al valore della lite.
Prima di tutto, è ormai noto che rientrano nella nuova procedura solo gli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate, con esclusione, ad esempio, delle impugnazioni avverso gli avvisi di pagamento doganali e gli accertamenti emessi dagli enti locali. In merito al valore della lite, si computano le sole maggiori imposte contestate, al netto degli interessi e delle sanzioni amministrative (a differenza di ciò che succedeva nella definizione delle liti pendenti, non ha rilievo che le sanzioni siano o meno collegate al tributo).
Inoltre, bisogna tenere nella dovuta considerazione tre elementi fondamentali:
- se l’Ufficio, con un unico atto, accerta più tributi diversi, o più annualità di un medesimo tributo, occorre sommare i vari tributi avanzati;
- se il contribuente, nel ricorso, impugna solo una parte di atto, è a questa che bisogna fare riferimento per la determinazione del valore (si pensi ad un accertamento analitico-contabile del valore di 30.000 euro, impugnato solo con riferimento a 19.000 euro in quanto il contribuente ha ritenuto fondati uno o più recuperi a tassazione, e ha quindi prestato acquiescenza per una parte dell’atto);
- se il contribuente, mediante un unico ricorso, impugna più atti impositivi, il valore è sempre dato con riferimento all’atto richiesto.
In merito a quest’ultimo punto, il difensore deve fare molta attenzione, e, a nostro avviso, è bene non formare mai un ricorso avverso più atti, a meno che non sia certa la reclamabilità di entrambi. Se si impugna, con unico atto, un provvedimento del valore di 5.000 euro e uno del valore, estremizzando, di 150.000 euro, è chiaro che il reclamo opera solo per il primo: allora, va da sé che il primo soggiace, quanto alla costituzione in giudizio, all’art. 17-bis del DLgs. 546/92, mentre il secondo all’art. 22, con necessità di deposito del ricorso entro 30 giorni dalla notifica dello stesso.
Per l’Agenzia, invece non è così: per tutti e due gli atti, i termini per la costituzione in giudizio decorrono dallo spirare del novantesimo giorno successivo alla notifica del reclamo o dalla data di notifica del diniego di mediazione/accoglimento parziale del reclamo, sulla base di spiegazioni che, tecnicamente, non convincono.
Ad ogni modo, è palese che, così facendo, c’è un concreto rischio di inammissibilità dell’atto non reclamabile, con susseguente responsabilità professionale del difensore.
Vale l’imposta contestata dal contribuente
Relativamente alle sanzioni, queste hanno rilievo sostanzialmente in due casi: in primo luogo, quando il contribuente impugna un atto irrogativo di sole sanzioni; in secondo luogo, quando il contribuente, ricevuto l’accertamento, presta acquiescenza alle imposte e notifica il ricorso, in quanto ritiene fondati i recuperi a tassazione, ma non dovute le sanzioni per obiettiva incertezza normativa o altra causa.
Nelle controversie sulle perdite fiscali, confermando quanto era stato detto in un precedente articolo (si veda “Per il reclamo, da chiarire il valore della lite negli accertamenti su perdite fiscali” dello scorso 15 febbraio), occorre prendere come riferimento l’imposta virtuale (applicando le aliquote vigenti per il periodo d’imposta oggetto di accertamento all’importo che risulta dalla differenza tra la perdita dichiarata, utilizzata e/o riportabile e quella accertata); eventualmente, alla menzionata imposta virtuale può doversi sommare quella effettivamente accertata, ove dall’accertamento sulla dichiarazione in perdita sia emerso un utile.
Invece, in caso di accertamento che rettifica in aumento l’imposta dovuta da una persona fisica che aveva utilizzato una perdita d’impresa per ridurre altri redditi, il valore della lite è dato dalla maggiore imposta accertata e dall’imposta virtuale relativa all’eventuale parte di perdita riportabile.

