Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

mercoledì 31 ottobre 2012

Unicità del socio e consenso scritto limitano i poteri degli amministratori di srl

ilcasodelgiorno

Unicità del socio e consenso scritto limitano i poteri degli amministratori di srl

La revoca degli amministratori può essere comunicata in qualsiasi forma
/ Mercoledì 31 ottobre 2012
Una recente sentenza del Tribunale di Torino, del 30 gennaio 2012, ha affrontato una serie di questioni di diritto societario, rilevanti dal punto di vista sia sostanziale che processuale, che si ritiene opportuno ricapitolare.
Innanzitutto, in relazione alla possibilità, nell’ambito delle srl, di adottare decisioni dei soci mediante consultazione scritta o consenso espresso per iscritto, si precisa come la previsione statutaria che affidi all’organo amministrativo il compito di raccogliere i consensi espressi per iscritto e provvedere alla comunicazione dei risultati sia da considerare posta a tutela non dell’amministratore, ma di eventuali minoranze che potrebbero essere escluse dalla decisione. Nel caso di specie, quindi, stante la presenza di un unico socio che esprimeva la decisione non in assemblea e la natura della decisione (di revoca dell’amministratore unico), l’omesso coinvolgimento dell’amministratore costituiva al più un’irregolarità che, non influendo sulla rituale formazione della volontà dell’unico socio, non era in grado di determinarne l’invalidità.
In tema di nomina e revoca degli amministratori, poi, si evidenzia come la previsione di cui all’art. 2383, comma 4 c.c. – ai sensi del quale, entro trenta giorni dalla notizia della loro nomina, gli amministratori devono chiederne l’iscrizione nel Registro delle imprese – sia posta a tutela dei terzi, determinando soltanto la non opponibilità ad essi del mutamento dell’organo rappresentante della società. Non si rinviene alcuna norma, inoltre, che prescriva, a pena d’invalidità, una specifica forma di comunicazione della revoca degli amministratori.
Nel caso di specie, quindi, è stata reputata legittima la comunicazione di revoca dell’amministratore unico effettuata tramite un fax sottoscritto dal nuovo amministratore.
In relazione ai profili processuali, infine, è opportuno sintetizzare la questione giunta all’esame dei Giudici torinesi. L’unico socio di una srl revocava l’amministratore unico senza indicare alcuna giusta causa. L’amministratore impugnava la decisione e chiedeva il risarcimento dei danni. Anteriormente alla prima udienza, la srl sostituiva la decisione impugnata con un’altra recante l’indicazione dei motivi di revoca.
In sede di prima udienza, l’attore integrava la domanda chiedendo la dichiarazione di invalidità anche dell’ulteriore delibera sostitutiva (oltre al risarcimento dei danni). La società convenuta eccepiva, tra l’altro, l’inammissibilità della domanda di annullamento della delibera sostitutiva proposta nel corso della prima udienza; soluzione ritenuta ammissibile da parte attrice in ragione dell’art. 2377, comma 8 c.c. (richiamato per le srl dall’art. 2479-ter, comma 3 c.c.), ai sensi del quale “l’annullamento della deliberazione non può avere luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto”.
Il Tribunale di Torino reputa fondata l’eccezione presentata dalla società convenuta. Nel caso di specie, infatti, non ci si trova di fronte ad un legittimo allargamento del thema decidendum, quale conseguenza della tempestiva proposizione di un’eccezione o di una domanda riconvenzionale, ma ad una nuova domanda di annullamento di una delibera diversa da quella oggetto della domanda introduttiva; questa, caratterizzata da diversa causa petendi e petitum, integra una mutatio libelli che, avuto riguardo al sistema delle preclusioni fissato nel vigente codice di rito, è inammissibile.
Non è prevista una deroga alle modalità d’introduzione delle impugnative
A fronte di ciò, si sottolinea come l’art. 2377, comma 8 c.c. non preveda una deroga processuale alle modalità di introduzione delle impugnative di delibera, disciplinate espressamente dal successivo art. 2378 c.c., quanto piuttosto la regolazione degli effetti processuali dell’intervenuta rimozione (anche in via cautelativa) della deliberazione ritenuta viziata e contestata in giudizio; si prevede, infatti, la possibilità in capo al giudice adito per l’impugnazione della delibera revocata di evitare la celebrazione di processi divenuti inutili, esprimendo incidenter tantum una valutazione di conformità o meno alla legge e allo statuto della delibera sostitutiva (quand’anche già autonomamente impugnata), al fine di verificare l’eventuale permanenza dell’interesse ad ottenere una pronuncia di validità della delibera sostituita.
Dalla suddetta disposizione, peraltro, non può desumersi la regola che sia necessariamente il giudice della delibera revocata ad esaminare congiuntamente anche l’eventuale autonoma impugnazione della delibera sostitutiva (proponibile anche da terzi), la quale ben può essere non meramente reiterativa, ma anche integrativa e, parzialmente, riguardare un oggetto nuovo ed ulteriore. Il giudizio previsto dall’art. 2377, comma 8 c.c., quindi, non può tradursi in una declaratoria di invalidità della successiva delibera e neppure estendersi ad un sindacato su nuovi vizi precedentemente non dedotti, i quali rappresentano una loro fisionomia autonoma che presuppone una specifica impugnazione (cfr. Trib. Milano 2 novembre 2004 e Trib. Salerno 23 giugno 2009).

Per i revisori legali, pronta la modulistica del nuovo Registro

Revisione legale

Per i revisori legali, pronta la modulistica del nuovo Registro

È disponibile sul sito della Ragioneria Generale dello Stato, non solo per l’iscrizione, ma anche per la comunicazione di dati o informazioni al MEF
/ Mercoledì 31 ottobre 2012
A distanza di circa un mese e mezzo dall’entrata in vigore, avvenuta il 13 settembre 2012, dei decreti ministeriali che hanno definito, in attuazione del DLgs. 27 gennaio 2010 n. 39, i requisiti e le modalità per l’iscrizione nel “nuovo” Registro dei revisori legali e nel Registro del tirocinio, è stata messa a disposizione, sul sito della Ragioneria Generale dello Stato, la modulistica per l’accesso ai nuovi Registri, nonché per la comunicazione di dati o informazioni al Ministero dell’Economia e delle Finanze, soggetto incaricato della tenuta dei Registri stessi.
In merito, si ricorda che il 13 settembre scorso costituisce una sorta di “spartiacque” tra la vecchia e la nuova disciplina: come evidenziato dalla Ragioneria Generale dello Stato (si veda “Da oggi in vigore il «nuovo» Registro dei revisori” del 13 settembre 2012), infatti, i revisori e i tirocinanti che presentano richiesta di iscrizione nei rispettivi Registri a decorrere da tale data sono interamente assoggettati alla disciplina prevista dai DM 144, 145 e 146 del 2012, mentre cessano di essere applicate le disposizioni legislative e regolamentari incompatibili con gli stessi.
Mancava, tuttavia, a tal fine, l’apposita modulistica, in quanto – dalla data di entrata in vigore dei citati regolamenti attuativi – per la presentazione di istanze o di comunicazioni non è stato più possibile utilizzare la precedente modulistica (disponibile sul sito www.revisorilegali.it), ormai non coerente con la legislazione vigente.
Con la pubblicazione dei nuovi modelli si compone, quindi, il nuovo sistema di iscrizione ai Registri.
Nel dettaglio, avendo riguardo al Registro dei revisori legali, viene fornita la modulistica da utilizzare:
- per l’iscrizione nel Registro, rispettivamente, delle persone fisiche (modulo RL-01) e delle società di revisione (modulo RL-02);
- per la cancellazione dal Registro da parte, anche qui, delle persone fisiche (modulo RL-91) e delle società di revisione (modulo RL-92);
- in caso di decesso del revisore iscritto nel Registro (modulo RL-93).
Per quanto riguarda, invece, il Registro del tirocinio, viene fornita la modulistica da utilizzare:
- per la richiesta di iscrizione nel Registro (modulo TR-01);
- per la presentazione della relazione annuale (modulo TR-04);
- per il completamento del periodo di tirocinio presso un revisore legale (o società di revisione legale) diverso da quello indicato dal tirocinante al momento dell’iscrizione (modulo TR-10);
- per la cancellazione dal Registro (modulo TR-06).
In tutti i casi, i moduli, che riportano anche il logo di CONSIP), devono essere compilati attraverso pc, sottoscritti dal richiedente e trasmessi a mezzo raccomandata A/R al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ufficio Protocollo Registro Revisori Legali, all’indirizzo Via di Villa Ada 55, 00199 Roma.
Resta quindi fermo, per ora, il canale tradizionale della posta raccomandata, nonostante il DM 144/2012 e il DM 146/2012 prevedano che le domande di iscrizione ai Registri possano essere inviate “anche per via telematica o digitale” ai sensi del DLgs. 7 marzo 2005 n. 82 (cosiddetto Codice dell’amministrazione digitale).
Le nuove domande di iscrizione e di cancellazione devono, poi, essere conformi alle prescrizioni di legge in materia di bollo, devono contenere in allegato la copia del documento di identità del richiedente (persona fisica o legale rappresentante della società) e non devono presentare correzioni o abrasioni manuali.
A latere della pubblicazione della nuova modulistica, pare comunque opportuno evidenziare che, ad oggi, restano ancora da definire le modalità per il passaggio al nuovo Registro dei soggetti già iscritti al 13 settembre 2012 al Registro dei revisori contabili di cui al DLgs. 88/92, i quali – come si ricorderà – dovranno, pena l’applicazione di pesanti sanzioni, inviare apposita comunicazione al MEF, entro il termine di 90 giorni da un’apposita determina del Ragioniere Generale dello Stato, non ancora disponibile (si veda “Accesso al nuovo Registro dei revisori con comunicazione obbligatoria” del 6 settembre 2012).
Peraltro, la modulistica appena pubblicata non esaurisce tutte le comunicazioni previste dalla normativa vigente. In merito, la Ragioneria Generale dello Stato ha precisato che gli ulteriori modelli necessari verranno messi a disposizione nel momento in cui verrà portato in linea il nuovo portale dedicato ai Revisori legali, completo di tutte le informazioni finora non transitate.

