penale tributario
Falso ideologico in atto pubblico anche per le attestazioni rese dal prestanome
Il reato di cui all’art. 483 c.p. sussiste sempre se le false dichiarazioni sono necessarie per l’emanazione dell’atto pubblico
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 38137/11, depositata il 21 ottobre 2011, ha formulato alcune importanti precisazioni in tema di interposizione fittizia – e relativi risvolti in ambito penale tributario – in ipotesi di falsa dichiarazione alla Pubblica Autoritàdegli adempimenti IVA per l’acquisto intracomunitario di beni.Nel caso oggetto della sentenza, si fa riferimento a una dichiarazione mendace dei requisiti previsti dalla legge per ottenere l’immatricolazione delle autovetture acquistate da un cedente estero: il prestanome, in accordo con gli altri soggetti, dichiarava al Dipartimento dei Trasporti di aver assolto, tramite la società interposta, agli obblighi IVA sull’acquisto intracomunitario. La Suprema Corte, accogliendo quanto già stabilito dai giudici di secondo grado, non ha ritenuto sufficiente – per l’esonero dalla responsabilità penale – la circostanza che il sottoscrivente delle certificazioni mendaci fosse un semplice prestanome. Infatti, ad avviso dei supremi giudici, la falsa dichiarazione è parte integrante dell’atto pubblico richiesto e chiunque, dolosamente, con la propria condotta, induce in errore l’Amministrazione Pubblica è personalmente responsabile del delitto di cui all’art. 483 c.p. In altre parole, la responsabilità penale per falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico sussiste anche qualora il soggetto agente rivesta, nell’operazione contestata, il ruolo di mero prestanome.
La sentenza n. 38137/11 – sempre in accordo con quanto era stato sostenuto dalla Corte d’Appello – sottolinea che gli estremi del reato si verificano ogniqualvolta venga rilasciata una falsa certificazione relativa a fatti che l’attestante, ex lege, ha il dovere giuridico di esporre veridicamente e per i quali l’atto stesso è destinato a provare la verità. In altre parole, risponde del delitto in parola il soggetto che aveva l’obbligo giuridico di comunicare i dati indispensabili al rilascio di autorizzazioni o licenze da parte della Pubblica Amministrazione, che, quindi, necessariamente devono indicare la verità dei fatti cui si riferiscono. Precisamente, è stato sentenziato che le false dichiarazioni “essendo destinate a dimostrare la verità dei fatti cui si riferiscono e ad essere recepite quali condizioni per l’emanazione o per l’efficacia dell’atto pubblico, producendo immediatamente effetti rilevanti sul piano giuridico, sono idonee ad integrare, se ideologicamente false, il delitto di cui all’art. 483 c.p., trattandosi di un presupposto indispensabile per l’emanazione dell’atto stesso, nel cui contenuto vengono incorporate”.
Gli istanti hanno posto in essere volontariamente la condotta illecita
In secondo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto infondate le pretese avanzate dagli istanti, in merito all’insussistenza dei presupposti che configurano i reati di cui agli artt. 5 e 8 del DLgs. n. 74/2000, in tema di omessa dichiarazione ed emissione di fatture false o altri documenti per operazioni inesistenti. Ad avviso dei giudicanti, nella sentenza della Corte d’Appello era già stata provata, oltre ogni ragionevole dubbio – attraverso l’analisi delle testimonianze rese dagli agenti della Guardia di Finanza e l’esame delle fatture acquisite – la colpevolezza dei soggetti coinvolti. Infatti, come si precisa nella sentenza, gli istanti hanno volontariamente posto in essere la condotta illecita: la fittizia interposizione della società tra il cedente estero e il concessionario rivenditore all’acquirente finale è avvenuta, solo ed esclusivamente, per permettere al cessionario stesso di usufruire di un credito IVA, per un’imposta che sostanzialmente non veniva assolta./ Sandro CERATO e Alessandra DURANTE
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