penale tributario
Costi non «decisivi» per il reato di omessa dichiarazione
In assenza di elementi che facciano pensare all’esistenza di costi, l’imposta evasa può essere determinata sui soli ricavi attestati da fatture
In presenza di fatture che attestino ricavi in grado di condurre ad un’imposta superiore alla prescritta soglia di punibilità ed in assenza di elementi che facciano pensare all’esistenza di costi – non addotti dagli imputati in ragione dell’assenza di documentazione contabile – è legittima la condanna per omessa presentazione delle dichiarazioni annuali ai fini delle imposte sui redditi ed ai fini IVA. È questo il principio desumibile dalla sentenza 4 ottobre 2011 n. 35858 della Corte di Cassazione.
Ai due amministratori di una società veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000, avendo omesso la presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte dirette ed IVA relative agli anni 2001, 2002 e 2003, nonostante la presenza di elementi positivi di reddito. I giudici di primo grado li assolvevano, dal momento che l’imposta evasa – che, ai fini dell’integrazione del reato, per gli anni in questione, doveva essere superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 77.468,53 euro (importo ridotto a 30.000 euro dall’art. 2 comma 36-vicies semel lett. f) del DL 138/2011) – era stata calcolata sul presupposto che il reddito imponibile fosse uguale al fatturato ovvero senza procedere ad una quantificazione dei costi necessari all’acquisto dei mezzi di produzione strumentali alla realizzazione del fatturato stesso.
I giudici d’appello, di contro, reputavano sussistente il reato in questione, sottolineando come l’accertamento del reddito non fosse stato affatto operato sulla base di indici presuntivi di tipo astratto ed automatico e senza alcun riferimento a dati specifici concreti da cui poter desumere l’entità dell’imposta evasa. In particolare, si evidenziava come la considerazione dei soli ricavi fosse la conseguenza del fatto che solo di essi vi era documentazione. Nessun rilievo, inoltre, poteva attribuirsi, come le difese avrebbero voluto, ad altro procedimento penale volto ad accertare la falsità delle fatture utilizzate per la determinazione del reddito e, quindi, dell’imposta evasa. Contro la decisione di secondo grado, entrambi gli imputati proponevano ricorso per Cassazione, rilevando che la Corte d’Appello: da un lato, avrebbe determinato una indebita inversione della prova, dal momento che spetta al giudice penale dimostrare il superamento della soglia di punibilità connessa all’imposta evasa procedendo ai necessari accertamenti, eventualmente anche ricorrendo a presunzioni di fatto; dall’altro, non avrebbe debitamente considerato la pendenza del procedimento penale per emissione di fatture false, che avrebbe potuto condurre all’esclusione dell’elemento oggettivo del reato.
La Cassazione giudica infondati i ricorsi. In ordine al primo profilo, sono ritenute pienamente condivisibili le considerazioni dei giudici d’appello nella parte in cui, a supporto della loro decisione, sottolineano come, a fronte di ricavi individuati nel loro ammontare sulla base delle fatture emesse, gli imputati non avevano addotto alcun costo, sostenendo che l’assenza di documentazione contabile non consentiva loro alcuna deduzione. Così ragionando, infatti, l’omessa tenuta della contabilità, che di per sé costituisce condotta illecita, finirebbe per risolversi in un vantaggio per la ditta oggetto di verifica, i cui titolari non potrebbero mai essere perseguiti per il reato in questione, non potendosi provare il superamento della soglia di punibilità. A fronte di ciò, è vero che – come precisato da Cass. 6 febbraio 2009 n. 5490 – ai fini della configurabilità della fattispecie in questione non può farsi ricorso alla presunzione tributaria secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda (ex art. 32, comma 1 n. 2 del DPR 600/73), in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa procedendo d’ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente anche mediante ricorso a presunzioni di fatto. Ma si tratta di un principio espresso in un contesto in cui i giudici, seppure a conoscenza dell’esistenza di costi in ragione degli elementi in atti, avevano omesso di approfondirne l’ammontare. Nel caso di specie, la situazione è differente. I giudici d’appello, infatti, sottolineano l’assenza di elementi che facciano legittimamente pensare all’esistenza di costi sostenuti dall’azienda. Anzi, da questo punto di vista, anche la tesi secondo cui la società avrebbe emesso fatture false finisce per rafforzare, sul piano logico, la prospettata assenza di costi da dedurre.
Quanto al secondo motivo dei ricorsi, infine, la Suprema Corte sottolinea la scorrettezza dell’affermazione secondo la quale le fatture false non possono assumere rilevanza per definire la base imponibile. Come stabilito da Cass. 20 ottobre 2008 n. 39177, in ottemperanza alle disposizioni tributarie, sia nazionali che comunitarie, il soggetto che emette fatture per operazioni inesistenti deve versare l’imposta nella misura indicata. Ciò indipendentemente dal fatto che l’IVA sia stata o meno incassata. Ne consegue l’obbligo di presentare la dichiarazione ai fini IVA, ex art. 8 del DPR 322/98, e, in caso contrario, ove sia superata la prevista soglia di punibilità, l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000.