Contenzioso Le «avvertenze» al diniego di definizione delle liti complicano il ricorso


Contenzioso

Le «avvertenze» al diniego di definizione delle liti complicano il ricorso

Per vari uffici il ricorso contro il diniego è un’integrazione dei motivi, ma la Suprema Corte «cassa» tale impostazione

/ Mercoledì 31 ottobre 2012
In questi tempi stanno arrivando i dinieghi di definizione delle liti pendenti concernenti l’art. 39, comma 12, del DL 98/2011, per le cui modalità di impugnazione occorre osservare il disposto di cui all’art. 16, comma 8, della L. n. 289/2002.
Tale norma, con una formulazione molto ambigua, afferma che il diniego di definizione della lite pendente deve essere impugnato presso il giudice in cui è pendente la causa o, se pende il termine di impugnazione, unitamente alla sentenza: l’obiettivo è quello di concentrare presso un unico giudice la decisione sulla legittimità della definizione nonché, ove questa fosse negata, quella sul merito.
Abbiamo già rilevato (si veda “Ricorso «insidioso» contro il diniego di definizione delle liti pendenti” dello scorso 21 settembre) che la formulazione dell’art. 16 causa vari problemi interpretativi, il che spiega la ragione per cui molti contribuenti, in merito alla stesura del ricorso contro il diniego, si trovano disorientati.
La particolarità più lampante è rinvenibile nel fatto che il ricorso va formato prendendo come riferimento l’atto “tipico” del grado di merito in cui pende la causa “principale”, quindi, se il contribuente si è avvalso della definizione in appello, il ricorso contro il diniego va eseguito mediante appello, e non tramite ricorso di primo grado, il che, in questo caso, sempre a titolo cautelativo, potrebbe far sorgere la necessità di depositare copia dell’atto di appello anche presso la Provinciale.
L’incertezza vigente in materia è aggravata dal fatto che molti uffici delle Entrate, nelle “avvertenze” al diniego di definizione della lite pendente, affermano che, in sostanza, si tratta di un atto di integrazione dei motivi da formare ai sensi dell’art. 24 del DLgs. 546/92. Con la recentissima sentenza n. 17972 dello scorso 19 ottobre, la Cassazione ha espressamente affermato che il ricorso contro il diniego di condono va fatto mediante ordinario ricorso e non con lo strumento dei motivi aggiunti, in quanto l’art. 16 della L. 289/2002 fissa solo la competenza del giudice, ma non mette in discussione l’iter di instaurazione del contenzioso tributario.
In coerenza con quanto detto dalla Suprema Corte, tale assimilazione è sì errata, ma, dal punto di vista operativo, non dovrebbe causare danni irreversibili (nel caso esaminato dalla Cassazione, dal testo della sentenza non è dato capire se il contribuente, nella pratica, avesse solo depositato l’atto integrativo dei motivi senza notifica a controparte oppure se avesse provveduto prima alla notifica e poi al deposito, rispettando sempre i tempi processuali).
Premesso ciò, l’integrazione dei motivi di ricorso va stesa, di fatto, mediante un atto processuale che assomiglia ad un ricorso, infatti, entro sessanta giorni dalla scoperta del motivo nuovo, occorre notificarlo ed entro i successivi 30 depositarlo in Commissione.
I motivi nuovi possono scaturire solo da documenti non conosciuti depositati dalla controparte, il che ha un ambito applicativo ristrettissimo. Nel caso della definizione della lite pendente, tecnicamente non può trattarsi di integrazione dei motivi, siccome il motivo di ricorso contro il diniego non può essere visto come integrativo dei motivi del ricorso proposto contro l’atto impugnato, la cui causa è oggetto di definizione.
Ogni atto impositivo ha, per così dire, “vita propria”, perciò i motivi sollevati contro l’atto originario non possono essere confusi con quelli relativi al diniego di definizione della lite pendente, che, essendo un atto ulteriore, non può contenere motivi che integrano un precedente provvedimento.
A lato pratico, si potrebbe anche obiettare che poco cambia: secondo la tesi da noi sostenuta, ricevuto il diniego, il contribuente dovrebbe proporre ricorso/appello/ricorso per Cassazione mediante notifica a controparte entro sessanta giorni dalla ricezione del diniego, e provvedere alla costituzione in giudizio (a meno che non siano pendenti i termini per impugnare la sentenza, nel qual caso si impugna il diniego insieme alla sentenza) entro i successivi trenta.
Per l’Agenzia delle Entrate, si notifica entro sessanta giorni dalla ricezione del diniego l’atto integrativo e lo si deposita entro i successivi 30.
Il diverso nomen iuris non dovrebbe cagionare alcun effetto negativo per il contribuente che abbia rispettato i 60 giorni per la notifica e i 30 per il deposito.
Dal lato del contribuente, l’unica questione che può emergere adottando l’una piuttosto che l’altra tesi riguarda il conferimento della procura, che se si tratta di integrazione dei motivi potrebbe anche non esserci, visto che vale la procura conferita nel ricorso originario, ma che di certo deve esserci se si opta per la nostra tesi, posto che si tratta di ricorso contro un diverso atto. Nel dubbio, è bene che il difensore sia sempre munito di incarico, ancorché decida, seguendo le “avvertenze”, di notificare l’atto denominandolo “atto integrativo dei motivi di ricorso”.
/ Alfio CISSELLO

enti locali Scade oggi il termine per deliberare in materia di IMU

enti locali

Scade oggi il termine per deliberare in materia di IMU

A partire da novembre sarà possibile iniziare a calcolare il saldo dell’IMU di dicembre

/ Mercoledì 31 ottobre 2012
Per il 2012, primo anno di applicazione del tributo, il correttivo contenuto nell’art. 4 del DL n. 16/2012, conv. L. n. 44/2012, ha previsto che l’acconto IMU venisse liquidato utilizzando le aliquote e le detrazioni di base stabilite dalla norma nazionale (art. 13 del DL n. 201/2011, conv. L. n. 214/2011), senza cioè attenersi alle deliberazioni assunte in merito dai Comuni.
Questi ultimi, per contro, hanno avuto tempo fino ad oggi, 31 ottobre 2012, per deliberare in materia.
Il termine di cui al comma 12-bis dell’art. 13 del DL n. 201/2011, entro cui i Comuni devono approvare o modificare, sulla base dei dati aggiornati, il regolamento e la deliberazione relativa alle aliquote e alla detrazione del tributo, infatti, è stato differito dal 30 settembre 2012 al 31 ottobre 2012 dall’art. 9, comma 3, lett. a) del DL 10 ottobre 2012 n. 174, che deve essere convertito in legge entro il 9 dicembre 2012.
All’uopo, il Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia ha reso disponibili sul proprio sito internet www.finanze.it, nella sezione “Fiscalità locale/Imu – Imposta municipale propria” tutti i documenti utili per l’applicazione dell’imposta (si tratta, ad esempio, delle Linee guida per la redazione del regolamento dell’11 luglio 2012, di fac-simili di regolamento e delle modalità di trasmissione da parte dei Comuni delle delibere di approvazione delle aliquote e dei regolamenti IMU).
In relazione alle modalità di trasmissione telematica dei regolamenti e delle delibere di approvazione delle aliquote, agli enti che non vi hanno ancora provveduto si ricorda che la procedura è disponibile sul portale www.portalefederalismofiscale.gov.it. Ogni Comune dovrà inserire gli atti esclusivamente in formato pdf seguendo il percorso: “Accesso ai servizi” (per l’accesso devono essere utilizzate le stesse credenziali già assegnate nell’ambito dell’applicazione Siatel 2.0 PuntoFisco) – “Collaborare” – “Dipartimento delle finanze” – “Accedi ai servizi” – “Servizio Regolamenti e delibere tributi comunali. Dati riscossioni ICI-ISCOP” – “Altri tributi” – “IMU Regolamento” o “IMU Delibera aliquote”.
Le modalità di accesso al servizio sono specificate in un’apposita “Guida all’accesso” consultabile dalla home page del portale www.portalefederalismofiscale.gov.it (per eventuali richieste di assistenza, è disponibile anche il numero verde 800 863116).
Prevista la sola trasmissione telematica
Ai fini della pubblicazione delle delibere di approvazione delle aliquote IMU e dei regolamenti IMU sul sito www.finanze.gov.it, l’inserimento di tali atti nell’applicazione informatica di cui si è detto sostituisce ogni altra modalità di invio precedentemente indicata (è disattivata, infatti, la casella di posta elettronica dpf.federalismofiscale@finanze.it che era riservata alle delibere ICI).
La trasmissione telematica, inoltre, è valida anche ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 52, comma 2 del DLgs. n. 446/1997, che riguardava la comunicazione al Ministero delle Finanze dei regolamenti entro 30 giorni dalla data in cui sono divenuti esecutivi e non deve, pertanto, essere accompagnata dall’invio dei documenti in formato cartaceo.
 / Arianna ZENI