IVA : Spesometro per il 2011 ancora al buio

iva

Spesometro per il 2011 ancora al buio

A poco più di un mese dalla scadenza, manca la conferma che per la comunicazione relativa al 2011 si applicheranno le vecchie regole

/ Lunedì 26 marzo 2012
Avvicinandosi il termine per la presentazione della comunicazione di cui all’art. 21 del DL n. 78/2010 per l’anno 2011, previsto per il prossimo 30 aprile 2012, resta ancora irrisolta la questione della decorrenza delle modifiche apportate dall’art. 2 del DL 2 marzo 2012 n. 16. In attesa che gli organi competenti chiariscano la questione (ancora meglio sarebbe modificare la norma in sede di conversione in legge del decreto), è bene ricordare che il predetto art. 2, infatti, prevede che “a decorrere dal 1° gennaio 2012”:
- è abolita la soglia minima di 3.000 euro, al netto dell’IVA, per le operazioni per le quali sussiste l’obbligo di emissione della fattura, con conseguente inclusione nella comunicazione, per ciascun cliente e fornitore, di tutte le operazioni attive e passive effettuate (analogamente a quanto già accadeva in passato per gli elenchi clienti e fornitori);
- è al contrario confermata la soglia minima di 3.600 euro per la comunicazione delle operazioni per le quali non sussiste l’obbligo di emissione della fattura.
Come già osservato in un precedente intervento (si veda “Decorrenza incerta per le modifiche allo spesometro del 28 febbraio 2012), le modifiche introdotte intendono senz’altro semplificare l’individuazione delle operazioni da inserire nella comunicazione, anche se introducono alcuni elementi critici.
In particolare, si ricorda che l’obbligo di emissione della fattura dipende dal soggetto che pone in essere l’operazione, e non dalla qualifica della controparte (privato o soggetto passivo IVA).
Ad esempio, in capo ai professionisti (medici, avvocati, notai, ecc.) sussiste sempre l’obbligo di emissione della fattura, e ciò a prescindere dalla natura del committente, ragion per cui tali soggetti dovranno inserire nella comunicazione tutte le operazioni effettuate nello svolgimento dell’attività professionale.
Tale estensione, se da un lato, come già detto, semplifica l’operato dei soggetti in questione, dall’altro lo complica, in quanto sarà necessario reperire tutti i codici fiscali dei clienti con i quali sono state poste in essere le operazioni (elemento non obbligatorio nella compilazione della fattura, ndr), in quanto tale dato sarà senz’altro da indicare nella comunicazione (il cui contenuto, tra l’altro, dovrà essere adattato alle modifiche introdotte dal Legislatore).
Ed in questo ambito, sembra difficile poter sostenere che le modifiche introdotte decorrano già per la comunicazione relativa all’anno 2011, pena l’apertura della stagione di “caccia” ai codici fiscali relativi ai clienti con i quali sono state poste in essere le operazioni nel corso del 2011.
Non si trascuri, inoltre, la necessità di dover apportare alcune modifiche al modello di comunicazione, che dovrà essere adeguato alle nuove regole introdotte dal DL n. 16/2012, ragion per cui anche per tale motivo si ritiene che la decorrenza delle novità debba intendersi riferita necessariamente alle operazioni effettuate dal 1° gennaio 2012, e non dalle comunicazioni presentate a partire dalla predetta data (in tal senso si veda anche la scheda informativa dell’Agenzia).
A tale ultimo proposito, si deve necessariamente considerare che l’eventuale decorrenza delle novità con effetto dalle comunicazioni presentate a partire dal 1° gennaio 2012 potrebbe comportare l’applicazione delle nuove regole anche con riferimento allo “spesometro” dell’anno 2010, per il quale, dopo numerose proroghe, il termine ultimo di comunicazione è spirato il precedente 31 gennaio 2012.
La comunicazione riferita all’anno 2010, si ricorda, è stata (correttamente) compilata tenendo conto solamente delle operazioni per le quali sussiste l’obbligo di fatturazione, e comunque limitatamente a quelle di importo almeno pari a 25.000 euro, al netto dell’IVA. Ora, se le novità in questione fossero “retroattive”, si potrebbe creare una situazione tale per cui tutte le comunicazioni dell’anno 2010 sarebbero “macchiate” da infedeltà, in quanto contenenti solamente le operazioni di importo almeno pari a 25.000 euro, il che sembra francamente eccessivo.
 / Sandro CERATO

lunedì 26 marzo 2012

Iscrizione all`Albo delle imprese artigiane - Decisione entro 60 giorni a pena di decadenza

