Diritto societario
L’aggravamento del dissesto non danneggia i creditori sociali
Nessun risarcimento per le perdite subite quando il patrimonio risultava già azzerato
L’incremento del passivo che si verifica dopo l’azzeramento del patrimonio sociale non danneggia i creditori sociali, i quali possono lamentarsi del compimento di “nuove operazioni” vietate soltanto quando, prima di esse, il patrimonio della società risultava sufficiente a soddisfare, almeno in parte, le loro ragioni.
È questa un’ulteriore rilevante precisazione fornita dalla sentenza 9 dicembre 2011 del Tribunale di Lecce, già oggetto di commento su questo quotidiano in relazione ad altri profili (si veda “Per i sindaci, prescrizione dal momento del danno” del 23 febbraio 2012).
Anche in esito alla riforma del diritto societario – osservano in via preliminare i giudici – il curatore di una srl fallita deve reputarsi abilitato all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro amministratori o sindaci della società, compresa l’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. (cfr. Cass. 21 luglio 2010 n. 17121).
A fronte di ciò, la frequente affermazione giurisprudenziale secondo cui, quando le azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. sono congiuntamente esercitate dal curatore, ex art. 146 del RD 267/42, esse costituiscono un’azione unica e inscindibile, significa esclusivamente che, in assenza di specificazione, si presume l’esercizio di entrambe. Essa, infatti, non può certo essere intesa nel senso dell’indifferenziazione delle domande, le quali: presentano presupposti diversi (danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, in un caso, e insufficienza patrimoniale cagionata dall’inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, nell’altro); sono soggette a un differente regime giuridico sia con riguardo all’onere della prova, sia con riferimento alla decorrenza dei termini di prescrizione. A quest’ultimo riguardo, occorre osservare come, relativamente all’azione dei creditori, che può essere proposta quando il patrimonio sociale “risulta” insufficiente, il termine quinquennale di prescrizione inizi a decorrere non dal momento in cui si verifica lo sbilancio patrimoniale, ma da quello in cui lo sbilancio stesso si manifesta, divenendo conoscibile ai creditori sociali.
Certamente, quindi, il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla dichiarazione di fallimento, ma la situazione di sbilancio patrimoniale potrebbe “risultare” anche prima. Si pensi, ad esempio, all’istanza di concordato preventivo dalla quale emerga che l’attivo non è sufficiente al pagamento integrale dei debiti. In ogni caso, l’onere di provare che la situazione di insufficienza patrimoniale è emersa prima della dichiarazione di fallimento incombe sugli amministratori e/o sindaci convenuti che invocano l’intervenuta prescrizione.
Peraltro, nel caso in cui, in presenza di un patrimonio netto che risultava negativo a decorrere da una certa data, si chieda il risarcimento delle perdite accumulate a partire dalla medesima per il compimento di “nuove operazioni” (vietate in base al disposto del previgente art. 2449 comma 1 c.c.), l’azione dei creditori sociali, ancorché esercitata nei termini, potrebbe risultare infondata. Infatti, l’incremento del passivo verificatosi dopo l’azzeramento del patrimonio sociale non danneggia i creditori, i quali possono lamentarsi del compimento di “nuove operazioni” vietate soltanto quando, prima di esse, il patrimonio della società risultava sufficiente a soddisfare, almeno in parte, le loro ragioni. Ma quando risulta che già prima e indipendentemente da tali operazioni i loro crediti non avrebbero potuto trovare capienza nell’attivo della società poi fallita (essendo il patrimonio netto già negativo), l’aggravamento del dissesto conseguente a quelle operazioni non può per loro costituire un danno risarcibile.
Già prima della riforma, comunque, la prevalente giurisprudenza aveva interpretato l’art. 2449 c.c. nel senso che consentisse comunque il compimento di operazioni volte alla “conservazione” del patrimonio sociale, precludendo solo gli atti che risultassero fonte di nuovo rischio per l’impresa (cfr. Cass. 19 settembre 1995 n. 9887). Il Tribunale Lecce (sentenza 3 dicembre 2009) e il Tribunale di Milano (sentenza 18 gennaio 2011 n. 501) hanno allora sottolineato come la previsione dell’attuale art. 2486 c.c. abbia avuto lo scopo di esplicitare un principio già affermatosi in relazione al previgente art. 2449 c.c.