Nella locazione di fabbricati, alternatività parziale tra registro e IVA

Immobili

Nella locazione di fabbricati, alternatività parziale tra registro e IVA

Il principio vale solo per gli immobili abitativi, mentre gli immobili strumentali sono sempre soggetti a imposta di registro proporzionale
/ Martedì 30 ottobre 2012
Nelle locazione di fabbricati, il principio di alternatività tra IVA e imposta di registro vale solo per gli immobili abitativi.
Infatti, le locazioni di immobili strumentali sono soggette ad imposta di registro proporzionale, sia ove l’atto sia imponibile IVA, che esente dal tributo.
Invece, per quanto concerne le locazioni di immobili abitativi, ove l’operazione risulti imponibile ad IVA, l’imposta di registro trova applicazione in misura fissa. Inoltre, le locazioni di fabbricati abitativi esenti da IVA non si considerano “soggette ad IVA” ai fini dell’applicazione del principio di alternatività IVA-registro e, pertanto, sono soggette ad imposta di registro in misura proporzionale.
Dunque, per quanto concerne l’imposta di registro, vi sono modifiche conseguenti all’entrata in vigore del DL n. 83/2012, che ha cambiato le carte in tavola in materia di IVA, solo con riferimento a questa tipologia di immobili.
I contratti di locazioni di fabbricati ubicati nel territorio dello Stato devono essere registrati (minimo imposta 67 euro) nel termine di 30 giorni (termine fisso) dalla data di stipulazione dell’atto, a prescindere dall’esenzione o dall’imponibilità ad IVA. Sono pure soggetti a registrazione in termine fisso i contratti formati per iscritto nel territorio dello Stato aventi ad oggetto immobili situati all’estero.
Per tutti i contratti di durata pluriennale, come noto, l’imposta di registro può essere assolta, alternativamente, con frequenza annuale per ciascun anno di durata del contratto o in un’unica soluzione per l’intera durata del contratto.
Sono esclusi i contratti formati per scrittura privata non autenticata di durata non superiore a 30 giorni complessivi nell’anno, i quali sono soggetti a registrazione solo in caso d’uso (cfr. DPR n. 131/1986). Nel caso di contratti di locazione di durata ultranovennale, è prevista, inoltre, anche la trascrizione nei registri immobiliari e il pagamento dell’imposta ipotecaria in misura fissa (168 euro).
Anche il comodato di immobile non sfugge all’obbligo di registrazione
Anche il comodato di immobile non sfugge all’obbligo di registrazione da richiedersi entro 20 giorni:
- dalla data della stipula (se formato per atto pubblico o scrittura privata);
- dall’ultima autenticazione (se per scrittura privata autenticata);
- dall’inizio dell’esecuzione (se trattasi di contratto verbale).
Non deve, invece, registrarsi l’accordo di riduzione del canone immobiliare stipulato con scrittura privata non autenticata, anche se le parti possono comunque registrarlo volontariamente allo scopo di ridurre l’imposta proporzionale dovuta per le annualità successive (risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 60 del 2010).
Nel caso di omessa registrazione dei contratti di locazione, è prevista:
- la nullità di ciò che è pattuito nel contratto;
- una sanzione che va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta;
- nonché, laddove il contratto sia stipulato da privati e in relazione ad esso sia possibile optare per la cosiddetta “cedolare secca”, effetti negativi per il locatore sulla durata del contratto e sull’ammontare del canone.
La disciplina prevista per le locazioni si applica anche alle sub-locazioni (circolare Agenzia delle Entrate n. 12/2007).
 Lelio CACCIAPAGLIA e Francesco D'ALFONSO

Fabbricati abitativi, opzione per l’IVA nell’atto di locazione

Fabbricati abitativi, opzione per l’IVA nell’atto di locazione

Per i contratti stipulati prima dell’entrata in vigore del DL 83/2012, in caso di opzione, l’IVA si potrà applicare al momento della fatturazione dei canoni

/ Martedì 30 ottobre 2012
Per fabbricati abitativi s’intendono gli edifici a destinazione abitativa, classificati o classificabili nelle categorie catastali da A/1 a A/11, esclusa la A/10 (ufficio). In base all’attuale formulazione dell’art. 10, primo comma, n. 8), del decreto IVA, tutte le locazioni di immobili a destinazione abitativa sono esenti ai fini IVA, compresi i leasing di immobili abitativi.
Sono, tuttavia, imponibili ad IVA, a seguito di apposita opzione, le seguenti operazioni:
- locazioni di fabbricati abitativi effettuate dalle (sole) imprese costruttrici degli stessi ovvero dalle imprese che vi hanno eseguito, anche tramite imprese appaltatrici, gli interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), d) ed f), del Testo Unico dell’edilizia di cui al DPR 6 giugno 2001, n. 380;
- locazioni di fabbricati abitativi destinati ad alloggi sociali, come definiti dal DM 22 aprile 2008. Sono, pertanto, esenti da IVA le locazioni di abitazioni non costituenti “alloggi sociali” realizzate da soggetti diversi dalle imprese costruttrici/ristrutturatici.
Per quanto concerne l’opzione per l’imponibilità, tale volontà deve essere manifestata espressamente dal locatore nell’atto di locazione. Per i contratti stipulati prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni e con riferimento ai quali il locatore intenda optare per l’imposizione, al momento della fatturazione e pagamento dei canoni si potrà applicare regolarmente l’IVA.
Per i contratti in corso al 26 giugno 2012, in mancanza di una disciplina transitoria e in attesa di chiarimenti da parte dell’Amministrazione finanziaria per quanto riguarda le modalità attraverso le quali dovrebbe essere espressa l’opzione per l’imposizione, dovrebbe valere quanto segue:
- in caso di subentro in un contratto già in essere, si deve ritenere valida l’opzione formalizzata dal richiedente mediante invio di raccomandata RR all’ufficio dell’Agenzia delle entrate competente (risoluzione n. 2/2008);
- nell’ipotesi di cambio di destinazione di un immobile da uso abitativo a uso strumentale intervenuto nel corso di svolgimento di un rapporto di leasing, dal quale consegue un mutamento del regime IVA applicabile all’operazione, al fine di esprimere validamente l’opzione per l’imponibilità ad IVA, nonché allo scopo di fornire un adeguato supporto documentale al cambio dell’aliquota applicata, il contratto in questione deve essere integrato con un atto in cui venga evidenziata l’avvenuta modifica catastale e manifestata l’opzione per l’imponibilità ai fini dell’IVA (risoluzione n. 364/2007).
Per i contratti in corso al 26 giugno, problema per il registro pagato
Per i contratti in corso a tale data per i quali si opti per l’assoggettamento ad IVA, si pone, inoltre, la problematica dell’eventuale restituzione dell’imposta di registro pagata in unica soluzione per i contratti pluriennali inizialmente esenti da IVA. Infatti, le locazioni esenti da IVA di fabbricati ad uso abitativo sono assoggettate all’imposta di registro proporzionale nella misura del 2% dell’importo dei canoni pattuiti per l’intera durata del contratto.
Per le locazioni imponibili, invece, l’imposta è dovuta nella misura fissa di 67 euro una sola volta e per tutta la durata del contratto.
Per fabbricati strumentali, invece, s’intendono gli immobili appartenenti alle categorie catastali B, C, D, E, e A/10. Per questi immobili, il DL n. 83/2012, in vigore a partire dal 26 giugno 2012, ha previsto l’applicazione di un generale regime di esenzione da IVA nelle locazioni, che può essere derogato, in ogni caso, mediante apposita opzione per l’imposizione. Pertanto, a partire da tale data, gli operatori economici hanno completa libertà di scelta circa il regime applicabile alle locazioni di fabbricati strumentali per natura (esenzione o imponibilità).
L’imposta di registro in questo caso è sempre prevista (sia in presenza di esenzione, sia in presenza di imponibilità) ed è pari all’1% dell’importo dei canoni pattuiti per l’intera durata del contratto.
Nelle locazioni da soggetto privato, poi, l’imposta di registro si applica in misura proporzionale (2%) sull’importo dei canoni pattuiti per l’intera durata del contratto, fermo restando quanto sopra esposto per quanto concerne le locazioni di immobili urbani di durata pluriennale.
Infine, nell’ipotesi in cui, in relazione ad immobili abitativi, il locatore persona fisica opti per l’applicazione della “cedolare secca”, non è dovuta l’imposta di registro.
 / Lelio CACCIAPAGLIA e Francesco D'ALFONSO

iva L’attuale regime dell’IVA per cassa abrogato dal 1° dicembre

iva

L’attuale regime dell’IVA per cassa abrogato dal 1° dicembre

L’IVA «in sospeso» sulle operazioni già effettuate andrà computata nel periodo di incasso/pagamento