Il termine di 60 giorni previsto dall’art. 7, comma 2, della legge-quadro n.443/1985 per le deliberazioni da parte delle Commissioni provinciali per l`artigianato nel caso di contestazioni circa l`effettivo possesso dei requisiti per l`iscrizione all`Albo delle imprese artigiane, ha natura di termine decadenziale: cio` comporta che, ove la Commissione non si pronunci entro il termine di 60 giorni sulla richiesta di iscrizione presentata dall`Istituto (a seguito di un accertamento ispettivo) nei confronti di un soggetto, la Sede territorialmente competente provvedera` d`ufficio all`iscrizione.
Lo ha nuovamente chiarito l`INPS con il Messaggio 28 febbraio 2012, n. 3427, richiamando la propria delibera 26 luglio 2006, n. 232.
Con tale delibera, infatti, il C.d.A. dell`Istituto ha affermato che il limite temporale dei 60 giorni di cui all`art. 7 della legge quadro 8 agosto 1985, n. 443 e` "un termine di decadenza, oltre il quale gli atti delle Commissioni provinciali per l’artigianato sono privi di efficacia e non producono effetti ai fini previdenziali e assistenziali, per cui la natura vincolante dei provvedimenti assunti dalle citate Commissioni e` tale solo nel limite temporale posto dalla norma stessa".
Pertanto, nel caso in cui la Commissione Provinciale per l`Artigianato non si pronunci entro il termine di 60 giorni sulla richiesta di iscrizione presentata dall`Istituto (a seguito di un accertamento ispettivo) nei confronti di un soggetto, la Sede territorialmente competente provvedera` d`ufficio all`iscrizione.

La soluzione delle controversie in materia di lavori pubblici. Nuovo regolamento.

Con Provvedimento dell’Autorita` per la vigilanza sui contratti pubblici del 1° marzo 2012 (pubblicato sulla gazzetta Ufficiale n. 65 del 17 marzo 2012) e` stata modificata la disciplina sul procedimento per la soluzione delle controversie ai sensi dell’art. 6, comma 7, lett. n) del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici).
In tale comma si stabilisce che, oltre a svolgere i compiti espressamente previsti da altre norme, l`Autorita`, su iniziativa della stazione appaltante e di una o piu` delle altre parti, esprime parere non vincolante relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, eventualmente formulando una ipotesi di soluzione. In questo caso si applica quanto disposto all’art. 1, comma 67 della L. n. 266/2005 (Legge finanziaria 2006).
Il precedente regolamento era stato emanato con Provvedimento dell’ Autorita` per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture del 10 gennaio 2008, da ritenere ora sostituito dal nuovo regolamento.
Per scaricare il testo del provvedimento con il modulo per la presentazione dell’istanza di parere per le soluzioni delle controversie clicca qui....http://www.autoritalavoripubblici.it/portal/public/classic/Autorita/RegolamentiDiFunzionamento/_NuovoRegPrecontenzioso/regolamento_precontenzioso
Antiriciclaggio

