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martedì 15 novembre 2011

Nelle esportazioni «franco fabbrica» si fa dogana in Italia


Nelle esportazioni «franco fabbrica» si fa dogana in Italia

In caso contrario, lecito il recupero dell’IVA da parte dell’Amministrazione finanziaria

/ Martedì 15 novembre 2011
L’art. 161, par. 5, del Codice doganale comunitario, di cui al Reg. CEE n. 2913/1992, dispone che la dichiarazione di esportazione deve essere depositata presso l’Ufficio doganale preposto alla vigilanza nel luogo in cui l’esportatore è stabilito, ovvero dove le merci sono imballate o caricate per essere esportate.
La nozione di esportatore è fornita dall’art. 788 del Reg. CEE n. 2454/1993. È tale colui per conto del quale è fatta la dichiarazione di esportazione e che, al momento della sua accettazione, è proprietario o ha un diritto similare di disporre delle merci (par. 1). Tuttavia, quando la proprietà o un diritto similare di disposizione delle merci appartenga a una persona stabilita fuori della Comunità, in applicazione del contratto a base dell’esportazione, si considera esportatore la parte contraente stabilita nella Comunità (par. 2).
È noto che, in caso di esportazione con resa EXW (Ex Works o franco fabbrica), l’uscita dei beni dal territorio doganale comunitario è curata dal cessionario non residente o da un terzo per suo conto. Dal combinato disposto dell’art. 161, par. 5, del Reg. CEE n. 2913/1992 e dell’art. 788, par. 2, del Reg. CEE n. 2454/1993, si evince che la dichiarazione di esportazione deve essere intestata al cedente italiano se il cessionario che cura l’esportazione è extracomunitario; in tal caso, la procedura doganale va espletata in Italia.
L’obbligo di presentare la dichiarazione doganale presso la dogana territorialmente competente rispetto, in via generale, alla sede del cedente è stato confermato dalla circolare dell’Agenzia delle Dogane n. 18/2010 (Parte III, § 3.1). Si afferma, infatti, che “il fatto che un esportatore venda la propria merce «ex-work» e che l’acquirente estero sia il soggetto responsabile per il trasporto, non dà diritto a quest’ultimo di decidere il luogo ove presentare la dichiarazione di esportazione il quale deve, quindi, attenersi alla regola secondo la quale la dichiarazione di esportazione deve essere presentata secondo le forme e regole stabilite dalla normativa doganale vigente e quindi presso l’ufficio doganale preposto alla vigilanza nel luogo in cui l’esportatore è stabilito o dove le merci sono imballate o caricate per essere esportate”.
È quindi in contrasto con la normativa comunitaria, salvo le operazioni in groupage, la prassi di fare dogana, per esempio, in Slovenia per la merce diretta nei Paesi balcanici extracomunitari, ovvero in Polonia o in Lituania per la merce destinata ai Paesi dell’ex Unione Sovietica.
La richiamata circolare fornisce, inoltre, due importanti indicazioni. In primo luogo, sotto il profilo procedurale, attenua la portata dell’art. 161, par. 5, del Codice doganale comunitario, precisando che la dichiarazione di esportazione può essere presentata a un qualsiasi Ufficio doganale situato in Italia; quindi, non necessariamente a quello competente in relazione alla sede del cedente. In secondo luogo, viene chiarito che l’esportazione compiuta, dal punto di vista doganale, interamente in altro Stato membro non viene registrata nel sistema informatico nazionale AIDA, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria non è in grado di verificare, per via telematica, la conclusione dell’operazione ai fini del riconoscimento della non imponibilità IVA di cui all’art. 8 del DPR n. 633/1972.
Per le cessioni con clausola EXW, la prova dell’avvenuta esportazione esige, pertanto, che il cedente italiano vincoli il cessionario non residente a compiere l’operazione di esportazione in Italia. In alternativa, è senz’altro possibile ricorrere a un diverso termine di resa, in specie alla clausola FCA (Free carrer o franco vettore), attraverso la quale il cedente consegna al vettore scelto dall’acquirente la merce già sdoganata all’esportazione.
Andrebbe comunque confermato, questa volta dall’Agenzia delle Entrate, che la procedura di esportazione prevista ai fini doganali è valida anche ai fini del regime di non imponibilità IVA, con il superamento della diversa indicazione fornita dalla C.M. n. 35/E/1997 (§ 4). Se, infatti, ai fini doganali, la prova dell’esportazione è costituita dalla dichiarazione doganale intestata al cedente italiano, ai fini IVA l’Amministrazione finanziaria ha dato rilevanza alla vidimazione apposta dall’Ufficio doganale sulla fattura emessa dal cedente, nel presupposto che “il documento di esportazione, munito del visto uscire, resta all’acquirente estero.
In ogni caso, la detassazione dell’operazione presuppone che i beni siano esportati entro 90 giorni dalla consegna: non rileva la data di emissione della fattura, anche se anteriore alla consegna, bensì la data risultante dal documento di consegna o di trasporto, che può essere il documento di trasporto o la lettera di vettura internazionale (CMR). Il trattamento di non imponibilità, inoltre, essendo collegato al luogo di consumo dei beni in territorio extracomunitario, opera anche se il cessionario è stabilito in altro Paese membro (C.M. n. 13-VII-15-464/1994, § B.16.3 e R.M. n. VII-15-302/1994). In tale ipotesi, non è rimborsabile l’IVA erroneamente addebitata nel convincimento che lo schema dell’esportazione di cui all’art. 8, comma 1, lett. b), del DPR n. 633/1972 sia applicabile solo quando l’acquirente è extracomunitario (C.T. Prov. di Pescara n. 47 del 2009).
 / Marco PEIROLO

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