/ Maurizio MEOLI
Ai due amministratori di una società veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000, avendo omesso la presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte dirette ed IVA relative agli anni 2001, 2002 e 2003, nonostante la presenza di elementi positivi di reddito. I giudici di primo grado li assolvevano, dal momento che l’imposta evasa – che, ai fini dell’integrazione del reato, per gli anni in questione, doveva essere superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 77.468,53 euro (importo ridotto a 30.000 euro dall’art. 2 comma 36-vicies semel lett. f) del DL 138/2011) – era stata calcolata sul presupposto che il reddito imponibile fosse uguale al fatturato ovvero senza procedere ad una quantificazione dei costi necessari all’acquisto dei mezzi di produzione strumentali alla realizzazione del fatturato stesso.
I giudici d’appello, di contro, reputavano sussistente il reato in questione, sottolineando come l’accertamento del reddito non fosse stato affatto operato sulla base di indici presuntivi di tipo astratto ed automatico e senza alcun riferimento a dati specifici concreti da cui poter desumere l’entità dell’imposta evasa. In particolare, si evidenziava come la considerazione dei soli ricavi fosse la conseguenza del fatto che solo di essi vi era documentazione. Nessun rilievo, inoltre, poteva attribuirsi, come le difese avrebbero voluto, ad altro procedimento penale volto ad accertare la falsità delle fatture utilizzate per la determinazione del reddito e, quindi, dell’imposta evasa. Contro la decisione di secondo grado, entrambi gli imputati proponevano ricorso per Cassazione, rilevando che la Corte d’Appello: da un lato, avrebbe determinato una indebita inversione della prova, dal momento che spetta al giudice penale dimostrare il superamento della soglia di punibilità connessa all’imposta evasa procedendo ai necessari accertamenti, eventualmente anche ricorrendo a presunzioni di fatto; dall’altro, non avrebbe debitamente considerato la pendenza del procedimento penale per emissione di fatture false, che avrebbe potuto condurre all’esclusione dell’elemento oggettivo del reato.
La Cassazione giudica infondati i ricorsi. In ordine al primo profilo, sono ritenute pienamente condivisibili le considerazioni dei giudici d’appello nella parte in cui, a supporto della loro decisione, sottolineano come, a fronte di ricavi individuati nel loro ammontare sulla base delle fatture emesse, gli imputati non avevano addotto alcun costo, sostenendo che l’assenza di documentazione contabile non consentiva loro alcuna deduzione. Così ragionando, infatti, l’omessa tenuta della contabilità, che di per sé costituisce condotta illecita, finirebbe per risolversi in un vantaggio per la ditta oggetto di verifica, i cui titolari non potrebbero mai essere perseguiti per il reato in questione, non potendosi provare il superamento della soglia di punibilità. A fronte di ciò, è vero che – come precisato da Cass. 6 febbraio 2009 n. 5490 – ai fini della configurabilità della fattispecie in questione non può farsi ricorso alla presunzione tributaria secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda (ex art. 32, comma 1 n. 2 del DPR 600/73), in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa procedendo d’ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente anche mediante ricorso a presunzioni di fatto. Ma si tratta di un principio espresso in un contesto in cui i giudici, seppure a conoscenza dell’esistenza di costi in ragione degli elementi in atti, avevano omesso di approfondirne l’ammontare. Nel caso di specie, la situazione è differente. I giudici d’appello, infatti, sottolineano l’assenza di elementi che facciano legittimamente pensare all’esistenza di costi sostenuti dall’azienda. Anzi, da questo punto di vista, anche la tesi secondo cui la società avrebbe emesso fatture false finisce per rafforzare, sul piano logico, la prospettata assenza di costi da dedurre.
Quanto al secondo motivo dei ricorsi, infine, la Suprema Corte sottolinea la scorrettezza dell’affermazione secondo la quale le fatture false non possono assumere rilevanza per definire la base imponibile. Come stabilito da Cass. 20 ottobre 2008 n. 39177, in ottemperanza alle disposizioni tributarie, sia nazionali che comunitarie, il soggetto che emette fatture per operazioni inesistenti deve versare l’imposta nella misura indicata. Ciò indipendentemente dal fatto che l’IVA sia stata o meno incassata. Ne consegue l’obbligo di presentare la dichiarazione ai fini IVA, ex art. 8 del DPR 322/98, e, in caso contrario, ove sia superata la prevista soglia di punibilità, l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000.
/ Maurizio MEOLI
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