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Detenzione di somme su conti esteri, il Fisco deve dare la prova
Secondo la Corte di Cassazione, non è sufficiente la dichiarazione dell’intestatario formale del conto
La sentenza della Corte di Cassazione n. 20032, depositata il 30 settembre 2011, torna ad occuparsi della presunzione di fruttuosità dei capitali detenuti all’estero e non indicati nel quadro RW.Si tratta di un processo che ha avuto un certo risalto mediatico, essendo i ricorrenti gli eredi di un ex segretario di un partito politico; i principi sottesi dalla sentenza, tuttavia, ricalcano orientamenti di fatto consolidati, stabilendo l’obbligo di motivare le sentenze attraverso elementi che consentano un debito collegamento con la fattispecie in esame, e prevedendo di conseguenza la nullità delle sentenze per difetto di motivazione nel momento in cui questa venga solamente enunciata per relationem.
Nello specifico, le tesi portate dalla difesa davanti ai giudici della Suprema Corte, che hanno determinato la cassazione della sentenza di secondo grado favorevole all’Agenzia delle Entrate e il suo rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sono le seguenti:
- in primo luogo, la tassabilità di un provento presuppone, secondo l’art. 1 del TUIR, la prova della sua esistenza e, soprattutto, della sua effettiva percezione da parte del beneficiario; tali prove non possono essere surrogate da dichiarazioni rese in sede di interrogatorio nel corso del processo penale dall’intestatario formale del conto estero circa la sua supposta riconducibilità al soggetto accertato, quando su queste dichiarazioni non sussiste alcun vaglio critico da parte della Commissione;
- in secondo luogo, la detenzione delle somme da parte del soggetto accertato medesimo non può essere provata attraverso il mero rimando ad un verbale della Guardia di Finanza.
La Corte di Cassazione conferma, quindi, l’orientamento consolidato secondo cui si ha omessa motivazione della sentenza quando il giudice di merito omette di indicare tutti gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, “ovvero li indica senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”.
Viene, poi, precisato che la motivazione per relationem deve considerarsi legittima nei soli casi in cui il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del giudice di primo grado, “esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia, in modo tale che il percorso argomentativo risulti appagante e corretto” (nello stesso senso si sono espresse le sentenze 11677/2002, 1539/2003, 6233/2003 e 2268/2006).
Proventi illeciti tra i redditi diversi
Va, poi, sottolineato come la Corte di Cassazione abbia respinto un motivo di ricorso avanzato dalla difesa, secondo cui l’art. 14, comma 4 della L. 573/93, che stabilisce la tassazione dei proventi illeciti, doveva essere interpretato nel senso che solo i redditi riconducibili ad una delle categorie previste dall’art. 6 del TUIR possono costituire materia imponibile.La Corte ha, infatti, ricordato come, per effetto della norma di interpretazione autentica introdotta dall’art. 36, comma 34-bis del DL 223/2006, avente come tale efficacia retroattiva, tutti i redditi non classificabili in una delle suddette categorie reddituali (come quelli oggetto di accertamento) hanno natura di redditi diversi.
/ Gianluca ODETTO
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