operazioni straordinarie
Avviamento e registro, per il calcolo non vale il metodo forfetario «astratto»
Secondo la C.T. Prov. di Reggio Emilia, occorre che la valutazione sia vincolata a fattori positivi e negativi che sono specifici di ogni azienda
/ Enrico ZANETTI
/ Venerdì 09 settembre 2011
La quantificazione dell’avviamento aziendale, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro su un atto di cessione d’azienda, non può essere fatta dagli Uffici attraverso un’astratta formulazione del metodo forfetario di calcolo previsto dal comma 4 dell’art. 2 del DPR n. 460/1996, perché è necessario che la valutazione sia invece vincolata a fattori positivi e negativi che sono specifici di ogni azienda.
Questa la conclusione cui è pervenuta la IV sezione della C.T. Prov. di Reggio Emilia nella sentenza 18 agosto 2011 n. 143, in relazione a uno dei sempre più numerosi casi di contenzioso che si generano da rettifiche operate dagli Uffici sul valore dell’avviamento relativo a complessi aziendali oggetto di atti di compravendita.
Nella generalità dei casi, queste rettifiche si fondano su un ricalcolo del valore dell’avviamento basato sulla percentuale di redditività, applicata sulla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi di imposta anteriori a quello in cui è intervenuta la cessione, moltiplicata per tre, fermo restando che:
- la percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d’impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte e nel medesimo periodo;
- il moltiplicatore deve essere ridotto da tre a due nei casi in cui ricorrono alcune particolari condizioni (si vedano “Avviamento, il calcolo forfetario ai fini del registro” del 12 novembre 2010 e “Avviamento, la perizia «batte» i calcoli forfetari degli uffici” del 19 novembre 2010).
Questo è in effetti ciò che prevedeva il comma 4 dell’art. 2 del DPR n. 460/1996, nell’ottica però completamente diversa di fissazione di un criterio oggettivo per l’individuazione di un valore su cui eventualmente gli Uffici avrebbero potuto accettare la proposta di accertamento con adesione da parte del contribuente, in un’epoca in cui questo istituto non era ancora a regime.
Da allora, sempre più frequentemente, gli Uffici utilizzano questo criterio anche per calcolare l’avviamento che avrebbe dovuto essere dichiarato dal contribuente e procedere quindi all’effettuazione delle corrispondenti rettifiche in sede di accertamento.
La sentenza n. 143/2011 della C.T. Prov. di Reggio Emilia eccepisce la carenza di motivazione per accertamenti basati esclusivamente sull’applicazione di questa metodologia forfetaria di calcolo, senza ulteriori riscontri che non siano mere enunciazioni di stile, quali il generico richiamo “all’ubicazione strategica per la potenzialità della clientela beneficiaria dei servizi che l’azienda poteva fornire sul mercato” e altri similari.
Solo in difetto di tali elementi diviene allora possibile procedere con il predetto calcolo forfetario, recita la disposizione non più vigente, ma cui gli Uffici dell’Amministrazione finanziaria ritengono tuttora di poter fare sempre più spesso riferimento.
All’epoca degli accertamenti con adesione ex comma 4 dell’art. 2 del DPR n. 460/1996, la mancanza degli elementi desumibili dagli studi di settore era la regola.
Oggi, invece, non è più così e, quindi, perlomeno con riferimento alle aziende cedute da soggetti che risultano obbligati alla loro presentazione, vi è dunque un motivo in più per contestare l’adeguatezza di un metodo comunque inidoneo a fornire di per se stesso un’adeguata motivazione all’accertamento, ma a maggior ragione non accettabile come tale, nella misura in cui si dimostra applicato in modo nemmeno conforme ai dettami che, implicitamente, l’Ufficio chiama a supporto, nell’istante in cui, così acriticamente, se ne avvale.
Questa la conclusione cui è pervenuta la IV sezione della C.T. Prov. di Reggio Emilia nella sentenza 18 agosto 2011 n. 143, in relazione a uno dei sempre più numerosi casi di contenzioso che si generano da rettifiche operate dagli Uffici sul valore dell’avviamento relativo a complessi aziendali oggetto di atti di compravendita.
Nella generalità dei casi, queste rettifiche si fondano su un ricalcolo del valore dell’avviamento basato sulla percentuale di redditività, applicata sulla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi di imposta anteriori a quello in cui è intervenuta la cessione, moltiplicata per tre, fermo restando che:
- la percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d’impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte e nel medesimo periodo;
- il moltiplicatore deve essere ridotto da tre a due nei casi in cui ricorrono alcune particolari condizioni (si vedano “Avviamento, il calcolo forfetario ai fini del registro” del 12 novembre 2010 e “Avviamento, la perizia «batte» i calcoli forfetari degli uffici” del 19 novembre 2010).
Questo è in effetti ciò che prevedeva il comma 4 dell’art. 2 del DPR n. 460/1996, nell’ottica però completamente diversa di fissazione di un criterio oggettivo per l’individuazione di un valore su cui eventualmente gli Uffici avrebbero potuto accettare la proposta di accertamento con adesione da parte del contribuente, in un’epoca in cui questo istituto non era ancora a regime.
Da allora, sempre più frequentemente, gli Uffici utilizzano questo criterio anche per calcolare l’avviamento che avrebbe dovuto essere dichiarato dal contribuente e procedere quindi all’effettuazione delle corrispondenti rettifiche in sede di accertamento.
La sentenza n. 143/2011 della C.T. Prov. di Reggio Emilia eccepisce la carenza di motivazione per accertamenti basati esclusivamente sull’applicazione di questa metodologia forfetaria di calcolo, senza ulteriori riscontri che non siano mere enunciazioni di stile, quali il generico richiamo “all’ubicazione strategica per la potenzialità della clientela beneficiaria dei servizi che l’azienda poteva fornire sul mercato” e altri similari.
Calcolo forfetario solo in assenza di elementi desunti dagli studi
Peraltro, il dispositivo della sentenza evidenzia in modo condivisibile e davvero apprezzabile come, anche ammesso che la pedissequa applicazione del metodo forfetario, previsto dal comma 4 dell’art. 2 del DPR n. 460/1996, possa avere tutt’oggi una sua dignità motivazionale di per se stessa, la lettera della norma antepone, al calcolo basato su percentuale di redditività e media triennale dei ricavi, la valutazione “sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore”.Solo in difetto di tali elementi diviene allora possibile procedere con il predetto calcolo forfetario, recita la disposizione non più vigente, ma cui gli Uffici dell’Amministrazione finanziaria ritengono tuttora di poter fare sempre più spesso riferimento.
All’epoca degli accertamenti con adesione ex comma 4 dell’art. 2 del DPR n. 460/1996, la mancanza degli elementi desumibili dagli studi di settore era la regola.
Oggi, invece, non è più così e, quindi, perlomeno con riferimento alle aziende cedute da soggetti che risultano obbligati alla loro presentazione, vi è dunque un motivo in più per contestare l’adeguatezza di un metodo comunque inidoneo a fornire di per se stesso un’adeguata motivazione all’accertamento, ma a maggior ragione non accettabile come tale, nella misura in cui si dimostra applicato in modo nemmeno conforme ai dettami che, implicitamente, l’Ufficio chiama a supporto, nell’istante in cui, così acriticamente, se ne avvale.
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