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venerdì 22 giugno 2012

Accertamento

Niente raddoppio dei termini se il contribuente riporta «in avanti» le perdite

L’indebito riporto delle perdite non integra la dichiarazione infedele, siccome non vi è alcun elemento passivo fittizio
/ Venerdì 22 giugno 2012
È ormai noto agli operatori del diritto tributario che la presenza degli estremi di un delitto fiscale disciplinato dal DLgs. 74/2000 comporta il raddoppio dei termini di decadenza dal potere di accertamento. Così dispongono, infatti, gli artt. 43 del DPR 600/73 e 57 del DPR 633/72 post DL 223/2006.
Sull’ambito applicativo della norma si è pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011, ove i giudici hanno sancito che il raddoppio si verifica anche se l’elemento penalmente rilevante emerge in un momento in cui gli ordinari termini per l’accertamento sono ormai decaduti.
Varie volte vi è la necessità di delineare se una certa condotta possa integrare gli estremi di un reato fiscale, con particolare riferimento alla dichiarazione infedele: la Consulta, al riguardo, aveva stabilito che il giudice tributario deve sempre vagliare in maniera autonoma se sussiste il presupposto di applicabilità del raddoppio, ovvero l’obbligo di denuncia.
Molto interessante si profila la sentenza n. 246/1/12 della Commissione tributaria provinciale di Siracusa, depositata in data 12 giugno 2012.
La Commissione, intervendendo proprio sull’aspetto richiamato, ha evidenziato che l’indebito riporto “in avanti” delle perdite fiscali non è una condotta che integra gli estremi della dichiarazione infedele, con la conseguenza che il raddoppio dei termini è inapplicabile.
L’art. 4 del DLgs. 74/2000 prevede che ai fini del reato di dichiarazione infedele il contribuente deve avere, tra l’altro, inserito in dichiarazione “elementi passivi fittizi” comportanti un’imposta evasa superiore a 50.000 euro.
È pertanto di fondamentale importanza verificare se tra il concetto di “elementi passivi fittizi” possano rientrare le perdite riportate in avanti.
Il contribuente aveva, nel caso in oggetto, aderito al cosiddetto “condono tombale”, ma non aveva affrancato le perdite ai sensi dell’art. 9, comma 7, della L. n. 289/2002. Nonostante questo, le perdite erano state computate “in avanti”: sulla base di ciò, l’Agenzia delle Entrate riteneva sussistente la dichiarazione infedele quindi operante il raddoppio dei termini.
Gli elementi passivi fittizi sono solo quelli inesistenti
Il concetto di “elementi passivi fittizi”, precisa la Commissione, deve coincidere con gli elementi inesistenti. Nella sentenza si legge testualmente: “Se, quindi, il fittizio equivale ad inesistente e l’inesistenza è la divergenza dal reale, si trae il corollario che anche la fittizietà si risolve in una non conformità al reale. Dunque, danno luogo a componenti passive fittizie solamente quelle annotazioni di costi o passività relativi ad operazioni non realmente avvenute nella realtà fenomenica dei fatti”.
Le perdite d’impresa, nonostante indebitamente utilizzate in quanto non affrancate, esistevano, e non erano nemmeno state contestate: “non pare, quindi, che al contribuente possa essere contestata l’indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi da cui scaturisce l’ipotesi di reato prevista dall’art. 4 DLgs. 74/2000”.
La sentenza, quindi, conferma che il Giudice tributario deve sempre vagliare la presenza degli estremi del reato, in quanto da tale fatto dipende l’operatività del raddoppio.
Altre sentenze si sono espresse per l’inapplicabilità del raddoppio nelle ipotesi di accertamenti fondati sul cosiddetto “abuso del diritto” (C.T. Prov. Torino 8 giugno 2011 n. 97/15/11) e sulle violazioni della competenza fiscale (C.T. Prov. Milano 26 settembre 2011 n. 231/40/11).

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