Ricorso contro il diniego di autotutela «ristretto» dalla Cassazione
Il contribuente deve dimostrare l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio di un atto ormai divenuto definitivo
Nella giornata di ieri è stata depositata la sentenza 10020 della Corte di Cassazione, ove è stato confermato il pregresso orientamento in tema di ricorso contro il diniego di autotutela.
I giudici affermano che, nel momento in cui i termini per ricorrere avverso un provvedimento impositivo sono spirati, in sostanza il contribuente non può tentare di evitare gli effetti della definitività dell’atto presentando domanda di annullamento d’ufficio dell’atto e impugnando poi il relativo diniego.
Viene ribadito il seguente principio di diritto: “il contribuente che richiede all’amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto”.
Ne consegue che il ricorso contro il diniego può essere proposto solo per censurare vizi di legittimità dello stesso e non il merito della pretesa.
Quanto esposto dalla Cassazione, in primo luogo, insegna una cosa: a prescindere dalla rilevanza mediatica che talvolta viene data al tema del ricorso contro il diniego di autotutela, detto rimedio è e rimane circoscritto a casi del tutto particolari, se non eccezionali, quindi mai il contribuente può pensare di sindacare il merito della pretesa dopo lo spirare dei termini di decadenza per la notifica del ricorso.
Detto ciò, occorre domandarsi quali siano i casi in cui tale ricorso è ammesso, o meglio quando ci può essere l’interesse pubblico di cui parla la Cassazione.
La risposta al quesito appena posto è ricavabile dall’esame della pregressa giurisprudenza.
Il ricorso contro il diniego all’annullamento d’ufficio di un provvedimento definitivo è possibile, in primo luogo, nei casi di manifesta illegittimità della pretesa fiscale, e tale aspetto lo si vede o quando la pretesa è palesemente, senza un minimo esame della fattispecie, contraria al diritto, o quando si è in presenza di un errore di fatto.
L’errore di fatto potrebbe ravvisarsi ad esempio da un travisamento dei fatti di causa, ma occorre che l’errore, come detto, sia di fatto e non di diritto (non rientra in tale casistica l’eventuale violazione di legge, che deve essere fatta valere nel ricorso contro l’atto entro i sessanta giorni).
Un ulteriore esempio è dato dalla sentenza 3608 del 2006, ove la Cassazione aveva detto che bisogna fare riferimento ai vizi sopravvenuti, ovvero non conosciuti né conoscibili ab origine dal contribuente, il che fa venire in mente la revocazione, ovvero il mezzo di impugnazione con cui è possibile impugnare una sentenza addirittura dopo il giudicato.
Si pensi alla sopravvenienza di un giudicato dopo la definitività dell’accertamento su questioni “contigue” all’accertamento medesimo, come la perdita di uno status familiare, o, anche se la questione è molto più dubbia per via del cosiddetto “doppio binario”, ad un giudicato penale ove il giudice penale abbia accertato che il contribuente non ha emesso fatture inesistenti.
/ Alfio CISSELLO FONTE:EUTEKNE
I giudici affermano che, nel momento in cui i termini per ricorrere avverso un provvedimento impositivo sono spirati, in sostanza il contribuente non può tentare di evitare gli effetti della definitività dell’atto presentando domanda di annullamento d’ufficio dell’atto e impugnando poi il relativo diniego.
Viene ribadito il seguente principio di diritto: “il contribuente che richiede all’amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto”.
Ne consegue che il ricorso contro il diniego può essere proposto solo per censurare vizi di legittimità dello stesso e non il merito della pretesa.
Quanto esposto dalla Cassazione, in primo luogo, insegna una cosa: a prescindere dalla rilevanza mediatica che talvolta viene data al tema del ricorso contro il diniego di autotutela, detto rimedio è e rimane circoscritto a casi del tutto particolari, se non eccezionali, quindi mai il contribuente può pensare di sindacare il merito della pretesa dopo lo spirare dei termini di decadenza per la notifica del ricorso.
Detto ciò, occorre domandarsi quali siano i casi in cui tale ricorso è ammesso, o meglio quando ci può essere l’interesse pubblico di cui parla la Cassazione.
La risposta al quesito appena posto è ricavabile dall’esame della pregressa giurisprudenza.
Il ricorso contro il diniego all’annullamento d’ufficio di un provvedimento definitivo è possibile, in primo luogo, nei casi di manifesta illegittimità della pretesa fiscale, e tale aspetto lo si vede o quando la pretesa è palesemente, senza un minimo esame della fattispecie, contraria al diritto, o quando si è in presenza di un errore di fatto.
Mai lasciare spirare i termini per il ricorso
Si pensi ad accertamenti notificati nei confronti di società cancellate dal Registro delle imprese, o nei confronti di amministratori di società di capitali per debiti della società: in dette ipotesi, manca il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, quindi si ha una radicale ed evidente infondatezza della pretesa.L’errore di fatto potrebbe ravvisarsi ad esempio da un travisamento dei fatti di causa, ma occorre che l’errore, come detto, sia di fatto e non di diritto (non rientra in tale casistica l’eventuale violazione di legge, che deve essere fatta valere nel ricorso contro l’atto entro i sessanta giorni).
Un ulteriore esempio è dato dalla sentenza 3608 del 2006, ove la Cassazione aveva detto che bisogna fare riferimento ai vizi sopravvenuti, ovvero non conosciuti né conoscibili ab origine dal contribuente, il che fa venire in mente la revocazione, ovvero il mezzo di impugnazione con cui è possibile impugnare una sentenza addirittura dopo il giudicato.
Si pensi alla sopravvenienza di un giudicato dopo la definitività dell’accertamento su questioni “contigue” all’accertamento medesimo, come la perdita di uno status familiare, o, anche se la questione è molto più dubbia per via del cosiddetto “doppio binario”, ad un giudicato penale ove il giudice penale abbia accertato che il contribuente non ha emesso fatture inesistenti.
/ Alfio CISSELLO FONTE:EUTEKNE
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