Penale tributario
Rischio «penale» per l’elusione fiscale
Lo precisa la Cassazione, in relazione alle condotte elusive corrispondenti a ipotesi previste espressamente dalla legge
/ Mercoledì 29 febbraio 2012
Le condotte elusive corrispondenti ad ipotesi espressamente previste dalla legge possono presentare rilevanza penale.
La Corte di Cassazione, nella sentenza 28 febbraio 2012 n. 7739, ha fornito l’importantissima precisazione, annullando con rinvio la decisione del GUP di Milano, del 1° aprile 2011, che aveva dichiarato il non luogo a procedere (per insussistenza del fatto) nei confronti, tra gli altri, dei noti stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana. In particolare, il giudice milanese aveva sottolineato come, a fronte di operazioni giustificate dalla volontà di collocare la proprietà di marchi, originariamente in comunione al 50% tra i due stilisti, all’interno del gruppo riconducibile agli stessi, non fosse legittimo, facendo leva sulla figura giuridica dell’abuso del diritto, sostituire al valore pattuito per la cessione dei marchi in favore di una società di diritto lussemburghese appositamente costituita e controllata dalla holding del gruppo il valore ritenuto normale dall’Agenzia delle Entrate e, su tali basi, contestare sempre ai medesimi soggetti il reato di dichiarazione infedele.
La Suprema Corte - dopo aver ricordato gli incerti e contraddittori precedenti in materia dei Giudici di Legittimità (Cass. 7 luglio 2006 n. 23730, tra quelle contrarie alla rilevanza penale dei comportamenti elusivi, e Cass. 7 luglio 2011 n. 26723, tra quelle pronunciatesi in senso contrario) - sottolinea come, a sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva, si ponga, in primo luogo, l’art. 1, lett. f) del DLgs. 74/2000, che fornisce una definizione di imposta evasa così ampia da ricomprendere anche l’imposta elusa, che, come richiesto dalla norma, è il risultato della differenza tra un’imposta effettivamente dovuta (ovvero quella dell’operazione che è stata elusa) e l’imposta dichiarata (ovvero quella autoliquidata sull’operazione elusiva).
Particolare rilevanza, inoltre, assume l’art. 16 del DLgs. 74/2000, ai sensi del quale “non dà luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si è uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso”. Questa disposizione, nonostante la contraria indicazione fornita dalla Relazione illustrativa del DLgs. 74/2000, induce a ritenere che l’elusione, fuori dal procedimento d’interpello, può avere rilevanza penale.
Peraltro - sottolinea la Suprema Corte - occorre osservare come il suddetto parere sia relativo all’applicazione, ai casi concreti rappresentati dal contribuente, delle disposizioni contenute negli artt. 37, comma 3 e 37-bis del DPR 600/73, cioè delle specifiche fattispecie elusive previste dai suddetti articoli. Ne consegue il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge. In tal caso, infatti, si richiede al contribuente di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive.
In altri termini, in ambito penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva che prescinda da specifiche norme antielusive (come sostenuto, invece, in ambito civile, da Cass. SS.UU. 23 dicembre 2008 nn. 30055 e 30057); mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva. D’altra parte, se le fattispecie penali tributari sono incentrate sul momento dichiarativo, concretizzandosi nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal nuovo regime è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici ben può coinvolgere quelle condotte idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile.
La Corte di Cassazione, nella sentenza 28 febbraio 2012 n. 7739, ha fornito l’importantissima precisazione, annullando con rinvio la decisione del GUP di Milano, del 1° aprile 2011, che aveva dichiarato il non luogo a procedere (per insussistenza del fatto) nei confronti, tra gli altri, dei noti stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana. In particolare, il giudice milanese aveva sottolineato come, a fronte di operazioni giustificate dalla volontà di collocare la proprietà di marchi, originariamente in comunione al 50% tra i due stilisti, all’interno del gruppo riconducibile agli stessi, non fosse legittimo, facendo leva sulla figura giuridica dell’abuso del diritto, sostituire al valore pattuito per la cessione dei marchi in favore di una società di diritto lussemburghese appositamente costituita e controllata dalla holding del gruppo il valore ritenuto normale dall’Agenzia delle Entrate e, su tali basi, contestare sempre ai medesimi soggetti il reato di dichiarazione infedele.
La Suprema Corte - dopo aver ricordato gli incerti e contraddittori precedenti in materia dei Giudici di Legittimità (Cass. 7 luglio 2006 n. 23730, tra quelle contrarie alla rilevanza penale dei comportamenti elusivi, e Cass. 7 luglio 2011 n. 26723, tra quelle pronunciatesi in senso contrario) - sottolinea come, a sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva, si ponga, in primo luogo, l’art. 1, lett. f) del DLgs. 74/2000, che fornisce una definizione di imposta evasa così ampia da ricomprendere anche l’imposta elusa, che, come richiesto dalla norma, è il risultato della differenza tra un’imposta effettivamente dovuta (ovvero quella dell’operazione che è stata elusa) e l’imposta dichiarata (ovvero quella autoliquidata sull’operazione elusiva).
Particolare rilevanza, inoltre, assume l’art. 16 del DLgs. 74/2000, ai sensi del quale “non dà luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si è uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso”. Questa disposizione, nonostante la contraria indicazione fornita dalla Relazione illustrativa del DLgs. 74/2000, induce a ritenere che l’elusione, fuori dal procedimento d’interpello, può avere rilevanza penale.
Peraltro - sottolinea la Suprema Corte - occorre osservare come il suddetto parere sia relativo all’applicazione, ai casi concreti rappresentati dal contribuente, delle disposizioni contenute negli artt. 37, comma 3 e 37-bis del DPR 600/73, cioè delle specifiche fattispecie elusive previste dai suddetti articoli. Ne consegue il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge. In tal caso, infatti, si richiede al contribuente di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive.
In altri termini, in ambito penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva che prescinda da specifiche norme antielusive (come sostenuto, invece, in ambito civile, da Cass. SS.UU. 23 dicembre 2008 nn. 30055 e 30057); mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva. D’altra parte, se le fattispecie penali tributari sono incentrate sul momento dichiarativo, concretizzandosi nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal nuovo regime è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici ben può coinvolgere quelle condotte idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile.
In salvo principio di legalità e ordinamento comunitario
L’affermazione della rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale, nei limiti sopra specificati, non contrasta, inoltre, con il principio di legalità. Questo, infatti, non è ostativo alla configurabilità della rilevanza penale della condotta elusiva, trattandosi di un risultato interpretativo “conforme ad una ragionevole prevedibilità“, tenuto conto della ratio delle norme, delle loro finalità e del loro inserimento sistematico. La soluzione, infine, non è incompatibile con l’ordinamento comunitario. Ciò in quanto l’affermazione contenuta nella sentenza 21 febbraio 2006 causa C-255/02 della Corte di Giustizia Ue - secondo la quale la contestazione di un comportamento abusivo “non deve condurre ad una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro ed univoco, bensì e semplicemente ad un obbligo di rimborso” - non può avere carattere generale, dovendo essere letta come la semplice specificazione, nel caso concreto, delle obiettive condizioni di incertezza derivanti dall’innovativa applicazione nel settore fiscale del divieto comunitario di abuso del diritto.
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