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martedì 15 novembre 2011

iva Dichiarazioni d’intento false, l’IVA è dovuta dal cedente

iva

Dichiarazioni d’intento false, l’IVA è dovuta dal cedente

La sentenza della Suprema Corte riguarda il cedente che riceve le false dichiarazioni d’intento dalla «cartiera»

/ Martedì 15 novembre 2011
Il soggetto che, sulla base di dichiarazioni d’intento false prodotte dall’acquirente, emette fattura in regime di non imponibilità, è tenuto a versare la relativa IVA, con sanzioni e interessi, se l’Amministrazione finanziaria, contestandogli la mancata applicazione dell’imposta, allega elementi diretti a provare il suo coinvolgimento nella frode posta in essere dall’acquirente. È quanto si desume dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 23610 dell’11 novembre 2011.
Il meccanismo frodatorio oggetto della sentenza è ormai noto e, purtroppo, ancora diffuso: generalmente, una società “cartiera” emette delle dichiarazioni, con le quali richiede al proprio fornitore (cedente) di emettere fatture nei suoi confronti senza applicazione dell’IVA, in quanto “esportatore abituale” (ex art. 8 del DPR 633/1972); ricevute le fatture in regime di non imponibilità, la cartiera emette, a sua volta, delle fatture con IVA (che, però, poi non versa) alla società finale italiana (di solito formalmente in regola sotto il profilo fiscale), la quale può così detrarre l’IVA e allo stesso tempo acquistare a un prezzo decisamente inferiore a quello di mercato. Benché abitualmente ben congegnate e costruite in modo tale da far risultare formalmente regolari i soggetti a monte e a valle della “cartiera”, queste frodi in genere sono poste in essere con l’accordo di tutti gli operatori economici che intervengono nei vari passaggi dei beni. Ne è ben consapevole la Guardia di Finanza, che, come noto, spesso si avvale di intercettazioni telefoniche per “scovare” questi fenomeni fraudolenti.
La pronuncia in commento riguarda il soggetto che dà avvio alla catena di operazioni preordinate alla frode IVA: il cedente, che riceve le false dichiarazioni d’intento dalla “cartiera”. L’Amministrazione finanziaria aveva accertato a suo carico una maggiore IVA dovuta, oltre a sanzioni e interessi, per l’emissione di fatture in regime di non imponibilità, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. c), del DPR 633/1972, in assenza dei presupposti previsti.
Di diverso avviso erano stati i giudici di merito
I giudici di merito ritenevano che il contribuente non avesse alcuna responsabilità per l’IVA dovuta, giacché aveva ricevuto le dichiarazioni d’intento dal cessionario e, applicando la normativa sopra indicata, aveva, quindi, correttamente operato in regime di non imponibilità, non essendo responsabile per le false dichiarazioni rilasciate dall’acquirente. Inoltre, secondo i giudici di merito, il contribuente non avrebbe tratto alcun vantaggio dalla mancata applicazione dell’imposta.
La Suprema Corte ha stabilito, invece, che la consapevolezza da parte del cedente della falsità della dichiarazione d’intento presentata da un soggetto, che attesta la propria qualifica di esportatore abituale, in forza della quale l’operazione non viene assoggettata a imposta, “comporta la non sussumibilità di quest’ultima nella fattispecie legale delineata dall’articolo 8 del DPR 633/1972 per mancanza originaria dell’elemento che caratterizza quel modello legale”. Conseguentemente, poiché l’operazione non poteva essere effettuata in regime di imponibilità, il cedente è tenuto a versare egli stesso l’imposta ex art. 17 del DPR 633/1972. Gli Ermellini hanno ricordato, quindi, le loro precedenti pronunce in base alle quali avevano confermato la legittimità del recupero IVA operato dal Fisco a carico di cedenti, che non avevano applicato l’imposta sulla scorta di false dichiarazioni d’intento pur essendo a conoscenza che la merce sarebbe rimasta in Italia (cfr. Cass. 16819/2008, 21956/2010, 20894/2005).
Nel caso di specie, a fronte dei numerosi elementi addotti dall’Amministrazione finanziaria e diretti a provare l’esistenza di un accordo fraudolento tra il cedente e il cessionario, puntualmente “trasferiti” nei motivi di appello, i giudici del riesame non avevano motivato circa l’esistenza o inesistenza di tale patto frodatorio, limitandosi a richiamare il regime di responsabilità previsto dal già citato articolo 8 e ad evidenziare l’assenza di vantaggi derivanti al cedente per la mancata applicazione dell’imposta.
Secondo l’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte, pertanto, in presenza di elementi indiziari (addotti dal Fisco) che depongano a favore della partecipazione del cedente alla frode IVA, posta in essere con l’utilizzo di false dichiarazioni d’intento, questo è tenuto a versare l’imposta non applicata in fattura. La valutazione del materiale probatorio, naturalmente, spetta al giudice di merito, che però, data la centralità della questione, non può esimersi dal compierla, e con un adeguato procedimento logico-giuridico.
 / Alessandro BORGOGLIO

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