/ Lunedì 29 ottobre 2012
Il decreto attuativo ha previsto che la nuova disciplina dell’IVA per cassa si applicherà alle operazioni effettuate dal 1° dicembre 2012.
Pertanto, in conformità all’art. 32-bis, comma 5, del DL n. 83/2012, da tale data sarà abrogato l’attuale regime, regolato dall’art. 7 del DL n. 185/2008, mentre resta confermata l’esigibilità differita a tempo indeterminato per le operazioni di cui all’art. 6, comma 5, secondo periodo, del DPR n. 633/1972, come quelle poste in essere nei confronti dello Stato e di altri enti pubblici.
La decorrenza anticipata rispetto a quella prevista dalle bozze di decreto, fissata al 1° gennaio 2013, potrebbe essere dovuta all’esigenza di evitare una possibile censura da parte degli organi comunitari laddove lo Stato italiano non avesse concluso in tempo utile la procedura di consultazione prevista dall’art. 167-bis della Direttiva IVA.
Gli Stati membri che applicano il nuovo sistema dell’IVA per cassa sono tenuti a stabilire, per i fornitori interessati ad accedervi, una soglia basata sul fatturato annuo non superiore a 500mila euro, elevabile fino a 2 milioni di euro previa consultazione del Comitato IVA; quest’ultima non è indispensabile per i soli Stati membri che, al 31 dicembre 2012, applichino una soglia superiore a 500 mila euro.
L’Italia, avendo adottato la soglia di 2 milioni di euro ex art. 32-bis, comma 1, del DL n. 83/2012, avrebbe dovuto consultare il Comitato IVA dato che, a fine 2012, il limite di volume d’affari previsto dall’attuale regime sarebbe stato di 200mila euro. Anticipando l’applicazione delle nuove disposizioni al 1° dicembre 2012 si evita pertanto l’obbligo in esame, dato che, alla fine dell’anno, la soglia sarà pari a 2 milioni di euro.
Resta, tuttavia, da verificare la legittimità, sempre sul piano comunitario, di tale decorrenza anticipata, considerato che il nuovo regime è stato novellato dalla Direttiva n. 2010/45/UE, le cui disposizioni si applicano a partire dal 1° gennaio 2013.
In assenza di autorizzazione, la decorrenza anticipata potrebbe essere illegittima in quanto il sistema dell’IVA per cassa deroga il principio di simmetria (di cui all’art. 19, comma 1, del DPR n. 633/1972) sia dal lato del cliente, che può esercitare la detrazione anche se l’imposta assolta in rivalsa non è ancora esigibile, sia dal lato del fornitore, il cui diritto di detrazione resta sospeso finché non paga l’imposta dovuta sugli acquisti posti in essere.
A conferma di questa eventualità può richiamarsi la posizione espressa dalla Corte di Giustizia nella causa C-285/10 (Campsa Estaciones de Servicio), riguardante l’applicazione del valore normale, in luogo del corrispettivo pattuito, per la determinazione della base imponibile di determinate operazioni fra soggetti collegati. La Spagna, in particolare, è stata condannata perché, senza autorizzazione, ha imposto il criterio del valore normale prima dell’entrata in vigore della Direttiva n. 2006/69/CE, che ne ha previsto l’obbligo per tutti gli Stati membri.
Come anticipato, nel passaggio al nuovo regime, quello attuale sarà abrogato dal 1° dicembre 2012.
Molti operatori si stanno chiedendo quale sia il periodo di computo dell’IVA “in sospeso” sulle operazioni attive e passive effettuate fino al 30 novembre 2012 nel caso in cui, a tale data, le relative fatture non siano state ancora incassate/pagate.
Dal lato del cliente, per esempio, è stato ipotizzato che l’IVA a credito possa essere detratta a partire da novembre 2012 in quanto riferita ad operazioni assoggettate ad un regime abolito dal mese successivo, ovvero a decorrere da dicembre 2012 dato che, nel nuovo regime, la detrazione non è più “agganciata” al pagamento.
Dal lato del fornitore, invece, a destare confusione sono le norme contenute nel decreto attuativo che regolano il termine dell’opzione e, quindi, la fuoriuscita dal regime. Si è così immaginato che l’IVA a debito debba essere in ogni caso computata nella liquidazione di novembre 2012 anche se le fatture attive non sono state incassate.
In attesa di un chiarimento ufficiale, la soluzione che appare preferibile, in assenza di una disciplina transitoria specifica sul punto, è quella basata sull’effettuazione dell’operazione, quale criterio da assumere, sul piano temporale, per individuare il regime applicabile alle operazioni attive e passive con IVA “in sospeso”.
In altri termini, le operazioni effettuate in applicazione dell’attuale regime restano assoggettate al medesimo, sicché l’IVA a debito e a credito deve essere computata nella liquidazione del periodo (mese o trimestre) in cui le relative fatture vengono, rispettivamente, incassate e pagate, anche se dopo il 30 novembre 2012.
 / Marco PEIROLO FONTE:EUTEKNE

Ritenute con ravvedimento «sprint» entro il 30 ottobre

reddito di lavoro autonomo

Ritenute con ravvedimento «sprint» entro il 30 ottobre

L’omesso versamento del 16 ottobre può essere ancora regolarizzato con sanzioni ridotte

/ Lunedì 29 ottobre 2012
L’omesso versamento, da parte del sostituto d’imposta, delle ritenute relative a prestazioni professionali pagate nel mese di settembre, il cui termine di versamento scadeva il 16 ottobre scorso, può essere regolarizzato attraverso il ravvedimento “sprint” entro domani, 30 ottobre.
Le somme dovute a titolo di ritenuta del 20% sui redditi di lavoro autonomo (art. 25, comma 1 del DPR 600/73) rientrano nella disciplina dei versamenti unificati e della compensazione, di cui all’articolo 17 del DLgs. 241/97, e devono essere quindi versate, mediante modello F24, entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui il pagamento è stato effettuato. Ai fini del versamento della ritenuta occorre utilizzare il codice tributo “1040”.
L’art. 13, comma 1 del DLgs. 471/97 punisce il mancato pagamento di un tributo o di una sua parte, nel termine previsto, con la sanzione del 30% di quanto dovuto. Tale sanzione è stata, tuttavia, ridotta per ritardi non superiori a 15 giorni Infatti, mediante il c.d. ravvedimento “sprint”, la sanzione del 30% viene ulteriormente ridotta, oltre alla riduzione già prevista per il ravvedimento operoso (1/10 del minimo), ad un importo pari ad 1/15 per ciascun giorno di ritardo.
In pratica, per i versamenti tardivi che avvengono nei 14 giorni successivi alla scadenza di legge:
- le sanzioni “ordinarie” variano, a seconda dei giorni di ritardo, dal 2% per un giorno di ritardo (1/15 del 30%) al 28% per 14 giorni di ritardo (14/15 del 30%);
- se entro i suddetti 14 giorni si effettua il ravvedimento operoso, tali sanzioni sono ulteriormente ridotte di 1/10, diventando quindi dello 0,2% per un giorno di ritardo (1/15 del 30% diviso 10) e del 2,8% per 14 giorni di ritardo (14/15 del 30% diviso 10).
Ovviamente, ai fini del ravvedimento operoso, contestualmente alla sanzione ridotta, devono essere pagate le ritenute dovute (ovvero la differenza dovuta) e gli interessi moratori calcolati al tasso legale (2,5% a partire dal 1° gennaio 2012), con maturazione dal giorno successivo a quello di scadenza del versamento fino al giorno in cui il versamento viene effettivamente eseguito (compresi).
Gli interessi sono calcolati secondo la seguente formula: somma da regolarizzare × 2,5/100 × giorni di ritardo/365.
Nel particolare caso del ravvedimento delle ritenute, gli interessi devono essere indicati nel modello F24 insieme alle ritenute, con codice tributo “1040”.
Supponendo che le ritenute sul reddito di lavoro autonomo siano di ammontare pari a 10.000 euro, è possibile fruire del ravvedimento “sprint” il giorno 29 ottobre (oggi), indicando nel modello F24:
- 10.008,90 euro, derivante da 10.000 di ritenute e da 8,90 di interessi (gli interessi sono così calcolati: 10.000 × 2,5/100 × 13/365), con codice tributo “1040”,
- 260 euro a titolo di sanzione, con codice tributo “8906” (10.000 x 2,6%, sanzione calcolata in base al ravvedimento “sprint”, vale a dire 13/15 del 30% diviso 10);
- “09” come mese di riferimento (con il comunicato stampa 14 febbraio 2008, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il mese di riferimento è quello in cui sono stati corrisposti gli emolumenti per i quali si effettua il versamento);
- “2012” come anno di riferimento, vale a dire l’anno a cui si riferisce il ravvedimento.
Nel caso in cui la regolarizzazione avvenga il 30 ottobre (domani), nel modello F24 occorre indicare:
- 10.009,59 euro, derivante dalla costituito dalla sommatoria da 10.000 di ritenute e da 9,59 di interessi (gli interessi sono così calcolati: 10.000 × 2,5/100 × 14/365), con codice tributo “1040”,
- 280 euro a titolo di sanzione, con codice tributo “8906” (10.000 x 2,8%, sanzione calcolata in base al ravvedimento “sprint”, vale a dire 14/15 del 30% diviso 10);
- “09” come mese di riferimento;
- “2012” come anno di riferimento, vale a dire l’anno a cui si riferisce il ravvedimento.
Fino al 15 novembre ravvedimento con sanzione del 3%
Nel caso in cui venga superato il termine per utilizzare il ravvedimento “sprint”, è possibile regolarizzare l’omesso versamento delle ritenute mediante il ravvedimento “breve”, ossia entro 30 giorni dalla scadenza originaria. In tal caso, la lett. a) del comma 1 dell’art. 13 del DLgs. 472/97 prevede la riduzione della sanzione ad 1/10 del minimo, vale a dire sanzione pari al 3% nel caso in cui il mancato pagamento venga effettuato entro 30 giorni. Con riferimento al ravvedimento breve, va rilevato che, ai fini del computo dei 30 giorni, il dies a quo deve identificarsi con quello di scadenza del termine (C.M. 10 luglio 1998 n. 180, § 14). Nel caso in esame si tratta, quindi, del 15 novembre.
Superato il suddetto termine di 30 giorni, la regolarizzazione potrà comunque avvenire mediante ravvedimento nel termine “lungo”, con la sanzione ridotta pari al 3,75% dell’importo non versato.
 / Pamela ALBERTI EUTEKNE