Acquisti degli stranieri con comunicazione entro il 10 aprile

Vale per gli acquisti in contanti di importo pari o superiore a 1.000 euro effettuati dal 2 marzo al 10 aprile
/ Lunedì 26 marzo 2012
Come evidenziato sul numero di sabato, il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, con provvedimento del 23 marzo 2012, http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/23431b004a9e40ae9c12ddf99946a13b/Comunicazione+Adesione+Contanti+TOTALE.PDF?MOD=AJPERES&CACHEID=23431b004a9e40ae9c12ddf99946a13b )  ha approvato il modello (con relative istruzioni) per comunicare l’adesione alla disciplina di deroga alle limitazioni di trasferimento di denaro contante per gli acquisti dei turisti stranieri.
L’art. 3 comma 1 del DL 16/2012 ha disposto che il divieto di trasferimento di denaro contante per importi pari o superiori a 1.000 euro, di cui all’art. 49 comma 1 del DLgs. 231/2007, non opera per l’acquisto di beni e di prestazioni di servizi legate al turismo - effettuato presso esercenti il commercio al minuto o attività assimilate, ex art. 22 del DPR 633/72 (si pensi, ad esempio, a prestazioni alberghiere, somministrazione di alimenti e bevande in pubblici esercizi e prestazioni di trasporto di persone), nonché presso agenzie di viaggi e turismo che effettuano le operazioni per la organizzazione di pacchetti turistici costituiti da viaggi, vacanze, circuiti tutto compreso e connessi servizi, di cui all’art. 74-ter del DPR 633//72 - posto in essere da persone fisiche di cittadinanza diversa da quella italiana e comunque diversa da quella di uno dei Paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo (Liechtenstein, Islanda e Norvegia), che abbiano residenza fuori dal territorio dello Stato.
Tale deroga, però, è applicabile solo in presenza di precise condizioni.
In particolare, il cedente del bene o il prestatore del servizio deve: acquisire, all’atto dell’effettuazione dell’operazione, sia la fotocopia del passaporto del cessionario e/o del committente, sia un’apposita autocertificazione di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000, in cui attesta il fatto di non essere cittadino italiano né cittadino di uno dei Paesi dell’Unione europea (ovvero dello Spazio economico europeo), nonché di possedere la residenza fuori del territorio dello Stato; versare, nel primo giorno feriale successivo a quello di effettuazione dell’operazione, il denaro contante incassato su un proprio conto corrente tenuto presso un operatore finanziario, consegnando a quest’ultimo fotocopia dei documenti di cui sopra e della fattura, della ricevuta o dello scontrino fiscale emesso; avere inviato apposita comunicazione preventiva all’Agenzia delle Entrate, le cui modalità e termini sono precisati dal provvedimento ora intervenuto (ex art. 3 comma 2 del DL 16/2012). http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/1597f4804a9e797f9c67ddf99946a13b/dettaglioarticolo-1.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=1597f4804a9e797f9c67ddf99946a13b.
Si ricorda, peraltro, che, al fine di consentire l’utilizzo della nuova disciplina anche in assenza del provvedimento attuativo, l’Agenzia delle Entrate, con un comunicato stampa del 13 marzo 2012, ha precisato che, fermo il rispetto degli ulteriori adempimenti, per le operazioni di importo superiore alla soglia poste in essere tra il 2 marzo 2012 (data di entrata in vigore del DL 16/2012) e la pubblicazione del modello di comunicazione, gli operatori, una volta disponibile quest’ultimo, avrebbero avuto 15 giorni di tempo per inviare (ex post) la comunicazione stessa all’Agenzia delle Entrate.
Il Provvedimento attuativo precisa ora, da un lato, che il modello deve essere presentato all’Agenzia delle Entrate prima di effettuare le operazioni individuate e, dall’altro, che, con riferimento alle operazioni effettuate dal 2 marzo 2012 al 10 aprile 2012, per le quali si è fruito o si intende fruire delle disposizioni di deroga al divieto di trasferimento del denaro contante, il modello deve essere presentato entro il 10 aprile 2012. Nel predetto periodo transitorio, poi, se la prima operazione è antecedente alla comunicazione, in quest’ultima deve essere indicata, in luogo della data di sottoscrizione, la data di effettuazione dell’operazione.
Modello da presentare esclusivamente in via telematica
Il provvedimento attuativo precisa, inoltre, che il modello di comunicazione deve essere presentato all’Agenzia delle Entrate esclusivamente con modalità telematica. La presentazione può avvenire direttamente da parte dei contribuenti abilitati ai servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate ovvero per il tramite degli intermediari incaricati ex art. 3 commi 2-bis e 3 del DPR 322/98.
A tal fine, i predetti soggetti sono tenuti a trasmettere i dati contenuti nella comunicazione utilizzando il prodotto informatico disponibile gratuitamente sul sito Internet dell’Agenzia delle Entrate ovvero secondo le specifiche tecniche che saranno approvate con successivo provvedimento.
A seguito della presentazione, il servizio telematico rilascia una ricevuta contenente l’esito dell’elaborazione effettuata sui dati pervenuti che, in assenza di errori, conferma l’avvenuta presentazione della comunicazione.
Si segnala, infine, che le istruzioni al modello di comunicazione - diversamente da quanto emergerebbe dalla lettera della norma (che sembra riferirsi al solo “documento” di identità di cui all’art. 2 comma 1 lett. a) del DL 16/2012) - precisano che occorre consegnare all’intermediario oltre al contante ed alla fotocopia della fattura (o ricevuta o scontrino fiscale) emessa, anche la fotocopia sia del passaporto che dell’autocertificazione.
antiriciclaggio

