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martedì 20 dicembre 2011

responsabilità amministrativa degli enti

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Responsabilità 231: con la sentenza di condanna, obbligatoria la confisca

La Cassazione ribadisce la distinzione tra la confisca obbligatoria ex DLgs. 231/2001 e la confisca «tradizionale» prevista dal codice penale

/ Martedì 20 dicembre 2011
Con la sentenza n. 46756, depositata ieri, la Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla confisca obbligatoria del prezzo o profitto del reato disposta ex art. 19 del DLgs 231/2001, conseguente alla sentenza di condanna dell’ente imputato. La sentenza in esame risulta di particolare interesse, in quanto gli Ermellini hanno voluto cogliere l’occasione per sviscerare l’istituto di riferimento e analizzarne la natura giuridica, marcando i tratti distintivi della confisca obbligatoria ex “231” rispetto alla confisca “tradizionale” prevista dal codice penale e facendo altresì il punto dello status gius-dottrinale dell’evoluzione dell’istituto de quo.
Ciò posto, il solco è tracciato dall’art. 240 c.p. e dalle nozioni di provento, profitto e confisca (così come definiti dalle SS.UU. n. 26654/2008), ove per “provento del reato“ si intende “tutto ciò che deriva dalla commissione del reato” (SS.UU. n. 9/99), ivi compreso il “prodotto del reato“ e con esso tutte le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediate reato; così come il “prezzo del reato“, riscontrabile nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito; mentre per “profitto“ si intende il “vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato”.
Passando ad analizzare ulteriormente quest’ultimo disposto, emerge come la Suprema Corte abbia acclarato il termine sibillino “vantaggio” quale “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale“ (SS.UU. n. 29952/2004). Così come, per quanto concerne il concetto di “diretta e immediata derivazione causale dal reato”, occorre rilevare come la pertinenzialità del profitto al reato costituisca l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato, occorrendo, in punto, una “correlazione diretta” del profitto col reato e una “stretta affinità“ con l’oggetto di questo, escludendosi con ciò qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità dall’illecito (ex plurimis, SS.UU. n. 31988/2006). La Corte ha anche precisato che il profitto del reato deve essere inteso come complesso di vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico.
Questi, dunque i tratti essenziali della confisca “tradizionale” ex art. 240 c.p., alla quale la giurisprudenza di legittimità ha pacificamente riconosciuto la natura di misura di sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato, ovvero delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche se i corrispondenti effetti ablativi si risolvono sostanzialmente in una sanzione pecuniaria (SS.UU. n. 22 gennaio 1983).
In evoluzione e ampliamento di tale disposto, sono state introdotte nell’ordinamento ipotesi di confisca obbligatoria anche dei beni strumentali alla consumazione del reato e del profitto ricavato, nonché ipotesi di confisca nella forma per equivalente, avente ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore equivalente al prezzo o profitto del reato. Quest’ultima opera quando non è possibile l’apprensione del prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale e permette così di evitare che il reo riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria. Su tale alveo riposa la confisca ex art. 19 del DLgs 231/2001 ove, al comma 2, è stato espressamente codificato tale intento enunciando che la confisca, anche nella forma per equivalente, si configura come sanzione principale, obbligatoria e autonoma.
Con tale enunciato la Suprema Corte ha inteso infoltire le schiere di questo orientamento che può dirsi ormai pacifico.
In tal senso, si ricorda anche la precedente Cass. n. 42894/2009, secondo la quale la previsione della confisca per equivalente trova la sua ratio nell’esigenza di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredirne l’oggetto principale, ossia i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume i tratti distintivi di una vera e propria sanzione. In questa prospettiva, la confisca per equivalente è rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per l’individuazione dei beni in cui si incorpora il profitto iniziale, nonché a ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego. Ciò comporta che tale confisca (a differenza dell’ordinaria confisca prevista dall’art. 240 c.p., che può avere a oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) può riguardare beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno alcun collegamento diretto con il singolo reato (fattispecie in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ex artt. 19 e 53 del DLgs. n. 231/2001).
 / Michele CATTADORI e Annalisa DE VIVO

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