le nuove norme per le cessioni di prodotti agricoli e agroalimentari

agricoltura

Efficaci le nuove norme per le cessioni di prodotti agricoli e agroalimentari

Le novità, contenute nel DL 1/2012, sono in vigore dal 24 ottobre 2012

/ Lunedì 29 ottobre 2012
Dal 24 ottobre 2012 sono efficaci le disposizioni contenute nell’art. 62 del DL n. 1 del 24 gennaio 2012 (convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012 n. 27), che disciplina le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari.
Le disposizioni previste dal citato articolo 62 mirano ad una maggiore trasparenza dei rapporti all’interno della filiera.
Le novità riguardano:
- la previsione dell’obbligo della forma scritta per i contratti di cessione di beni agricoli e alimentari;
- il divieto di pratiche commerciali sleali;
- i termini di pagamento per le cessioni di prodotti agricoli e alimentari (60 giorni per i prodotti non deperibili, 30 giorni per quelli deperibili).
Le modalità applicative di tali disposizioni sono demandate ad un decreto del Ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dello Sviluppo economico.
Sebbene il DM in questione non sia ancora stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, in quanto è al vaglio del Consiglio di Stato, sul sito del citato Ministero (http://www.politicheagricole.it) il documento è stato reso disponibile lo scorso 24 ottobre.
Perentrare nel merito delle novità contenute nell’art. 62, si ricorda che il comma 1 stabilisce che i contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari debbano essere stipulati obbligatoriamente in forma scritta e debbano indicare, a pena di nullità, la durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento. Fanno eccezione i contratti conclusi con il consumatore finale. Le violazioni di tale disposizione sono punite con la sanzione da 516 euro a 20.000 euro (in relazione al valore dei beni ceduti), salvo che il fatto costituisca reato. Per i contratti in essere alla data del 24 ottobre 2012, l’art. 8 del DM 19 ottobre 2012 stabilisce che debbano essere adeguati alle disposizioni contenute nel comma 1 entro il 31 dicembre 2012.
Il comma 2, invece, vieta le pratiche commerciali sleali che potrebbero riguardare i suddetti contratti (ad esempio è vietato imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattive, è vietato subordinare la conclusione, l’esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali all’esecuzione di prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto degli uni e delle altre, è vietato conseguire indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali o adottare ogni ulteriore condotta commerciale sleale che risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento). Il contraente che viola tali disposizioni è punito con la sanzione da 516 euro a 3.000 euro.
Infine, per gli stessi contratti il corrispettivo deve essere pagato:
- entro 30 giorni per le merci deteriorabili (il comma 4 dell’art. 62 del DL n. 1/2012 fa un elenco di quali prodotti alimentari debbano considerarsi deteriorabili);
- entro 60 giorni per tutte le altre merci.
Il calcolo dei giorni decorre dall’ultimo giorno del mese di ricevimento della fattura. Così, ad esempio, per una fattura emessa, spedita e ricevuta nel mese di novembre 2012, il termine per il pagamento scadrà il 29 dicembre (30 giorni) se ha per oggetto prodotti deteriorabili, oppure il 28 gennaio 2013 (60 giorni) se ha per oggetto altri prodotti. La locuzione “dall’ultimo giorno del mese di ricevimento della fattura” ci porta a dover iniziare il conteggio da tale giorno (nel nostro esempio il 30 novembre) e non, invece, dal giorno successivo, che corrisponderebbe al 1° del mese (1° dicembre).
Sul punto, l’art. 5 del DM 19 ottobre 2012, attuativo dell’art. 62 in oggetto, precisa che il cedente deve emettere fattura separata per cessioni di prodotti assoggettate a termini di pagamento differenti e che, in caso di ritardo nel pagamento, la data di ricevimento della fattura è validamente certificata soltanto nel caso di consegna a mano, di invio a mezzo di raccomandata A.R., di PEC o di impiego della fattura elettronica con il sistema EDI (Electronic Data Interchange) o altro mezzo equivalente. In assenza di una data certa di ricevimento, al fine della decorrenza dei giorni, si presume che la stessa coincida con la data di consegna dei prodotti, salvo prova contraria.
Il mancato rispetto dei termini di pagamento sarà punito con la sanzione da 500 euro a 500.000 euro (la misura della sanzione sarà determinata in ragione del fatturato dell’azienda, della ricorrenza e della misura dei ritardi).
Inoltre, dal giorno successivo al termine per il pagamento decorreranno automaticamente gli interessi al tasso maggiorato di due punti percentuali
 / Arianna ZENI EUTEKNE

Accertamento Il trasferimento in un paradiso fiscale non cambia il sistema delle notifiche


A nulla rileva che, ai fini delle imposte sui redditi, viga la presunzione di residenza nello Stato italiano

/ Lunedì 29 ottobre 2012
Una recente sentenza della Cassazione (la numero 17956 dello scorso 19 ottobre) potrebbe contraddistinguersi per aver trattato il caso della validità di una notifica nei confronti di un contribuente che ha spostato la propria residenza in un paradiso fiscale.
In realtà, i giudici confermano principi ormai consolidati, riguardanti gli effetti dei vizi di notifica, affermando, in sostanza, che la nullità della notifica rimane sanata dalla proposizione del ricorso, questione pacifica a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19854 del 2004.
Per questo motivo, è bene svolgere alcune considerazioni strumentali a chiarire eventuali equivoci, i quali potrebbero emergere nel caso in cui un contribuente trasferisca la residenza nei Caraibi, nelle Filippine o in qualsiasi paradiso fiscale.
L’art. 2, comma 2-bis del TUIR afferma che le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in un paradiso fiscale si considerano, ai fini delle imposte sui redditi, come residenti nel territorio dello Stato, con la conseguenza che, salvo prova contraria, i loro redditi sono tassati ovunque prodotti, e non solo se prodotti in Italia.
Questa disposizione ha un valore circoscritto alla determinazione del reddito di questi soggetti, ma non intacca minimamente il sistema delle notifiche, che continua a soggiacere alle norme di cui al DPR 600/73, in particolare all’art. 60.
Se il contribuente va ad abitare all’estero, a prescindere dal fatto che egli si trasferisca in USA o ad Antigua, le notifiche vanno fatte presso l’indirizzo estero se ciò risulta dall’AIRE o se il contribuente ha comunicato all’Amministrazione finanziaria l’indirizzo medesimo.
In caso contrario, vanno eseguite presso l’indirizzo comunicato dal contribuente in Italia, o presso il domiciliatario o il rappresentante fiscale.
Come “ultima spiaggia”, se il contribuente si trasferisce senza nulla dire e senza che sia possibile attivare il canale diplomatico consolare, la notifica può avvenire presso il Comune di ultimo domicilio fiscale anche tramite le forme contemplate per gli “irreperibili assoluti”, perciò con semplice deposito dell’atto presso la casa comunale.
Valgono le regole ordinarie
Ove la menzionata procedura venga inosservata, entrano in gioco i consueti principi affermati dalla giurisprudenza e richiamati dalla sentenza 17956.
Quindi, se l’atto viene notificato in Italia ad esempio presso la vecchia residenza a persona di famiglia, si può sostenere che ciò, di per sé, sia sufficiente per la dichiarazione di illegittimità dell’atto, oppure, accogliendo l’assunto delle Sezioni Unite, che il ricorso sana il vizio, o ancora, come sembrerebbe meglio, che il dies a quo per il ricorso non decorre dal momento in cui, “legalmente”, la notifica si è perfezionata, ma dal momento in cui il contribuente, materialmente, ha preso visione dell’atto, posto che l’inosservanza delle norme sulla notifica impedisce che operi la presunzione di conoscenza dell’atto (si veda la sentenza 2728 del 2011).
In conclusione, prescindendo dal discorso circa gli effetti dell’inosservanza del procedimento notificatorio, mai l’Amministrazione finanziaria potrà notificare l’atto in Italia solo perché la residenza è stata trasferita in un Paradiso fiscale.
 / Alfio CISSELLO EUTEKNE

sabato 27 ottobre 2012

Le nuove norme che disciplinano i contratti agroalimentari (articolo 62 legge 27/2012)