Pronta la comunicazione preventiva per la deroga ai limiti all’uso del contante

Con un provvedimento, l’Agenzia ha approvato modello e istruzioni per aderire alla disciplina introdotta dal DL 16/2012
/ Sabato 24 marzo 2012
Con un provvedimento di ieri, l’Agenzia delle Entrate ha approvato il modello  http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/e5077c004a9e445e9c24ddf99946a13b/22+03+2012+Modello+adesione+con+informativa.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=e5077c004a9e445e9c24ddf99946a13b ) e le relative istruzioni  ( http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/wcm/connect/d5535c004a9e448d9c32ddf99946a13b/22+03+2012+Istruzioni+Modello+adesione.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=d5535c004a9e448d9c32ddf99946a13b) per comunicare l’adesione alla disciplina di deroga alle limitazioni del denaro contante.
A tal proposito, si ricorda che l’art. 3, comma 1 del DL n. 16/2012, per agevolare l’attività delle imprese italiane che operano nel settore del commercio al minuto e delle agenzie di viaggio e turismo, ha introdotto una deroga al limite all’uso del contante in virtù della quale i turisti stranieri possono effettuare acquisti anche per importi pari o superiori a 1.000 euro.
In particolare, il DL dispone che, per l’acquisto di beni e di prestazioni di servizi legati al turismo effettuato presso soggetti di cui agli artt. 22 e 74-ter del DPR 600/73 (cioè presso esercenti il commercio al minuto, o attività assimilate, e presso agenzie di viaggi e turismo) da persone fisiche di cittadinanza diversa da quella italiana e comunque diversa da quella di uno dei Paesi dell’Unione europea (ovvero dello Spazio economico europeo), che abbiano residenza fuori dal territorio dello Stato, non opera il divieto di trasferimento di denaro contante per importi pari o superiori a 1.000 euro di cui all’art. 49, comma 1 del DLgs. 231/2007.
La deroga citata è però applicabile solo in presenza di precise condizioni.
Innanzitutto, il cedente del bene o il prestatore del servizio devono acquisire, all’atto dell’effettuazione dell’operazione, sia la fotocopia del passaporto del cessionario e/o committente, sia un’apposita autocertificazione di quest’ultimo attestante il fatto di non essere cittadino italiano, né di uno dei Paesi dell’Unione europea e dello Spazio Economico Europeo, oltre a possedere la cittadinanza al di fuori del territorio dello Stato.
Nel primo giorno feriale successivo a quello di effettuazione dell’operazione, il cedente del bene e il prestatore del servizio devono versare il denaro contante incassato in un conto corrente intestato al cedente o al prestatore presso un operatore finanziario, consegnando a quest’ultimo fotocopia del passaporto e della fattura o della ricevuta o dello scontrino fiscale emesso.
Inoltre, l’art. 3, comma 2 del DL stabilisce che tale disposizione opera a condizione che i cedenti o i prestatori che intendono aderire alla disciplina di deroga inviino apposita comunicazione preventiva all’Agenzia delle Entrate, secondo modalità e termini stabiliti con provvedimento del Direttore dell’Agenzia stessa, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto.
Il provvedimento di ieri ha approvato, quindi, il modello per la comunicazione preventiva, che deve essere presentato all’Agenzia delle Entrate, con modalità esclusivamente telematica, prima di effettuare le operazioni di cui all’art. 3, comma 1 del DL n. 16/2012.
Periodo transitorio per le operazioni effettuate dal 2 marzo al 10 aprile
Con riferimento alle operazioni effettuate dal 2 marzo (data di entrata in vigore del decreto) al 10 aprile 2012, per le quali si è fruito o s’intende fruire delle disposizioni di deroga al divieto di trasferimento del denaro contante, l’Agenzia precisa che il modello di comunicazione preventiva va presentato entro il 10 aprile 2012. In tale periodo transitorio, se la prima operazione è antecedente alla comunicazione, in quest’ultima va indicata, al posto della data di sottoscrizione, la data di effettuazione dell’operazione.
Penale tributario

