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mercoledì 4 aprile 2012

Accertamento

Legittima la rettifica fondata sul file trovato nel PC

Per «aprire» il computer protetto da password serve l’autorizzazione del PM solo se il contribuente non si oppone
/ Sabato 31 marzo 2012
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5226 di ieri, è tornata su un argomento che, per i motivi che si esporranno, è di estrema attualità, anche perchè non vi sono ancora né chiarimenti ufficiali né prese di posizione nette della giurisprudenza.
I giudici di Cassazione, richiamando il proprio orientamento in tema di valore probatorio dei cosiddetti “brogliacci”, affermano che nell’accertamento IVA (il discorso, tuttavia, vale per le verifiche fiscali in generale), i documenti informatici, ovvero i cosiddetti files, estrapolati “legittimamente dai computers nella disponibilità dell’imprenditore”, nei quali sia contenuta la contabilità non ufficiale, costituiscono un valido elemento probatorio. A questo punto, quindi, sarebbe il contribuente a dover dimostrare che i dati in tal modo rinvenuti non corrispondono a realtà o - e questo è, a nostro avviso, l’elemento dirimente - non possono essere utilizzati.
È bene evidenziare che la possibilità di ricostruire il reddito sulla base di files rinvenuti all’interno del computer dell’imprenditore o, comunque, di computer presenti in azienda, sussiste a condizione che, come detto dai giudici, i dati siano stati estrapolati “legittimamente”.
Ora, bisogna coordinare ciò con le norme in tema di accesso e di verifica contenute nell’art. 52 del DPR 633/72, che opera anche per le imposte sui redditi.
Quindi:
- per l’accesso presso i locali commerciali/professionali, serve l’autorizzazione amministrativa;
- per l’accesso presso i locali adibiti solo ad abitazione o cosiddetti “promiscui”, serve l’autorizzazione del PM;
- per aprire coattivamente i pieghi sigillati, è necessaria l’autorizzazione del PM.
Quid iuris nel caso di un computer “protetto” da password?
A nostro avviso, non vi è dubbio che esso debba essere trattato alla stregua di un plico sigillato, perchè, come i funzionari, senza autorizzazione del PM, non possono aprire una borsa chiusa, a maggior ragione non possono entrare nel computer (un tempo, i documenti riservati si inserivano in pacchi di carta, o in zaini chiusi, magari in cantina, ora li si mette dentro il PC a cui si accede solo essendo in possesso della password, ma la sostanza non cambia).
Si potrebbe quindi pensare che, se non c’è autorizzazione del PM, i dati rinvenuti sono inutilizzabili.
Poco opportuno negare il consenso
Il contribuente potrebbe “spontaneamente” aver prestato il consenso circa la visione del contenuto del PC protetto da password, il che renderebbe superflua l’autorizzazione, visto che la norma parla espressamente di apertura “coattiva” dei pieghi sigillati.
Per Cass. n. 7368 del 27 luglio 1998, però, non vi può essere consenso se l’invito all’apertura, ad esempio, del plico, è avvenuta a seguito di ripetuti richiami sulle conseguenze della mancata collaborazione. Alle stesse conclusioni si dovrebbe giungere ove il consenso sia stato prestato a causa del timore che il contribuente nutre nei confronti dei verificatori, a prescindere da un loro comportamento poco corretto, ma ciò sarebbe difficile, se non impossibile, da dimostrare in Commissione tributaria.
Invece, ove i verificatori, nelle more dell’accesso, ispezionino un computer già aperto, non dovrebbero esserci profili di illegittimità di tale comportamento, visto che non si rientrerebbe nel caso del “plico sigillato” (è come se si trattasse di uno zaino aperto).
La soluzione che si prospetta è la seguente: i verificatori possono aprire i plichi sigillati se non c’è opposizione e opporsi non serve a molto, ma della possibilità di opporsi deve essere dato previo avviso al contribuente e ciò deve risultare da verbale. Solo la mancata indicazione nel verbale di tale possibilità può causare l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti.

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