24 ottobre 2012

Pagamenti più rapidi ai produttori agricoli


Pagamenti più rapidi ai produttori agricoli, contratti in forma scritta, divieto di clausole vessatorie, sanzioni da capogiro per chi non rispetta le regole. Sono in vigore da oggi le nuove norme che disciplinano i contratti agroalimentari (articolo 62 legge 27/2012) ed è stato firmato anche il decreto applicativo (ancora non pubblicato nella Gazzetta ufficiale) che ne consentirà l'effettivo utilizzo (ma sono esentati dalla norma i conferimenti dei soci alle cooperative).
Quindi a nulla sono servite le richieste al ministero delle Politiche agricole Mario Catania di slittamento dell'entrata in vigore da parte di Confindustria e Confcommercio. E dal ministero confermano l'entrata in vigore anche se si rassicurano le parti sulla massima disponibilità ad un tavolo di lavoro sulla modifica della legge, tenendo conto delle criticità operative che si dovessero manifestare. In pratica gli aggiustamenti saranno solo in corso d'opera e una volta verificato l'impatto concreto delle norme non essendoci ragioni obiettive in grado di giustificare, secondo il ministero, un rinvio. Anche perché, spiegano dal Mipaf, l'Italia dovrà recepire una normativa comunitaria che sui tempi di pagamento si muove esattamente nel senso della riforma che entra in vigore oggi.
Le novità per gli operatori del settore sono molteplici. Innanzitutto i contratti dovranno avere la forma scritta. Un requisito a pena di nullità ma attenuato grazie al decreto applicativo. Di fatto, la forma scritta è rispettata se ricorrono «situazioni idonee a dimostrare in modo inequivoco la riferibilità del documento scritto». Il decreto conferma che i documenti di trasporto/consegna e le fatture, se contengono tutti gli elementi previsti in modo obbligatorio dalla nuova norma (e cioè: l'indicazione della durata, delle quantità, delle caratteristiche del prodotto venduto nonché del prezzo e delle modalità di consegna e di pagamento) assolvono gli obblighi della forma scritta anche senza recare alcuna sottoscrizione delle parti, alla condizione che riportino la seguente dicitura: «Assolve gli obblighi di cui all'articolo 62, comma 1, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27».
Altro elemento fondamentale è quello dei pagamento delle merci. Infatti, per le derrate deteriorabili il saldo dovrà avvenire entro 30 giorni, mentre per quelle non deteriorabili o sfuse il termine sarà di 60 giorni, sempre dall'ultimo giorno del mese di ricevimento della fattura. Si tratta di un punto molto importante ulteriormente precisato nel decreto attuativo. Infatti, al comma 4 dell'articolo 5 del decreto si precisa che nel caso in cui non vi sia certezza circa la data di ricevimento della fattura, si assume, salvo prova contraria, che la medesima coincide con la data di consegna dei prodotti. Da tale norma discendono due principi importanti; anzitutto che per poter fare realmente decorrere il termine per gli interessi di mora dal momento del ricevimento della fattura è necessario poter dimostrare una data certa di ricevimento della stessa (ad esempio con invio a mezzo di raccomandata, di posta elettronica certificata o di impiego del sistema Edi o altro). Nel caso in cui non sia possibile offrire questa garanzia formale della data certa è sempre ammessa la cosiddetta "prova contraria" da parte del destinatario della fattura (ad esempio usando la data contenuta nel timbro postale).
Darà filo da torcere la distinzione tra alimenti deperibili e non, da cui derivano i diversi tempi di pagamento. Ad esempio, il surgelamento è sicuramente «un trattamento atto ad allungare i tempi di durabilità» oltre i 60 giorni ma ciò che dovrebbe valere per le verdure non riguarda le carni e il pesce che restano, anche in caso di surgelamento, "deteriorabili" prevalendo le caratteristiche organolettiche sul tipo di trattamento.
fonre sole24ore

A rischio la donazione d’azienda in favore di una srl

ilcasodelgiorno

A rischio la donazione d’azienda in favore di una srl

In tal caso, in capo al donatario potrebbe verificarsi una sopravvenienza attiva imponibile

/ Sabato 27 ottobre 2012
Il trasferimento d’azienda a titolo gratuito (mortis causa o per donazione) non configura operazione suscettibile di determinare realizzo di plusvalenze (cfr. art. 58 del TUIR): in tal caso, l’azienda è assunta dall’erede o dal donatario ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti in capo al dante causa (de cuius o donante).
Gli stessi criteri devono essere applicati quando, per effetto dello scioglimento della società tra gli eredi entro i cinque anni dalla successione, l’azienda resti acquisita da uno di essi.
Attraverso la disposizione in commento, si evita di rendere imponibile ai fini delle imposte sui redditi la scelta del soggetto che intende, in modo non oneroso, attuare il passaggio generazionale d’impresa.
Sul tema della donazione d’azienda, è intervenuto lo studio del Consiglio nazionale del Notariato n. 36/2011 del 15 luglio 2011, il quale osserva che l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti in capo al dante causa, con la conseguenza che il valore fiscale riconosciuto in capo al donatario può essere solo quello che, al momento della donazione, l’azienda aveva nella contabilità (rilevante fiscalmente) del donante.
In altri termini, ciò significa che il donatario riceve l’azienda, dal punto di vista fiscale, non a “valori correnti”, bensì a “valori storici”, con significative ripercussioni in termini di determinazione del proprio reddito di impresa. Infatti, la successiva vendita della totalità o di parte dell’azienda posta in essere dall’imprenditore donatario comporterà l’emersione di quelle plusvalenze non tassate in occasione del precedente passaggio gratuito dell’azienda, proprio per la continuità del valore fiscale del complesso aziendale.
Ne deriva che il donatario potrà essere tassato per plusvalori che sono maturati nel periodo di possesso del donante.
Il sistema della continuità dei valori fiscali sopra illustrato non comporta l’assenza di tassazione sui plusvalori aziendali, ma solo un rinvio d’imposizione, dato che tali plusvalenze latenti saranno considerate al momento della successiva cessione dell’azienda da parte del donatario.
Alla disposizione in esame si affianca quanto previsto dall’art. 67, comma 1, lettera h-bis) del TUIR, che consente la tassazione, quali redditi diversi, delle plusvalenze realizzate da persone fisiche a seguito di “cessione, anche parziale” di aziende acquisite a titolo gratuito.
In questo modo, la cessione dell’azienda potrà determinare un reddito in capo al donatario pari alla differenza tra il corrispettivo ed il valore fiscale che la medesima aveva nella contabilità del donante.
L’imprenditore donatorio è in una posizione più semplice
Un ulteriore aspetto analizzato dallo Studio n. 36/2011 è quello relativo ai soggetti coinvolti nell’operazione. In primo luogo, si osserva che il regime di neutralità fiscale non risulta subordinato né a condizioni soggettive del donatario (che può essere una persona fisica o un ente), né a particolari legami personali o familiari tra donante e donatario (a differenza delle agevolazioni previste nell’imposizione indiretta).
Tuttavia, si rileva che, qualora il donatario sia un imprenditore oppure una società commerciale, qualche cautela risulta sicuramente necessaria, se si considera che, in base alle regole del reddito d’impresa, le liberalità ricevute nell’esercizio dell’impresa costituiscono sopravvenienze attive ex art. 88, comma 3 del TUIR.
L’applicazione di tale disposizione potrebbe quindi comportare che, nel periodo d’imposta in cui la donazione è compiuta, l’imprenditore donatario debba rilevare un maggior reddito di impresa pari al valore normale dell’azienda ricevuta.
Secondo lo studio n. 36/2011, se dall’atto di donazione non emerge alcuna specifica inerenza del trasferimento dell’azienda all’impresa del donatario e l’eventuale destinazione a quest’ultima si configura come una scelta successiva, libera e quindi non sindacabile, del soggetto, pare potersi affermare l’inapplicabilità dell’art. 88, comma 3 del TUIR e la non emersione di sopravvenienze attive.
Lo stesso non si può invece dire qualora il donatario sia una società commerciale (di persone o di capitali) o un ente commerciale, visto che per questi soggetti non è configurabile fiscalmente una sfera “extra-imprenditoriale”.
In questo senso, per citare un esempio, la donazione dell’azienda dell’imprenditore individuale alla società costituita dai propri figli è sicuramente da sconsigliare, se si considerano gli alti costi fiscali nelle imposte sui redditi (e anche quelli nella imposizione indiretta). Potrebbero però essere percorribili strade giuridicamente alternative, come quella del conferimento d’azienda in società con successiva donazione delle partecipazione agli altri soci.

Liberi professionisti ancora soggetti alla tutela dei dati personali

24 ottobre 2012

Liberi professionisti ancora soggetti alla tutela dei dati personali


Nuove modifiche al Codice della privacy (DLgs. 196/2003). Il Ddl. contenente disposizioni di semplificazione amministrativa (“pacchetto semplificazioni”), approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 16 ottobre, infatti, tenta di riallineare, anche se con qualche preoccupazione del Garante per la privacy, la normativa italiana alla disciplina comunitaria, rimuovendo inutili oneri a carico di imprese e professionisti italiani.

Il disegno di legge segue altri recenti interventi di semplificazione, fra i quali si segnala:
- il DL 201/2011, che ha limitato l’ambito di applicazione del Codice della privacy,
- il DL 5/2012, che ha abrogato l’obbligo di redazione o aggiornamento del Documento Programmatico sulla Sicurezza (DPS) e
- il DLgs. 69/2012, con il quale sono state recepite nel nostro ordinamento le direttive 2009/136/CE, in materia di trattamento dei dati personali e tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, e 2009/140/CE, in materia di reti e servizi di comunicazione elettronica, e del regolamento (CE) n. 2006/2004, sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori.

