IVA
Contributi consortili, rimborso IVA anche se è scaduto il termine biennale
Secondo la Corte di Giustizia, la modifica interpretativa operata nel 1999 dall’Agenzia permette di chiedere la restituzione dell’IVA non dovuta
/ Venerdì 16 dicembre 2011
Con la sentenza del 15 dicembre 2011 (procedimento C-427/10), la Corte di Giustizia Ue si è pronunciata in merito alla compatibilità della disciplina nazionale con i principi di effettività, non discriminazione e di neutralità dell’IVA, in relazione all’esistenza, nell’ordinamento nazionale, di due discipline differenti per la richiesta di rimborso dell’IVA indebitamente applicata.
Più in particolare, tale diritto in capo al committente/acquirente può essere esercitato in via civilistica nel termine decadenziale di dieci anni, ex art. 2033 c.c., mentre in capo al prestatore/cedente lo stesso diritto avrebbe un termine di decadenza minore, in quanto disciplinato dall’ordinamento tributario e, nello specifico, dall’art. 21, comma 2, del DLgs. n. 546/92 che prevede il termine di due anni per la richiesta del rimborso dell’IVA non dovuta.
Nella fattispecie, la querelle nasce in relazione all’applicazione del tributo da parte di un istituto di credito sui compensi percepiti dal medesimo per effetto dell’attività di riscossione dei contributi consortili. La rivalsa dell’IVA in capo ai consorzi, infatti, è avvenuta in quanto all’epoca dei fatti (dal 1984 al 1994), l’attività di riscossione dei contributi consortili non era considerata tra le operazioni esenti, di cui all’art. 10, n. 5, del DPR 633/72.
A seguito di tale interpretazione, quindi, i consorzi committenti del servizio di riscossione chiedevano la restituzione, a titolo di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., dell’IVA pagata sui relativi compensi, innanzi al giudice ordinario, ottenendone la restituzione da parte dell’istituto bancario titolare della concessione e, dal canto suo, la banca stessa azionava domanda di rimborso dell’IVA corrispondente alle somme che le erano state richieste dai suoi committenti (consorzi).
Tuttavia, in relazione a tale ultima richiesta, la C.T. Reg. del Lazio dichiarava la banca “decaduta dal diritto al rimborso per decorrenza del termine di due anni dai pagamenti dell’IVA, previsto dall’art. 21, n. 2, del DLgs. n. 546 del 31 dicembre 1992. In proposito detto organo giurisdizionale dichiarava che la circolare amministrativa del 26 febbraio 1999 non poteva costituire il presupposto a partire dal quale inizia a decorrere detto termine”. Di fatto, quindi, la banca prestatrice del servizio, si trovava tra “incudine e martello”, in quanto aveva dovuto restituire l’IVA addebitata (regolarmente) per rivalsa alla controparte, ma non poteva altrettanto chiederne il rimborso all’Erario per spirare del termine biennale.
La Corte di Giustizia Ue, chiamata a pronunciarsi a seguito del rinvio operato dalla Cassazione, richiamando precedenti sentenze (Reemtsma Cigarettenfabriken del 15 marzo 2007, causa C-35/05), precisa che il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale, in forza della quale soltanto il cedente/prestatore di servizi è legittimato a chiedere il rimborso dell’IVA indebitamente versata, mentre il committente/acquirente può agire in via civilistica, purché termini del genere non finiscano per rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto al rimborso.
Nel caso affrontato, tuttavia, la sopravvenuta modifica interpretativa da parte dell’Agenzia nell’anno 1999, e quindi ben oltre il termine biennale per la richiesta del rimborso, non può, secondo quanto sostenuto dai giudici comunitari, “privare completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall’Amministrazione finanziaria il rimborso dell’IVA non dovuta che egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi”.
Sandro CERATO
Più in particolare, tale diritto in capo al committente/acquirente può essere esercitato in via civilistica nel termine decadenziale di dieci anni, ex art. 2033 c.c., mentre in capo al prestatore/cedente lo stesso diritto avrebbe un termine di decadenza minore, in quanto disciplinato dall’ordinamento tributario e, nello specifico, dall’art. 21, comma 2, del DLgs. n. 546/92 che prevede il termine di due anni per la richiesta del rimborso dell’IVA non dovuta.
Nella fattispecie, la querelle nasce in relazione all’applicazione del tributo da parte di un istituto di credito sui compensi percepiti dal medesimo per effetto dell’attività di riscossione dei contributi consortili. La rivalsa dell’IVA in capo ai consorzi, infatti, è avvenuta in quanto all’epoca dei fatti (dal 1984 al 1994), l’attività di riscossione dei contributi consortili non era considerata tra le operazioni esenti, di cui all’art. 10, n. 5, del DPR 633/72.
Dal 1999, i contributi consortili sono considerati esenti
Successivamente, con la C.M. 26 febbraio 1999, n. 52/E, l’Amministrazione finanziaria, come si legge nel punto 13 della sentenza, “comunicava di aver mutato l’originaria interpretazione della disposizione citata, ritenendo che i contributi consortili avessero natura tributaria e che, conseguentemente, i compensi dovuti dai consorzi per i servizi di riscossione di detti contributi dovessero essere considerati esenti da IVA, ai sensi dell’art. 10, n. 55, del DPR n. 633/72”.A seguito di tale interpretazione, quindi, i consorzi committenti del servizio di riscossione chiedevano la restituzione, a titolo di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., dell’IVA pagata sui relativi compensi, innanzi al giudice ordinario, ottenendone la restituzione da parte dell’istituto bancario titolare della concessione e, dal canto suo, la banca stessa azionava domanda di rimborso dell’IVA corrispondente alle somme che le erano state richieste dai suoi committenti (consorzi).
Tuttavia, in relazione a tale ultima richiesta, la C.T. Reg. del Lazio dichiarava la banca “decaduta dal diritto al rimborso per decorrenza del termine di due anni dai pagamenti dell’IVA, previsto dall’art. 21, n. 2, del DLgs. n. 546 del 31 dicembre 1992. In proposito detto organo giurisdizionale dichiarava che la circolare amministrativa del 26 febbraio 1999 non poteva costituire il presupposto a partire dal quale inizia a decorrere detto termine”. Di fatto, quindi, la banca prestatrice del servizio, si trovava tra “incudine e martello”, in quanto aveva dovuto restituire l’IVA addebitata (regolarmente) per rivalsa alla controparte, ma non poteva altrettanto chiederne il rimborso all’Erario per spirare del termine biennale.
La Corte di Giustizia Ue, chiamata a pronunciarsi a seguito del rinvio operato dalla Cassazione, richiamando precedenti sentenze (Reemtsma Cigarettenfabriken del 15 marzo 2007, causa C-35/05), precisa che il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale, in forza della quale soltanto il cedente/prestatore di servizi è legittimato a chiedere il rimborso dell’IVA indebitamente versata, mentre il committente/acquirente può agire in via civilistica, purché termini del genere non finiscano per rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto al rimborso.
Nel caso affrontato, tuttavia, la sopravvenuta modifica interpretativa da parte dell’Agenzia nell’anno 1999, e quindi ben oltre il termine biennale per la richiesta del rimborso, non può, secondo quanto sostenuto dai giudici comunitari, “privare completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall’Amministrazione finanziaria il rimborso dell’IVA non dovuta che egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi”.
Sandro CERATO
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