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mercoledì 12 ottobre 2011

I termini raddoppiano solo se c’è reato, non bastano semplici indizi

Accertamento

I termini raddoppiano solo se c’è reato, non bastano semplici indizi

La Provinciale di Milano segue la Consulta, quindi la Commissione deve vagliare la serietà della fattispecie ai fini penali

/ Lunedì 10 ottobre 2011
È ormai noto che il raddoppio dei termini per violazioni penali si applica a prescindere dal momento in cui gli elementi penalmente rilevanti sono emersi, posto che il Legislatore non ha introdotto un raddoppio di termini già esistenti, ma ha previsto due termini differenti. Questa, infatti, è stata la decisione della Corte Costituzionale espressa con la sentenza n. 247/2011.
Tuttavia, la Corte Costituzionale ha anche affermato che il raddoppio dei termini non si verifica sempre, quindi ogniqualvolta il funzionario ritenga sussistente l’obbligo di inoltro della denuncia penale, ma solo quando detto obbligo sussiste effettivamente. Allora, la Commissione tributaria deve vagliare tale requisito, e l’onere probatorio relativo alla presenza degli estremi del reato deve essere assolto dall’Ufficio: è pleonastico ricordare che la prova non può essere fornita mediante la motivazione che spesso compare negli atti impositivi, vale a dire “si ritiene che la fattispecie in esame integri gli estremi del delitto previsto dall’art. X del DLgs. 74/2000”, in quanto trattasi di pseudomotivazione.
Questi principi sono stati puntualmente accolti dalla C.T. Prov. di Milano, sezione 40, n. 231 depositata in data 26 settembre 2011 (relatore Guido Chiametti).
Innanzitutto, nella sentenza, richiamando il dictum della Consulta, si ribadisce che “in presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onus probandi della sussistenza di detti presupposti [i requisiti per l’applicabilità del raddoppio dei termini] è posto a carico dell’Amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo attribuitole dalla legge”.
Nella specie, nessun elemento di prova circa la sussistenza del reato era stato fornito dall’Amministrazione finanziaria, e, per di più, nessuna dimostrazione era stata fornita circa l’avvenuta instaurazione del procedimento penale.
L’Ufficio ha sostenuto che la condotta integrava il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 del DLgs. 74/2000, che, ai fini in esame e prescindendo dalla questione circa il superamento della soglia di punibilità, è presente quando il contribuente “indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi”.
Se gli elementi non sono fittizi, non c’è dichiarazione infedele
Proprio in relazione a tale ultimo requisito, sono sorti dubbi sulla sussistenza del reato (o meglio, sulla sussistenza dell’obbligo di inoltro della denuncia, visto che, per la Corte Costituzionale, il giudice tributario può solo vagliare se il funzionario era obbligato a inviare la denuncia, quindi se erano presenti seri indizi di reato, non essendo legittimato ad accertare in via incidentale la presenza del reato), alla luce del fatto che non vi erano accadimenti idonei a qualificare gli elementi dedotti dalla ricorrente come “fittizi”.
Anzi, la Commissione ha potuto verificare, sulla base delle risultanze dell’ISVAP, l’oggettiva esistenza degli elementi, “pur censurando il criterio di imputazione assunto dalla ricorrente e l’interpretazione, dalla stessa messa in atto, dell’art. 101 del TUIR”.
La suddetta sentenza è molto importante, siccome concerne una fattispecie frequente, relativa ai nessi tra elementi passivi fittizi e dichiarazione infedele, con riguardo ovviamente non alla sussistenza del reato, ma al raddoppio dei termini.
Se non emerge il carattere fittizio della posta, il raddoppio difficilmente opera: si pensi ai recuperi a tassazione di componenti reddituali per violazione della competenza fiscale o al riporto di perdite in assenza dei presupposti di legge.

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