Con il Ddl. (art. 17), in primo luogo, ai sensi del nuovo comma 3-bis dell’art. 5 del Codice, verrebbe escluso dall’ambito di applicazione del Codice della privacy il trattamento dei dati personali “di chi agisce nell’esercizio dell’attività di impresa, anche individuale”. Tale deroga era già stata prevista per le imprese gestite in forma societaria dall’art. 40, comma 2, del DL 201/2011 che ha, in particolare, modificato l’art. 4, comma 1, del Codice, ai sensi del quale per “dato personale” si intende esclusivamente qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero d’identificazione personale (lett. b) e per “interessato”, la persona fisica cui si riferiscono i dati personali (lett. i).

Inoltre, verrebbe sostituito l’art. 36 del Codice della privacy, che affida ad apposito decreto interministeriale l’adeguamento del disciplinare tecnico di cui all’Allegato Bal Codice, relativo alle misure minime di sicurezza (da parte del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, previo parere del Garante e sentite le associazioni rappresentative a livello nazionale delle categorie economiche coinvolte). Verrebbe, poi, introdotta la possibilità di definire, con lo stesso decreto, modalità semplificate di adozione delle misure minime in caso di trattamenti effettuati, in particolare, presso piccole e medie imprese, liberi professionisti e artigiani.

Con riferimento ai liberi professionisti, si potrebbe sollevare la questione dell’applicabilità dell’art. 17 del Ddl. anche agli stessi. Proprio il fatto che nelle modifiche all’art. 36 si parli espressamente di “liberi professionisti” in aggiunta a “piccole e medie imprese”, potrebbe far propendere per l’esclusione dalla “nozione” di “impresa” anche di tale categoria. In tale accezione, allora, i professionisti resterebbero soggetti alla normativa di tutela dei dati personali, e, in particolare, anche in quanto incaricati della trasmissione delle dichiarazioni.

A tal proposito, si ricorda che L’Agenzia delle Entrate, con il comunicato del 3 agosto 2011, inviato ai CAF e agli altri intermediari abilitati al canale Entratel, aveva reso noto l’avvio, a partire dal secondo semestre 2011, di nuovi e più articolati controlli, segnalando, tra le conseguenze in caso di irregolarità riscontrate, la revoca dell’abilitazione al canale Entratel. Le operazioni di verifica riguardano in generale l’adozione, da parte degli intermediari, di tutte le cautele necessarie a proteggere i dati personali e sensibili di cui vengono a conoscenza nello svolgimento della propria attività. Nello specifico, sono tre i settori d’intervento: la struttura organizzativa dell’intermediario, le misure di sicurezza relative ai supporti tecnologi utilizzati, ulteriori misure di sicurezza.

Con riferimento al primo ambito di controllo, il comunicato dell’Agenzia delle Entrate ha individuato l’esistenza del DPS, la misura minima di sicurezza prevista, in relazione all’obbligo generale di protezione dei dati personali, dall’art. 34, comma 1, lett. g), e dall’Allegato B, punto 19, del Codice della privacy, per la cui redazione o aggiornamento era previsto il termine del 31 marzo di ogni anno. L’obbligatorietà di tale misura è stata soppressa ad opera del DL 5/2012.

Come già evidenziato (si veda “Nei controlli Privacy per gli intermediari Entratel, il DPS può essere ancora utile” del 26 luglio 2012), nonostante ciò, se redatto correttamente, il DPS potrebbe rappresentare uno strumento utile per tenere sotto controllo l’adozione di tutte le misure di sicurezza così come richiesto dall’Agenzia. Ove, infatti, molti dei capitoli in esso compresi fanno proprio riferimento alle procedure di sicurezza oggetto di controllo degli Auditor.
 
Massimo Negro e Roberta Vitale - EUTEKNE.INFO

La mediazione obbligatoria è incostituzionale

diritto civile

La mediazione obbligatoria è incostituzionale

Con un comunicato stampa, la Consulta ha reso nota l’illegittimità del DLgs. 28/2010 nella parte in cui prevede il carattere obbligatorio dell’istituto

/ Giovedì 25 ottobre 2012
Illegittimità costituzionale del DLgs. 28/2010 “nella parte in cui ha previsto il carattere obbligatorio della mediazione”. È quanto emerge da un comunicato stampa diffuso dalla Corte Costituzionale ieri, nel quale viene dichiarato l’eccesso di delega legislativa.
La decisione della Consulta – che, dunque, riguarderebbe l’art. 5, comma 1, del DLgs. 28/2010 - è giunta dopo, in particolare, l’ordinanza del TAR Lazio 12 aprile 2011, che aveva dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di alcuni articoli del DLgs. 28/2010 (si veda “Sulla mediazione tocca alla Consulta” del 13 aprile 2011).
Non verrebbe toccato il sistema della mediazione in sé e, dunque, le altre forme di mediazione, quali quella demandata dal giudice e quella facoltativa.
Nulla di più viene spiegato nel comunicato, ma ciò basta per far cadere la configurazione dell’esperimento della mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale per la risoluzione delle controversie nelle materie elencate al citato comma 1 dell’art. 5 del DLgs. 28/2010. Nello specifico: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
Per la risoluzione di tutte le sopra citate controversie, le parti erano vincolate a esperire il procedimento di mediazione prima di adire le vie giudiziali. Diversamente, la domanda sarebbe stata improcedibile: l’improcedibilità doveva essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove avesse rilevato che la mediazione era già iniziata, ma non conclusa, fissava la successiva udienza dopo la scadenza del termine per la conclusione della medesima (pari a 4 mesi). In egual modo provvedeva quando la mediazione non era stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione.
A tal proposito, si ricorda che la mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali è stata disciplinata dal DLgs. 28/2010, in attuazione dell’art. 60 della L. 69/2009, nel quale, fra i vari principi e criteri direttivi, non è stato fatto alcun riferimento all’obbligatorietà o facoltatività della mediazione.
La L. 69/2009 non fa riferimento all’obbligatorietà o meno
Solo la lett. n) al comma 3 dell’art. 60 citato prevede “il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione”.
In attesa di leggere le motivazioni della Corte Costituzionale, si osserva che la finalità del provvedimento in oggetto è stata principalmente quella di utilizzare la mediazione come strumento deflattivo, in grado di ridurre in modo significativo il numero di liti gestite dalla giustizia ordinaria. Mediazione, poi, come rimedio alternativo alla tutela giudiziaria ordinaria rivolto a cittadini e imprese per limitare la durata dei tempi processuali e le formalità, oltre che per contenere i costi.
In tal senso, si vedano anche gli “incentivi” alla mediazione, agevolazioni in termini di risparmio di imposte e di tasse, altrimenti dovute in un giudizio ordinario, e in termini di rimborso, sotto forma di credito di imposta, dell’indennità dovuta per l’attività di mediazione (si vedano gli artt. 17 e 20 del DLgs. 28/2010).
In tale quadro, l’“obbligatorietà” è stata voluta per alcune materie di un certo rilievo secondo due criteri-guida. Innanzitutto – così la Relazione illustrativa al decreto legislativo – si tratta di cause in cui il rapporto tra le parti è destinato a prolungarsi nel tempo, anche oltre la definizione della singola controversia (fra questi, i contratti di durata, i rapporti in cui sono coinvolti soggetti appartenenti alla stessa famiglia, al medesimo gruppo sociale o area territoriale), o di rapporti particolarmente conflittuali che si prestano a essere meglio composti in via stragiudiziale (fra questi, la materia della responsabilità medica e della diffamazione a mezzo stampa).
Poi, sono state individuate cause relative ad alcune tipologie di contratti (quali i contratti assicurativi, bancari e finanziari) che, oltre a sottendere rapporti duraturi tra le parti, hanno una diffusione di massa e sono oggetto spesso di contenzioso.
 / Roberta VITALE

