infoEditoriale
Sull’abuso del diritto è arrivato il momento di fare il «tagliando»
/ Giovedì 01 marzo 2012
Tra la fine del 2011 e questo inizio del 2012, la Corte di Cassazione ha messo in fila due sentenze molto interessanti in materia di abuso del diritto tributario, o elusione fiscale che dir si voglia. La prima, datata 30 novembre 2011, in materia di applicabilità delle sanzioni (sentenza n. 25537); la seconda, datata 28 febbraio 2012, in materia di rilevanza penale (sentenza n. 7739).
In estrema sintesi, quali princìpi sono stati affermati?
Innanzitutto, che l’abuso del diritto tributario può essere sempre invocato dall’Amministrazione finanziaria per disconoscere un risparmio di imposta indebito, senza dunque bisogno di una norma antielusiva espressa che consenta di procedere in tal modo, ma anche che l’esistenza di una norma antielusiva espressa sia conditio sine qua non per l’applicabilità delle sanzioni pecuniarie proprie della fattispecie di dichiarazione infedele, nonché per la rilevanza della condotta elusiva anche ai fini penali.
In pratica, il rapporto, tra la clausola generale antiabuso del diritto di diretta derivazione costituzionale (secondo la giurisprudenza della Cassazione medesima) e la cosiddetta norma antielusiva generale di cui all’art. 37-bis del DPR 600/1973, andrebbe letto nel senso che la seconda è una sorta di rafforzativo della prima; o, per meglio dire, è una sorta di segnale di allarme che il Legislatore lancia al contribuente, per metterlo sull’avviso circa le potenzialità elusive di una serie di operazioni e comportamenti.
Dopodiché, se lo schema ritenuto elusivo dall’Amministrazione finanziaria (e, in caso di ricorso, confermato come tale dal giudice tributario ed eventualmente da quello penale) non rientra tra quelli “segnalati” da una disposizione antielusiva espressa, il risparmio d’imposta indebito viene recuperato dall’Erario, senza però poter dare luogo anche all’applicazione di sanzioni amministrative e a riflessi penali; se rientra invece tra quelli “segnalati” come a rischio, ecco che, oltre al recupero del risparmio di imposta indebito, il contribuente può ritrovarsi oggetto anche di sanzioni amministrative e penali.
Al netto delle legittime e condivisibili perplessità che, tutt’oggi, gran parte della dottrina nutre nei confronti della riconducibilità dell’esistenza di una clausola generale antiabuso al generalissimo principio di capacità contributiva enunciato dall’art. 53 della Costituzione, questo tipo di impostazione e conseguente gradazione, nei riflessi sanzionatori e penali, pare tutto sommato convincente.
Altre pronunce giurisprudenziali, questa volta però di merito, hanno opportunamente statuito negli scorsi mesi come le tutele procedimentali e finanziarie pro contribuente che caratterizzano gli accertamenti antielusivi ex art. 37-bis del DPR 600/1973 si applichino identicamente anche a quegli accertamenti antielusivi che, prescindendo dall’ambito di applicazione dell’art. 37-bis, vengono esperiti dall’Amministrazione finanziaria direttamente in forza dell’asserita clausola generale antiabuso ex art. 53 Costituzione.
A questo punto, se il Legislatore è davvero convinto dell’opportunità di assecondare la “creazione giurisprudenziale” dell’abuso del diritto, si può ben dire che i tempi sono maturi per una codificazione in norma della sua esistenza, al fine innanzitutto di codificare in modo certo e univoco tutti questi aspetti procedurali e applicativi (tutele procedimentali e finanziarie, pro contribuente, conseguenze sanzionatorie e rilevanza penale) che sono stati ad oggi affrontati dalla giurisprudenza con risultati assai più apprezzabili di quanto apprezzabile non sia stato lo sforzo interpretativo fatto a monte per “creare dal nulla” la clausola generale antiabuso.
Nel procedere a questa codificazione normativa, è però opportuno avere chiare anche alcune questioni ulteriori.
Primo: l’individuazione ed elencazione dei comportamenti che rientrano nell’ambito di applicazione di norme antielusive espresse e, in quanto tali, sanzionabili e penalmente rilevanti.