Fatture materialmente false senza soglie di punibilità

Si consolida il rigoroso orientamento della Corte di Cassazione
/ Venerdì 23 marzo 2012
Sono sempre più numerose le decisioni della Suprema Corte che affermano il principio secondo cui il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 del DLgs. 74/2000) deve ritenersi configurabile nelle ipotesi di utilizzazione di fatture o altri documenti falsi non soltanto ideologicamente, ma anche materialmente. L’ultimo pronunciamento in tal senso si registra nella sentenza 21 marzo 2012 n. 10987, ma, limitandosi a quelle depositate a partire dall’inizio dell’anno, è possibile ricordare Cass. 12 marzo 2012 n. 9405, Cass. 14 febbraio 2012 n. 5641, Cass. 19 gennaio 2012 n. 2168, Cass. 19 gennaio 2012 n. 2156 e Cass. 13 gennaio 2012 n. 912.
Nel più recente intervento i Giudici di Legittimità sottolineano come tale orientamento sia supportato dalle seguenti argomentazioni: la legge delega per la riforma del sistema penale tributario (art. 9, comma 2, lett. b) della L. 205/99) non ha autorizzato alcuna modifica rispetto alle precedenti disposizioni normative, che assoggettavano le condotte in questione ad un identico regime sanzionatorio (cfr. l’art. 4, lett. a) e d) della L. 516/82); elementi di significato contrario non possono trarsi dalla prospettata correlazione con la fattispecie di cui all’art. 8 del DLgs. 74/2000 (emissione di fatture false), essendo differenti il bene giuridico tutelato ovvero l’interesse patrimoniale dello Stato a riscuotere ciò che è fiscalmente dovuto, nell’art. 2, e la funzione di accertamento del tributo, nell’art. 8 (nessuna connessione, quindi, vi sarebbe con la trasgressione dei propri obblighi da parte del soggetto autorizzato ad emettere documentazione avente rilievo probatorio a fini tributari); non sarebbe razionale configurare una maggiore pericolosità in sé del falso contenutistico rispetto al falso materiale.
Quindi, è reputata legittima la ricostruzione secondo la quale la fattispecie di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000 avrebbe una “struttura bifasica” nella quale la presentazione della dichiarazione, quale momento conclusivo, dà vita ad un falso contenutistico, mentre la condotta preparatoria, ovvero la registrazione o detenzione ai fini di prova di documenti che costituiranno il supporto alla dichiarazione, può avere ad oggetto documenti sia contenutisticamente falsi (emessi da altri in favore dell’utilizzatore), sia materialmente falsi (contraffati o alterati). Il mezzo fraudolento di cui l’agente si avvale per l’indicazione di elementi passivi fittizi, ovvero le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti, è definito dall’art. 1, lett. a) del DLgs. 74/2000, che precisa come debbano considerarsi tali le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’IVA in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.
Per l’individuazione, poi, degli altri documenti aventi valore probatorio analogo alle fatture occorre riferirsi all’art. 21 del DPR 633/72 (sono tali, ad esempio, ricevute fiscali, ricevute per spese mediche o per interessi sui mutui e schede carburanti). La falsità può cadere, in primo luogo, sul contenuto della fattura o del documento rilevante, attestandosi che è stata eseguita un’operazione in realtà non eseguita o che l’importo dell’operazione è superiore a quello reale. Essa, peraltro, potrebbe anche incidere sull’indicazione dei soggetti tra cui è intercorsa l’operazione. In tale contesto, i “soggetti diversi da quelli effettivi” sono quei soggetti che non hanno preso parte all’operazione e che, nonostante ciò, sono ivi indicati. Non vi è fondato motivo, sottolinea però la Suprema Corte, per affermare che l’ipotesi non ricorra anche quando i soggetti che appaiono emittenti del documento siano addirittura inesistenti (trattandosi, ad esempio, di nomi di fantasia) o siano soggetti che nessun rapporto abbiano mai avuto con il contribuente che utilizza il documento medesimo. Anche in tal modo, infatti, il contribuente fa apparire di aver speso somme in realtà non sborsate, con lesione del bene giuridico protetto dall’art. 2 del DLgs. 74/2000.
Ciò che conta, quindi, è la necessità che la fattura o gli altri documenti siano stati emessi a fronte di operazioni non “realmente” effettuate; avverbio con il quale il legislatore avrebbe privilegiato un concetto di inesistenza materiale dell’operazione, come mancante in rerum natura.
La fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 del DLgs. 74/2000), invece, è costruita come “frode contabile” alla quale deve associarsi un quid pluris artificioso non tipizzato, che deve essere diverso dall’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e comunque idoneo ad indurre in errore e ad impedire il corretto accertamento della realtà contabile del soggetto che presenta la dichiarazione annuale d’imposta. Si pensi, ad esempio, alla tenuta di un sistema parallelo di contabilità “nera”, alla vendita “in nero” organizzata in locali contigui a quelli aziendali, alla voluta “confusione” di ricavi provenienti da fonti diverse in modo da impedire di individuare il titolare degli stessi ed allo spostamento artificioso di redditi tra soggetti rivolto a far figurare come percepiti da terzi redditi propri del contribuente.