iva
Parcelle non registrate, infedele dichiarazione IVA anche se insolute
Per la Cassazione, ai fini del reato è sufficiente un’infedeltà dichiarativa oltre le soglie di punibilità, anche se il soggetto non ne ha tratto profitto
/ Venerdì 13 aprile 2012
Commette il reato di infedele dichiarazione IVA il professionista che emette fatture ma, non essendo state pagate, non le annota in contabilità e non ne indica in dichiarazione i relativi importi. Ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa, peraltro, non è necessario che il soggetto ne tragga un profitto, ma è sufficiente un’infedeltà dichiarativa che superi le soglie di punibilità specificamente previste per il reato. Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13926 depositata ieri, 12 aprile.
Un architetto aveva emesso fatture per svariati milioni di euro nei confronti di una società di cui era anche rappresentante legale, che, tuttavia, non aveva provveduto al pagamento di tali compensi fatturati. Il professionista, dal canto suo, non aveva annotato gli importi relativi a tali documenti nel registro degli onorari e, quindi, non li aveva poi riportati nella dichiarazione IVA, omettendo, così, di indicare e versare l’imposta a debito.
Scattava, quindi, la denuncia a suo carico per infedele dichiarazione IVA ex art. 4 del DLgs. 74/2000, in base al quale, al di fuori dei casi di dichiarazione fraudolenta, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indichi in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente:
- l’imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 50.000 euro (tale limite è stato così recentemente ridotto, per i fatti successivi al 17 settembre 2011, ad opera dell’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. d), del DL n. 138/2011; il precedente limite era di 103.291 euro);
- l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, sia superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, sia superiore a due milioni di euro (per i fatti successivi al 17 settembre 2011; prima era di 2.065.827 euro).
Avverso la pronuncia di condanna della Corte d’Appello alla pena detentiva di un anno e sei mesi, l’architetto proponeva ricorso per Cassazione, censurando la decisione dei giudici del riesame perché non avrebbero considerato l’insussistenza dell’elemento soggettivo, giacché era ben vero che le fatture erano state emesse, ma i relativi compensi non erano stati incassati. Inoltre, il collegio di secondo grado avrebbe altresì errato nel non considerare che l’articolo 6 del DPR 633/1972 stabilisce che la prestazione di servizi si intende effettuata nel momento del pagamento del corrispettivo e, quindi, prima di tale pagamento non è dovuto alcun versamento dell’imposta.
La Cassazione, però, ha subito ricordato che l’ultimo articolo di legge testé richiamato prevede, al comma 3, che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, ma, al successivo comma 4, dispone che, se anteriormente al pagamento viene emessa fattura, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato, alla data della fattura stessa. Si tratta del noto principio per cui l’emissione della fattura anticipa il momento impositivo, che invece, di regola, coincide con il pagamento del corrispettivo (per le prestazioni di servizi). La Cassazione ha osservato, a questo proposito, che l’emissione della fattura prima del pagamento è soltanto una facoltà del contribuente ma, se la esercita, allora sorge l’obbligo dell’annotazione nei relativi registri e soprattutto dell’indicazione in dichiarazione dei relativi importi.
Per quanto attiene, invece, alla censura relativa all’assenza dell’elemento soggettivo ai fini dell’integrazione del reato, gli Ermellini hanno stabilito che i giudici d’Appello avevano correttamente ritenuto la sussistenza di tale elemento, giacché avevano ravvisato la coscienza e la volontà della dichiarazione infedele e del dolo specifico, consistente nel fine di evadere le imposte. Del resto, il ricorrente aveva emesso le fatture, che erano state utilizzate dalla società destinataria per dedursi i costi e detrarsi l’IVA, mentre il professionista, non annotandole in contabilità e in dichiarazione, aveva omesso il relativo versamento dell’imposta dovuta. È irrilevante, poi, che il ricorrente non abbia conseguito alcun profitto, giacché ai fini dell’integrazione del reato de quo è sufficiente, come avvenuto nel caso di specie, che la dichiarazione IVA presentata non rispecchi fedelmente la situazione della base imponibile IVA (“dolo di evasione”; in tal senso: Cass. SS.UU. n. 27/2000).
Un architetto aveva emesso fatture per svariati milioni di euro nei confronti di una società di cui era anche rappresentante legale, che, tuttavia, non aveva provveduto al pagamento di tali compensi fatturati. Il professionista, dal canto suo, non aveva annotato gli importi relativi a tali documenti nel registro degli onorari e, quindi, non li aveva poi riportati nella dichiarazione IVA, omettendo, così, di indicare e versare l’imposta a debito.
Scattava, quindi, la denuncia a suo carico per infedele dichiarazione IVA ex art. 4 del DLgs. 74/2000, in base al quale, al di fuori dei casi di dichiarazione fraudolenta, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indichi in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente:
- l’imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 50.000 euro (tale limite è stato così recentemente ridotto, per i fatti successivi al 17 settembre 2011, ad opera dell’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. d), del DL n. 138/2011; il precedente limite era di 103.291 euro);
- l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, sia superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, sia superiore a due milioni di euro (per i fatti successivi al 17 settembre 2011; prima era di 2.065.827 euro).
Avverso la pronuncia di condanna della Corte d’Appello alla pena detentiva di un anno e sei mesi, l’architetto proponeva ricorso per Cassazione, censurando la decisione dei giudici del riesame perché non avrebbero considerato l’insussistenza dell’elemento soggettivo, giacché era ben vero che le fatture erano state emesse, ma i relativi compensi non erano stati incassati. Inoltre, il collegio di secondo grado avrebbe altresì errato nel non considerare che l’articolo 6 del DPR 633/1972 stabilisce che la prestazione di servizi si intende effettuata nel momento del pagamento del corrispettivo e, quindi, prima di tale pagamento non è dovuto alcun versamento dell’imposta.
La Cassazione, però, ha subito ricordato che l’ultimo articolo di legge testé richiamato prevede, al comma 3, che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, ma, al successivo comma 4, dispone che, se anteriormente al pagamento viene emessa fattura, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato, alla data della fattura stessa. Si tratta del noto principio per cui l’emissione della fattura anticipa il momento impositivo, che invece, di regola, coincide con il pagamento del corrispettivo (per le prestazioni di servizi). La Cassazione ha osservato, a questo proposito, che l’emissione della fattura prima del pagamento è soltanto una facoltà del contribuente ma, se la esercita, allora sorge l’obbligo dell’annotazione nei relativi registri e soprattutto dell’indicazione in dichiarazione dei relativi importi.
Per quanto attiene, invece, alla censura relativa all’assenza dell’elemento soggettivo ai fini dell’integrazione del reato, gli Ermellini hanno stabilito che i giudici d’Appello avevano correttamente ritenuto la sussistenza di tale elemento, giacché avevano ravvisato la coscienza e la volontà della dichiarazione infedele e del dolo specifico, consistente nel fine di evadere le imposte. Del resto, il ricorrente aveva emesso le fatture, che erano state utilizzate dalla società destinataria per dedursi i costi e detrarsi l’IVA, mentre il professionista, non annotandole in contabilità e in dichiarazione, aveva omesso il relativo versamento dell’imposta dovuta. È irrilevante, poi, che il ricorrente non abbia conseguito alcun profitto, giacché ai fini dell’integrazione del reato de quo è sufficiente, come avvenuto nel caso di specie, che la dichiarazione IVA presentata non rispecchi fedelmente la situazione della base imponibile IVA (“dolo di evasione”; in tal senso: Cass. SS.UU. n. 27/2000).
Nessun commento:
Posta un commento