diritto penale
Sequestro al commercialista per concorso in corruzione del giudice tributario
In caso di illecito plurisoggettivo, l’effetto dell’imputazione ricade su ciascun concorrente, a prescindere dalla singola quota di profitto
In caso di concorso in corruzione in atti giudiziari relativamente a due procedimenti pendenti presso una Commissione tributaria, il commercialista che ha concorso al reato con il proprio cliente è responsabile in solido con quest’ultimo e i suoi beni possono essere sottoposti a sequestro per l’intera entità del profitto illecito. Lo ha stabilito la Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39239 di ieri, 28 ottobre.
Un commercialista, depositario delle scritture contabili di due società, aveva depositato due ricorsi tributari per conto di queste contro gli atti impositivi emessi dall’Amministrazione finanziaria per un’evasione d’imposta, comprensiva di sanzioni, superiore ai venti milioni di euro. Il commercialista, poi, in concorso con i rappresentanti delle società ricorrenti, aveva corrotto i giudici della Commissione tributaria e, per questo, il gip aveva emesso un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei suoi beni fino a concorrenza dell’intero importo contestato dal Fisco, ai sensi dell’articolo 322-ter c.p., in base al quale, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 c.p.c., per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. Il Tribunale successivamente confermava il provvedimento di sequestro nei confronti del professionista.
Avverso tale ordinanza, proponeva ricorso per Cassazione il commercialista, eccependo, tra l’altro, la violazione dell’articolo 322-ter c.p. in relazione all’asserito vincolo di solidarietà, atteso che prima di procedere con il sequestro si sarebbe dovuta verificare la quota di partecipazione al profitto illecito di ciascun concorrente al reato: nel caso di specie, trattandosi di risparmio fiscale, il profitto era concretamente attribuibile soltanto al suo cliente, rappresentante delle società che avevano perpetrato l’evasione, e non certo al ricorrente, che non aveva tratto alcun profitto dalla corruzione.
/ Alessandro BORGOGLIO
Un commercialista, depositario delle scritture contabili di due società, aveva depositato due ricorsi tributari per conto di queste contro gli atti impositivi emessi dall’Amministrazione finanziaria per un’evasione d’imposta, comprensiva di sanzioni, superiore ai venti milioni di euro. Il commercialista, poi, in concorso con i rappresentanti delle società ricorrenti, aveva corrotto i giudici della Commissione tributaria e, per questo, il gip aveva emesso un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei suoi beni fino a concorrenza dell’intero importo contestato dal Fisco, ai sensi dell’articolo 322-ter c.p., in base al quale, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 c.p.c., per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. Il Tribunale successivamente confermava il provvedimento di sequestro nei confronti del professionista.
Avverso tale ordinanza, proponeva ricorso per Cassazione il commercialista, eccependo, tra l’altro, la violazione dell’articolo 322-ter c.p. in relazione all’asserito vincolo di solidarietà, atteso che prima di procedere con il sequestro si sarebbe dovuta verificare la quota di partecipazione al profitto illecito di ciascun concorrente al reato: nel caso di specie, trattandosi di risparmio fiscale, il profitto era concretamente attribuibile soltanto al suo cliente, rappresentante delle società che avevano perpetrato l’evasione, e non certo al ricorrente, che non aveva tratto alcun profitto dalla corruzione.
Trova applicazione il principio solidaristico
La Cassazione, investita della questione, non ha, però, ritenuto fondato il motivo di ricorso. Gli Ermellini, infatti, richiamando la loro giurisprudenza pregressa, hanno stabilito che, in caso di illecito plurisoggettivo, debba applicarsi il principio solidaristico che implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e, pertanto, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso, in particolare ogniqualvolta non sia possibile individuare già specificamente la quota del singolo apporto rispetto al profitto (cfr. Cass. 13277/2011, 10810/2010, 18536/2009, 26654/2008, 30966/2007). In conclusione, quindi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del commercialista, che è anche stato condannato al pagamento delle spese di giudizio./ Alessandro BORGOGLIO
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