Nell’istante in cui viene codificata l’esistenza di un principio generale antiabuso e le norme antielusive espresse divengono solo un “di cui” che serve sostanzialmente a evidenziare i “casi a rischio” che giustificano, oltre al recupero del risparmio di imposta indebito, anche l’applicazione di sanzioni e di riflessi penali, ecco allora che questo tipo di individuazione ed elencazione deve necessariamente seguire criteri di maggiore analiticità e prudenza, rispetto a quanto poteva risultare giusto in un contesto normativo in cui si pensava invece che, al di fuori dell’ambito di applicazione di quelle norme espresse, neppure fosse possibile contestare l’elusione e recuperare il risparmio d’imposta indebito.
Secondo: la specificazione del fatto che il risparmio d’imposta indebito è soltanto quello che si origina da comportamenti la cui principale o prevalente finalità economica si rivela essere proprio il conseguimento del risparmio medesimo, mentre in nessun caso può essere considerato indebito un risparmio d’imposta che si origina in relazione a comportamenti che vengono posti in essere anzitutto per raggiungere legittime finalità economiche “ulteriori”.
Terzo: la specificazione del fatto che, tantomeno, può essere considerato indebito un risparmio d’imposta che non è risparmio in quanto tale (nel senso che non è vero che il contribuente paga meno imposte di quelle che avrebbe pagato in assenza di quel comportamento), ma è piuttosto mero risparmio differenziale rispetto a comportamenti alternativi mediante i quali si sarebbe potuti pervenire alla medesima sistemazione di legittime finalità economiche “ulteriori”, avvalendosi del diritto di scegliere, appunto, la via fiscalmente meno onerosa tra quelle messe a disposizione dall’ordinamento giuridico per sistemare i propri legittimi affari.
Questi ultimi due aspetti, in verità, non necessiterebbero neppure di un intervento normativo, se gran parte della prassi dell’Amministrazione finanziaria non interpretasse invece l’antielusione come un “gioco delle differenze” con cui recuperare non solo e non tanto i risparmi d’imposta realmente indebiti, quanto piuttosto i risparmi d’imposta frutto di una più che legittima pianificazione fiscale.
Da questo punto di vista, si può dire che l’elusione fiscale sta al diritto tributario come l’obbligo di reintegro di cui al “celeberrimo” articolo 18 sta al diritto del lavoro: entrambe le materie necessiterebbero di interventi normativi maggiori di quelli di cui in effetti abbisognerebbero, se soltanto chi applica e interpreta quelle norme non partisse spesso da impostazioni più ideologiche che giuridiche.
In estrema sintesi, quali princìpi sono stati affermati?
Innanzitutto, che l’abuso del diritto tributario può essere sempre invocato dall’Amministrazione finanziaria per disconoscere un risparmio di imposta indebito, senza dunque bisogno di una norma antielusiva espressa che consenta di procedere in tal modo, ma anche che l’esistenza di una norma antielusiva espressa sia conditio sine qua non per l’applicabilità delle sanzioni pecuniarie proprie della fattispecie di dichiarazione infedele, nonché per la rilevanza della condotta elusiva anche ai fini penali.
In pratica, il rapporto, tra la clausola generale antiabuso del diritto di diretta derivazione costituzionale (secondo la giurisprudenza della Cassazione medesima) e la cosiddetta norma antielusiva generale di cui all’art. 37-bis del DPR 600/1973, andrebbe letto nel senso che la seconda è una sorta di rafforzativo della prima; o, per meglio dire, è una sorta di segnale di allarme che il Legislatore lancia al contribuente, per metterlo sull’avviso circa le potenzialità elusive di una serie di operazioni e comportamenti.
Dopodiché, se lo schema ritenuto elusivo dall’Amministrazione finanziaria (e, in caso di ricorso, confermato come tale dal giudice tributario ed eventualmente da quello penale) non rientra tra quelli “segnalati” da una disposizione antielusiva espressa, il risparmio d’imposta indebito viene recuperato dall’Erario, senza però poter dare luogo anche all’applicazione di sanzioni amministrative e a riflessi penali; se rientra invece tra quelli “segnalati” come a rischio, ecco che, oltre al recupero del risparmio di imposta indebito, il contribuente può ritrovarsi oggetto anche di sanzioni amministrative e penali.