diritto civile La mediazione non è più condizione di procedibilità della domanda

diritto civile

La mediazione non è più condizione di procedibilità della domanda

Nelle motivazioni della Corte Costituzionale, l’eccesso di delega legislativa

/ Giovedì 25 ottobre 2012
La Consulta ha accolto l’eccezione sollevata dal Tar del Lazio con l’ordinanza del 12 aprile 2011 dichiarandone l’“illegittimità costituzionale” (si veda “La mediazione obbligatoria è incostituzionale” di oggi). Vediamo gli effetti di tale pronuncia e ragioniamo su cosa potrà succedere.
Per effetto delle sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale, le norme dichiarate illegittime cessano di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione (art. 136 Cost.). Da quel giorno, la norma cessa di avere applicazione (quindi non si parla di abrogazione o di nullità o di inesistenza, ma solo di disapplicazione da parte del giudice). Le pronunce di annullamento non eliminano ex tunc e nella loro totalità gli effetti prodotti dagli atti sindacati, ma fanno cadere soltanto le conseguenze incompatibili con la nuova situazione che si è venuta a creare. Non ha, quindi, effetti sui rapporti esauriti. In altre parole, una legge, anche se dichiarata incostituzionale, continua ad esplicare i suoi effetti per quei rapporti costituitisi prima della sentenza della Corte Costituzionale per il principio di legalità. La stessa legge dovrà esser invece disapplicata per i rapporti non ancora costituiti o in corso di perfezionamento.
E allora, basandoci solo sul comunicato della Corte (non è disponibile ancora il testo della decisione), la norma che è stata dichiarata illegittima è l’art. 5 del DLgs. 28/2010, ma nella parte in cui si prevede l’obbligatorietà della mediazione per determinate materie. Rimane, quindi, in piedi tutto il resto dell’impianto normativo, così come il DM 180/2010 e le successive disposizioni legislative (ovviamente, laddove non vi sia un richiamo al predetto art. 5, come ad esempio l’art. 8 DLgs. 28/2010 che prevede una sanzione per chi non partecipa al procedimento “senza giustificato motivo”).
Questo vuol dire che da oggi in poi non è più obbligatorio e non è più condizione di procedibilità depositare una domanda di mediazione per una controversia in materia di affitto d’azienda, successione, ecc. Vuol dire che i giudici non potranno più rinviare il processo per mancato avvio del procedimento di mediazione obbligatoria. Ma vuol anche dire che tutte le mediazioni sino ad oggi concluse hanno perfetta efficacia e validità.
Detto questo, cosa succederà domani?
La questione di illegittimità costituzionale sollevata era molto ampia: oltre alla questione di “eccesso di delega”, il Tribunale amministrativo aveva, infatti, avanzato sospetti di illegittimità del DLgs. 28/2010 in relazione anche, in particolare, all’art. 24 Cost., oltre a contestare anche l’art. 16, comma 1, del DLgs. n. 28/2010, in ordine all’abilitazione degli organismi di mediazione. Non si può poi trascurare la contestazione secondo cui la mediazione obbligatoria impedirebbe al cittadino di veder tutelati i propri diritti da un giudice dello Stato, nonché la questione della mancanza dell’obbligo di assistenza legale (come nel processo), circostanza questa che lederebbe la garanzia di difesa dei più deboli.
Ebbene, la Consulta ha deciso che l’art. 5 del DLgs. 28/2010 è illegittimo solo in relazione all’art. 77 Cost. e, quindi, perché non rientra nella delega conferita dal Parlamento con la L. 60/2009.
Ed allora, tenendo conto che il chiaro indirizzo imposto dall’Europa (si veda in proposito la Direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008) va nel senso di promuovere e diffondere l’istituto della mediazione in materia commerciale, tenuto conto che l’indirizzo del nostro Legislatore in questi due anni è andato chiaramente nel senso di sostenere e rafforzare la mediazione, tenuto infine conto della giurisprudenza che ha sempre più diffusamente sanzionato le parti che non aderiscono alla procedura mediatoria, ebbene si può ritenere molto probabile che il Governo (il Parlamento è a fine legislatura) corra per reintrodurre la mediazione obbligatoria con decreto legge. E ciò non sarebbe in contrasto con quanto ora deciso dalla Corte, poiché questa ha solo dichiarato che, nel 2010, il Governo è uscito dai binari tracciati dalla legge delega.
D’altra parte, dobbiamo ricordare che il 18 marzo 2010 la Corte di Giustizia europea ha già dichiarato che la mediazione obbligatoria (in materia di telefonia) è assolutamente legittima e non impedisce la realizzazione del giusto ed equo processo, a condizione che tale procedura “non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi, ovvero generi costi non ingenti, per le parti, e purché la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone”.
Pertanto, ci si poteva aspettare che la Corte ponesse in evidenza che il termine di 4 mesi della mediazione (art. 6 del DLgs. 28/2010) è forse troppo lungo o che le indennità di mediazione sono troppo elevate, con invito al Legislatore a ridurre tempi e costi. Ma la Consulta ha solo contestato l’eccesso di delega. Null’altro.
Il canto di vittoria che molti stanno facendo appare, perciò, ingiustificato.
 / Alberto DEL NOCE

antiriciclaggio anche per gli enti non profit

antiriciclaggio

Valutazione del «rischio 231» anche per gli enti non profit

Al Congresso nazionale di Bari, che inizia oggi, sarà diffuso un documento IRDCEC-CNDCEC sull’adozione dei modelli organizzativi nel terzo settore

/ Giovedì 25 ottobre 2012
Dell’applicabilità del DLgs. 231/2001 agli enti del terzo settore si è molto discusso fin dalla sua entrata in vigore anche se, trattandosi nella maggior parte dei casi di associazioni (espressamente incluse ai sensi dell’art. 1 del Decreto), il loro assoggettamento alla disciplina de qua avrebbe dovuto essere scontato. Tuttavia, data la “sensibilità” di alcuni servizi offerti da enti non profit, si è fortemente dubitato che questi ultimi potessero essere assoggettati alla responsabilità da reato, adducendo a favore del loro esonero elementi quali l’assenza del fine di lucro e la carenza del necessario carattere imprenditoriale dell’attività svolta.
Ad affrontare la materia è lo studio intitolato “Il modello 231/2001 per gli enti non profit: una soluzione per la gestione dei rischi”, frutto della collaborazione tra IRDCEC e CNDCEC, che sarà diffuso al Congresso Nazionale di categoria in programma a Bari a partire da oggi.
Il documento muove da una serie di considerazioni.
Innanzitutto, si ritiene che tali dubbi vadano superati, in base sia al tenore letterale della disposizione, sia all’attività svolta da molti di questi enti: basta pensare ai valori immobiliari e mobiliari detenuti da alcune fondazioni o alle associazioni sportive dilettantistiche, che in molti casi diventano strumento di frodi fiscali, truffe e malversazioni. Anche gli operatori del mondo non profit, dunque, devono essere ritenuti soggetti a “rischio 231”, considerate, in alcuni casi, le conseguenze anche sociali potenzialmente derivanti dalla commissione di un illecito.
In tal senso, si è espressa anche la giurisprudenza di merito (GIP Tribunale di Milano, 22 marzo 2011) che, squarciando il velo dell’appartenenza ad una “zona franca” ormai poco giustificabile, ha condannato un’associazione volontaria di pubblica assistenza per il delitto di truffa ai danni dello Stato, previsto tra i reati presupposto dall’art. 24, comma 1 del DLgs. 231/2001. Si tratta di una pronuncia a suo modo “rivoluzionaria” perché include, nel perimetro applicativo del Decreto, anche soggetti giuridici che svolgono attività con scopo non lucrativo.
Posto che il settore non profit deve ritenersi a tutti gli effetti attratto nell’orbita della normativa 231, lo studio affronta il tema dell’adozione del modello organizzativo da parte degli enti che a tale settore appartengono. L’analisi si basa su una premessa fondamentale: anche se potenzialmente tutti i soggetti possono essere considerati a “rischio 231”, l’adozione del modello, ancorché consigliabile e auspicabile per garantire procedure più efficienti e una migliore trasparenza verso l’esterno, è opportuna ed è anzi assimilabile ad un vero e proprio obbligo al ricorrere di alcuni requisiti dell’ente e di determinate circostanze operative.
In dettaglio, traslando ai soggetti del terzo settore il principio affermato dalla Cassazione, che ha esteso la responsabilità ex DLgs. 231/2001 alle imprese individuali (Cass. 20 aprile 2011, n. 15657), evidenziando, tra gli elementi dirimenti, la presenza di una struttura organizzativa articolata al punto che il contributo del singolo operatore non è indispensabile per l’esecuzione delle attività, si può ipotizzare una soglia oltre la quale l’adozione del modello diventa irrinunciabile. Tale soglia dipende da una serie di elementi, che riguardano non solo l’aspetto organizzativo, ma anche tipo di attività svolta, ammontare di risorse finanziarie e patrimoniali gestite, ecc.
Individuare criteri oggettivi per definire il grado di esposizione ai rischi derivanti dal Decreto 231 per gli operatori del mondo non profit non è certo agevole, attesa la mancanza di parametri legislativamente stabiliti in materia. Nondimeno, avendo presente il catalogo dei reati contenuto nel DLgs. 231/2001, nello studio s’identificano alcuni elementi che possono far aumentare il livello di rischio a cui un’organizzazione non profit è potenzialmente esposta: il tipo di attività svolta, la complessità organizzativa, la consistenza patrimoniale e i flussi economico-finanziari, la natura giuridica e i rapporti con la P.A., la tipologia di controlli a cui il soggetto è sottoposto.
Alcuni di tali criteri vengono esplicitati e raggruppati in diversi parametri quantitativi, ai quali viene attribuito uno score in base ai valori registrati; altri criteri di tipo “qualitativo” sono invece trattati come variabili binomiali (SI/NO), con conseguente polarizzazione anche del grado di rischio.
L’attribuzione di un determinato punteggio ai livelli crescenti di rischio consente di stabilire delle soglie per valutare lo score raggiunto dall’ente oggetto di analisi: in base al risultato ottenuto, sarà necessario elaborare una strategia di risk response adeguata che, in caso di punteggio elevato, non può essere diversa dalla decisione di adottare un modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del DLgs.231/2001, per rafforzare i meccanismi di controllo e le procedure organizzative e di corporate governance dell’ente.
Di ciò sono ben coscienti le fondazioni di origine bancaria: proprio ad una di esse, nell’appendice del documento, è applicato in via sperimentale il meccanismo di scoring per definire il grado di “sensibilità” al “rischio 231”.
 / Annalisa DE VIVO