Il contribuente non deve sempre dimostrare l’inerenza dei costi
In merito, la Cassazione ha stabilito che il costo per la sponsorizzazione è deducibile anche se il contribuente non è titolare del marchio
Con la sentenza n. 6548 del 27 aprile 2012, la Corte di Cassazione si è espressa in merito all’onere di dimostrare l’inerenza dei costi di pubblicità sostenuti da parte di una società che si occupa della distribuzione di un prodotto senza possedere la titolarità del marchio sponsorizzato.
In primo luogo, si osserva che la Corte ha fatto proprio un principio già espresso nella sentenza 24065/2011, per il quale l’art. 109, comma 5 del TUIR consente la deducibilità delle spese relative ad un contratto di sponsorizzazione anche quando il medesimo viene stipulato a favore di un terzo, se vengono dimostrate le potenziali utilità che si possono ricavare per la propria attività commerciale o i futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall’impresa in favore del terzo.
Infatti, dal complesso delle caratteristiche concernenti il contratto di sponsorizzazione non può desumersi che tale contratto debba necessariamente essere concluso da uno sponsor che sia egli stesso il produttore industriale di una determinata merce, ovvero il titolare dei diritti sul marchio. Tanto è vero che la disciplina civilistica riconosce un rapporto patrimonialmente rilevante, ancorché non riconducibile ad un contratto tipico, anche in presenza di un contratto nel quale lo sponsor sia un altro soggetto, che tragga comunque un’utilità dallo sfruttamento dell’immagine altrui, sebbene diverso risulti l’organizzatore della relativa produzione.
Nel caso di specie, la casa madre aveva conferito alla società ricorrente l’incarico di distributore esclusivo in Italia del prodotto contrassegnato con il proprio marchio. Ad avviso della Corte, da tali elementi ne discende una connaturale inerenza tra l’attività di pubblicizzazione, sia pure indiretta, del prodotto avente il marchio della casa madre da parte della società ricorrente rispetto all’attività commerciale svolta da quest’ultima. Pertanto, diviene sicuramente legittima la deducibilità dei costi di pubblicità in esame e sarebbe stato onere dell’Amministrazione provare l’assenza dell’inerenza di tali costi.
Proprio in merito a quest’ultimo punto la sentenza in esame sembra dimostrarsi molto interessante, in quanto pare definire un confine tra quei costi per i quali la dimostrazione dell’inerenza ricade sul contribuente e quegli oneri per cui dovrebbe essere l’Ufficio a provare che i medesimi non sono riconducibili all’attività di impresa svolta dal contribuente.
Su tal punto, infatti, occorre effettuare una precisazione: se è vero che l’onere della prova circa l’inerenza grava, come concetto generale, sul contribuente, è innegabile che i verificatori non possano disconoscere, sic et simpliciter, intere voci di costo, spettando al contribuente dimostrarne l’inerenza.
Se l’accertamento è fondato sul recupero a tassazione di detti costi, la non inerenza deve essere provata dall’Amministrazione.
Viceversa, l’onere della prova circa l’inerenza grava sul contribuente ogniqualvolta sorga “un dubbio collegamento della componente reddituale negativa con l’impresa”.
Richiamando alcuni precedenti, la Suprema Corte, in sostanza, sancisce che:
- occorre sempre distinguere i beni “normalmente necessari e strumentali” e i beni “non necessari e strumentali”, “ponendosi a carico del contribuente l’onere della prova dell’inerenza solo in questa seconda evenienza”;
- il requisito dell’inerenza si determina in relazione alla funzione del bene e del servizio acquistato, ovvero alla ragione della spesa.
La deducibilità del costo non postula che esso sia stato sostenuto per realizzare una specifica componente attiva del reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa, “ossia che tale costo sia stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili”.
/ Alfio CISSELLO e Salvatore SANNA
In primo luogo, si osserva che la Corte ha fatto proprio un principio già espresso nella sentenza 24065/2011, per il quale l’art. 109, comma 5 del TUIR consente la deducibilità delle spese relative ad un contratto di sponsorizzazione anche quando il medesimo viene stipulato a favore di un terzo, se vengono dimostrate le potenziali utilità che si possono ricavare per la propria attività commerciale o i futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall’impresa in favore del terzo.
Infatti, dal complesso delle caratteristiche concernenti il contratto di sponsorizzazione non può desumersi che tale contratto debba necessariamente essere concluso da uno sponsor che sia egli stesso il produttore industriale di una determinata merce, ovvero il titolare dei diritti sul marchio. Tanto è vero che la disciplina civilistica riconosce un rapporto patrimonialmente rilevante, ancorché non riconducibile ad un contratto tipico, anche in presenza di un contratto nel quale lo sponsor sia un altro soggetto, che tragga comunque un’utilità dallo sfruttamento dell’immagine altrui, sebbene diverso risulti l’organizzatore della relativa produzione.
Nel caso di specie, la casa madre aveva conferito alla società ricorrente l’incarico di distributore esclusivo in Italia del prodotto contrassegnato con il proprio marchio. Ad avviso della Corte, da tali elementi ne discende una connaturale inerenza tra l’attività di pubblicizzazione, sia pure indiretta, del prodotto avente il marchio della casa madre da parte della società ricorrente rispetto all’attività commerciale svolta da quest’ultima. Pertanto, diviene sicuramente legittima la deducibilità dei costi di pubblicità in esame e sarebbe stato onere dell’Amministrazione provare l’assenza dell’inerenza di tali costi.
Proprio in merito a quest’ultimo punto la sentenza in esame sembra dimostrarsi molto interessante, in quanto pare definire un confine tra quei costi per i quali la dimostrazione dell’inerenza ricade sul contribuente e quegli oneri per cui dovrebbe essere l’Ufficio a provare che i medesimi non sono riconducibili all’attività di impresa svolta dal contribuente.
Su tal punto, infatti, occorre effettuare una precisazione: se è vero che l’onere della prova circa l’inerenza grava, come concetto generale, sul contribuente, è innegabile che i verificatori non possano disconoscere, sic et simpliciter, intere voci di costo, spettando al contribuente dimostrarne l’inerenza.
I verificatori non possono disconoscere intere voci di costo
I giudici rammentano che l’onere di provare l’inerenza non grava sul contribuente in merito alle spese strettamente necessarie alla produzione del reddito, “o comunque fisiologicamente riconducibili alla sfera imprenditoriale” (si pensi alle materie prime, ai macchinari e agli strumenti indispensabili a produrre certi beni).Se l’accertamento è fondato sul recupero a tassazione di detti costi, la non inerenza deve essere provata dall’Amministrazione.
Viceversa, l’onere della prova circa l’inerenza grava sul contribuente ogniqualvolta sorga “un dubbio collegamento della componente reddituale negativa con l’impresa”.
Richiamando alcuni precedenti, la Suprema Corte, in sostanza, sancisce che:
- occorre sempre distinguere i beni “normalmente necessari e strumentali” e i beni “non necessari e strumentali”, “ponendosi a carico del contribuente l’onere della prova dell’inerenza solo in questa seconda evenienza”;
- il requisito dell’inerenza si determina in relazione alla funzione del bene e del servizio acquistato, ovvero alla ragione della spesa.
La deducibilità del costo non postula che esso sia stato sostenuto per realizzare una specifica componente attiva del reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa, “ossia che tale costo sia stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili”.
/ Alfio CISSELLO e Salvatore SANNA
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