Al netto delle legittime e condivisibili perplessità che, tutt’oggi, gran parte della dottrina nutre nei confronti della riconducibilità dell’esistenza di una clausola generale antiabuso al generalissimo principio di capacità contributiva enunciato dall’art. 53 della Costituzione, questo tipo di impostazione e conseguente gradazione, nei riflessi sanzionatori e penali, pare tutto sommato convincente.
Altre pronunce giurisprudenziali, questa volta però di merito, hanno opportunamente statuito negli scorsi mesi come le tutele procedimentali e finanziarie pro contribuente che caratterizzano gli accertamenti antielusivi ex art. 37-bis del DPR 600/1973 si applichino identicamente anche a quegli accertamenti antielusivi che, prescindendo dall’ambito di applicazione dell’art. 37-bis, vengono esperiti dall’Amministrazione finanziaria direttamente in forza dell’asserita clausola generale antiabuso ex art. 53 Costituzione.
A questo punto, se il Legislatore è davvero convinto dell’opportunità di assecondare la “creazione giurisprudenziale” dell’abuso del diritto, si può ben dire che i tempi sono maturi per una codificazione in norma della sua esistenza, al fine innanzitutto di codificare in modo certo e univoco tutti questi aspetti procedurali e applicativi (tutele procedimentali e finanziarie, pro contribuente, conseguenze sanzionatorie e rilevanza penale) che sono stati ad oggi affrontati dalla giurisprudenza con risultati assai più apprezzabili di quanto apprezzabile non sia stato lo sforzo interpretativo fatto a monte per “creare dal nulla” la clausola generale antiabuso.
Nel procedere a questa codificazione normativa, è però opportuno avere chiare anche alcune questioni ulteriori.
Primo: l’individuazione ed elencazione dei comportamenti che rientrano nell’ambito di applicazione di norme antielusive espresse e, in quanto tali, sanzionabili e penalmente rilevanti.
Nell’istante in cui viene codificata l’esistenza di un principio generale antiabuso e le norme antielusive espresse divengono solo un “di cui” che serve sostanzialmente a evidenziare i “casi a rischio” che giustificano, oltre al recupero del risparmio di imposta indebito, anche l’applicazione di sanzioni e di riflessi penali, ecco allora che questo tipo di individuazione ed elencazione deve necessariamente seguire criteri di maggiore analiticità e prudenza, rispetto a quanto poteva risultare giusto in un contesto normativo in cui si pensava invece che, al di fuori dell’ambito di applicazione di quelle norme espresse, neppure fosse possibile contestare l’elusione e recuperare il risparmio d’imposta indebito.
Secondo: la specificazione del fatto che il risparmio d’imposta indebito è soltanto quello che si origina da comportamenti la cui principale o prevalente finalità economica si rivela essere proprio il conseguimento del risparmio medesimo, mentre in nessun caso può essere considerato indebito un risparmio d’imposta che si origina in relazione a comportamenti che vengono posti in essere anzitutto per raggiungere legittime finalità economiche “ulteriori”.
Terzo: la specificazione del fatto che, tantomeno, può essere considerato indebito un risparmio d’imposta che non è risparmio in quanto tale (nel senso che non è vero che il contribuente paga meno imposte di quelle che avrebbe pagato in assenza di quel comportamento), ma è piuttosto mero risparmio differenziale rispetto a comportamenti alternativi mediante i quali si sarebbe potuti pervenire alla medesima sistemazione di legittime finalità economiche “ulteriori”, avvalendosi del diritto di scegliere, appunto, la via fiscalmente meno onerosa tra quelle messe a disposizione dall’ordinamento giuridico per sistemare i propri legittimi affari.
Questi ultimi due aspetti, in verità, non necessiterebbero neppure di un intervento normativo, se gran parte della prassi dell’Amministrazione finanziaria non interpretasse invece l’antielusione come un “gioco delle differenze” con cui recuperare non solo e non tanto i risparmi d’imposta realmente indebiti, quanto piuttosto i risparmi d’imposta frutto di una più che legittima pianificazione fiscale.
Da questo punto di vista, si può dire che l’elusione fiscale sta al diritto tributario come l’obbligo di reintegro di cui al “celeberrimo” articolo 18 sta al diritto del lavoro: entrambe le materie necessiterebbero di interventi normativi maggiori di quelli di cui in effetti abbisognerebbero, se soltanto chi applica e interpreta quelle norme non partisse spesso da impostazioni più ideologiche che giuridiche.
Nessun commento:
Posta un commento