/ Maurizio MEOLI
È questa un’ulteriore rilevante precisazione fornita dalla sentenza 9 dicembre 2011 del Tribunale di Lecce, già oggetto di commento su questo quotidiano in relazione ad altri profili (si veda “Per i sindaci, prescrizione dal momento del danno” del 23 febbraio 2012).
Anche in esito alla riforma del diritto societario – osservano in via preliminare i giudici – il curatore di una srl fallita deve reputarsi abilitato all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro amministratori o sindaci della società, compresa l’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. (cfr. Cass. 21 luglio 2010 n. 17121).
A fronte di ciò, la frequente affermazione giurisprudenziale secondo cui, quando le azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. sono congiuntamente esercitate dal curatore, ex art. 146 del RD 267/42, esse costituiscono un’azione unica e inscindibile, significa esclusivamente che, in assenza di specificazione, si presume l’esercizio di entrambe. Essa, infatti, non può certo essere intesa nel senso dell’indifferenziazione delle domande, le quali: presentano presupposti diversi (danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, in un caso, e insufficienza patrimoniale cagionata dall’inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, nell’altro); sono soggette a un differente regime giuridico sia con riguardo all’onere della prova, sia con riferimento alla decorrenza dei termini di prescrizione. A quest’ultimo riguardo, occorre osservare come, relativamente all’azione dei creditori, che può essere proposta quando il patrimonio sociale “risulta” insufficiente, il termine quinquennale di prescrizione inizi a decorrere non dal momento in cui si verifica lo sbilancio patrimoniale, ma da quello in cui lo sbilancio stesso si manifesta, divenendo conoscibile ai creditori sociali.
Certamente, quindi, il termine di prescrizione inizia a decorrere dalla dichiarazione di fallimento, ma la situazione di sbilancio patrimoniale potrebbe “risultare” anche prima. Si pensi, ad esempio, all’istanza di concordato preventivo dalla quale emerga che l’attivo non è sufficiente al pagamento integrale dei debiti. In ogni caso, l’onere di provare che la situazione di insufficienza patrimoniale è emersa prima della dichiarazione di fallimento incombe sugli amministratori e/o sindaci convenuti che invocano l’intervenuta prescrizione.
Peraltro, nel caso in cui, in presenza di un patrimonio netto che risultava negativo a decorrere da una certa data, si chieda il risarcimento delle perdite accumulate a partire dalla medesima per il compimento di “nuove operazioni” (vietate in base al disposto del previgente art. 2449 comma 1 c.c.), l’azione dei creditori sociali, ancorché esercitata nei termini, potrebbe risultare infondata. Infatti, l’incremento del passivo verificatosi dopo l’azzeramento del patrimonio sociale non danneggia i creditori, i quali possono lamentarsi del compimento di “nuove operazioni” vietate soltanto quando, prima di esse, il patrimonio della società risultava sufficiente a soddisfare, almeno in parte, le loro ragioni. Ma quando risulta che già prima e indipendentemente da tali operazioni i loro crediti non avrebbero potuto trovare capienza nell’attivo della società poi fallita (essendo il patrimonio netto già negativo), l’aggravamento del dissesto conseguente a quelle operazioni non può per loro costituire un danno risarcibile.
In ipotesi di scioglimento, vietate le sole azioni fonte di nuovo rischio
Si tenga presente inoltre che, con la riforma del diritto societario, si è ritenuto di porre una limitazione al potere di gestione della società, al verificarsi di una causa di scioglimento, non più basata sul concetto, ambiguo, di “nuova operazione”, ma sulla strumentalità o meno alla conservazione del valore dell’impresa sociale. È stato quindi sancito in via legislativa che, nel periodo considerato, l’attività della società continua ad essere attività d’impresa, ma necessariamente “finalizzata” alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.Già prima della riforma, comunque, la prevalente giurisprudenza aveva interpretato l’art. 2449 c.c. nel senso che consentisse comunque il compimento di operazioni volte alla “conservazione” del patrimonio sociale, precludendo solo gli atti che risultassero fonte di nuovo rischio per l’impresa (cfr. Cass. 19 settembre 1995 n. 9887). Il Tribunale Lecce (sentenza 3 dicembre 2009) e il Tribunale di Milano (sentenza 18 gennaio 2011 n. 501) hanno allora sottolineato come la previsione dell’attuale art. 2486 c.c. abbia avuto lo scopo di esplicitare un principio già affermatosi in relazione al previgente art. 2449 c.c.
/ Maurizio MEOLI
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