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lunedì 5 settembre 2011

riscossione

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Il Fisco rispetta più la «forma» della «sostanza»

Con tale comportamento, pare difficile sensibilizzare i cittadini sulla necessità e l’importanza di pagare le imposte
/ Sabato 03 settembre 2011
“Tutela dell’affidamento e della buona fede” tra contribuenti e Fisco ancora in alto mare e bilancia della giustizia più formale che sostanziale. Altro che spot anti-evasione.
Lo si percepisce dalla sentenza n. 16551 depositata il 28 luglio 2011, con la quale la Corte di cassazione (sezione tributaria) ha rigettato il ricorso proposto da una società che ha commesso l’imprudenza di pagare due volte una parte della medesima imposta. La vicenda processuale è davvero singolare per non essere raccontata, sia pure in estrema sintesi. (si veda “Per la ripetizione dell’indebito fiscale, necessaria l’istanza di rimborso” del 22 agosto 2011.
Un’importante società nel tessuto economico nazionale aveva impugnato l’atto di diniego del rimborso dell’IRPEG versata in eccedenza rispetto all’importo dovuto. Nella dichiarazione dei redditi 1984 (modello 760/1985) la società, per errore, non aveva indicato le ritenute di acconto subìte sui dividendi distribuiti dalle proprie società controllate e, quindi, non aveva scomputato il relativo importo dall’IRPEG dovuta per il periodo d’imposta in questione. L’istanza di rimborso, presentata nel corso dell’anno 1990, era stata respinta dall’Amministrazione finanziaria perché tardiva ai sensi dell’art. 38, comma 1 del DPR n. 602/1973 (termine di decadenza di 18 mesi dalla data di versamento). Nel ricorso introduttivo la società, invece, ha invocato l’applicazione dell’art. 36-bis del DPR n. 600/1973, trattandosi di pagamento eseguito in virtù di un mero errore materiale rilevabile ictu oculi dall’Amministrazione in sede di controllo della dichiarazione dei redditi, corredata da tutti gli allegati.
La tesi della contribuente era stata accolta dai primi giudici, ma respinta nei successivi due gradi di giudizio di merito. In particolare, la Commissione tributaria centrale ha ritenuto applicabile al caso di specie il citato art. 38. La contribuente avrà realisticamente pensato di avere maggiore soddisfazione dalla Corte di Cassazione. Del resto, avrà memorizzato, si tratta pur sempre di una questione di diritto e la suprema Corte è fonte di principi di diritto.
I giudici di legittimità, invece, hanno condiviso la tesi dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui l’aver omesso di indicare nella dichiarazione dei redditi le ritenute di acconto, come risultanti dalla documentazione allegata al modello 760, non può considerarsi un “errore materiale rilevabile ictu oculi dall’amministrazione finanziaria in quanto tale errore, oltre a non emergere direttamente dalla dichiarazione, non poteva essere automaticamente considerato produttivo di una discrepanza fra imposta dichiarata ed effettivamente versata che evidenziasse l’obbligo dell’amministrazione di procedere al rimborso sul presupposto della chiara e in equivoca intenzione della contribuente di far valere il suo credito d’imposta”.
In buona sostanza, a parere dei giudici del Palazzaccio, nell’ordinamento tributario vige, per la ripetizione del pagamento indebito, un regime speciale basato sull’istanza di parte da presentare, a pena di decadenza, nel termine previsto dalle singole leggi d’imposta o, comunque, dalla norma del contenzioso tributario. Regime che, in linea di principio, impedisce l’applicazione della disciplina per l’indebito di diritto comune.
Morale: la Corte ha rigettato il ricorso, condannando la società al pagamento delle spese processuali.
La società, che ha dovuto sostenere anche gli onorari dei propri difensori in ben quattro gradi di giudizio, ha pagato due volte una parte dell’IRPEG.
In alcuni casi, Cassazione orientata più alla legalità che alla giustizia
Chi scrive si chiede come possa il Fisco “sensibilizzare i cittadini sulla necessità e l’importanza di pagare le imposte” (come recita il comunicato stampa dell’8 agosto 2011, con cui l’Agenzia delle Entrate ha lanciato lo spot anti-evasione), se il suo comportamento è improntato a rispettare più la “forma” che la “sostanza”. Per tacere sull’operato della sezione tributaria della Corte di Cassazione, orientato in taluni casi, come nella fattispecie, a focalizzare la “legalità” piuttosto che la “giustizia”.

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