Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

lunedì 31 ottobre 2011

Rischio eccessivo per l’«alterazione» di fatture

ilcasodelgiorno

Rischio eccessivo per l’«alterazione» di fatture

Per la Cassazione, non solo la creazione «ex novo» del documento, ma anche la sua alterazione integra la fattispecie di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000
/ Lunedì 31 ottobre 2011
La sentenza 12 ottobre 2011 n. 36844 della Corte di Cassazione consolida l’orientamento che ritiene di collocare nella fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante fatture (o altri documenti) per operazioni inesistenti e non in quella di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici la condotta di utilizzazione di fatture (o altri documenti) per operazioni non solo ideologicamente, ma anche materialmente false.
La questione è particolarmente delicata, dal momento che da essa, nella gran parte dei casi, consegue non un mero differente trattamento sanzionatorio, ma l’esistenza stessa del “rischio penale”; rischio che, in esito alle modifiche apportate dal DL 138/2011 convertito, risulta ancora più grave.
Si ricorda che l’art. 2 del DLgs. 74/2000 punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indichi in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi. La fattispecie in questione non prevede soglie di punibilità e, in seguito alle ricordate novità del DL 138/2011 convertito, neanche l’ipotesi attenuata, prima connessa al fatto che l’ammontare degli elementi passivi fittizi fosse inferiore a 154.937,07 euro.
L’art. 3 del DLgs. 74/2000 punisce con la medesima pena comminata dall’art. 2 (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento, indichi in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi.
In tal caso, però, occorre il superamento congiunto delle seguenti soglie di punibilità: l’imposta evasa deve essere superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 30.000 euro (e non più 77.468,53 euro); l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, deve essere superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, superiore a 1.000.000 di euro (e non più a 1.549.370,70 euro).
La prevalente dottrina ed i primi interventi dei Giudici di Legittimità (cfr. Cass. 8 agosto 2001 n. 30896) hanno reputato applicabile l’art. 2 del DLgs. 74/2000 nelle ipotesi di falso ideologico, rilevando i casi di falsità materiale ai fini delle fattispecie di cui agli artt. 3 o 4 del DLgs. 74/2000 (cfr. Cass. 25 gennaio 2005 n. 1994).
Notevoli profili di incertezza sono emersi, invece, in relazione all’ipotesi limite (di incerta collocazione tra la falsità ideologica e quella materiale) del soggetto che, anziché farsi rilasciare un documento ideologicamente falso, provvede, in assenza di legittimazione, a crearselo “ex novo”. Secondo la prevalente dottrina, anche in tale ipotesi sarebbe esclusa l’integrazione dell’art. 2 del DLgs. 74/2000, dovendosi cercare risposte sanzionatorie nelle ulteriori disposizioni del DLgs. 74/2000. La giurisprudenza di legittimità, invece, dopo una prima pronuncia in tal senso (cfr. Cass. 26 luglio 2004 n. 32493), ha radicalmente modificato la propria posizione (anche rispetto al precedente del 2001), affermando che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si realizza sia nell’ipotesi di falsità ideologica che in quella di falsità materiale, riconducendo la condotta in questione alla fattispecie di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000 (così Cass. 23 marzo 2007 n. 12284).
In pratica, la Suprema Corte, invece di limitarsi all’inquadramento della creazione “ex novo” del falso documento nel novero della falsità ideologica – come avrebbe potuto in ragione della peculiarità del caso – ha optato per la tesi della neutralità del tipo di falsità praticata (materiale o ideologica) rispetto alla distinzione tra artt. 2 e 3 del DLgs. 74/2000. Il rischio, quindi, è che non solo una fattura falsa creata ex novo dall’utilizzatore, ma anche una semplice alterazione da parte dello stesso di una fattura regolarmente emessa comporti, a prescindere dagli importi, il rischio della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni, non esistendo, nella fattispecie di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000, né soglie di punibilità, né ipotesi attenuate.
Questa rigorosa soluzione ha trovato conferma prima in Cass. 10 marzo 2011 n. 9673 ed ora in Cass. 12 ottobre 2011 n. 36844. Anche in questi casi, peraltro, ci si trovava di fronte a condotte connotate dalla creazione ex novo del documento falso. Almeno per il momento, quindi, non si è a conoscenza di applicazioni dell’orientamento anche con riguardo a falsi materiali “in senso stretto”; seppure l’assolutezza del principio non sembra lasciare spiragli ad una rimodulazione dello stesso in relazione a quest’ultime ipotesi.

contenzioso : Niente definizione delle liti con giudicato prima del 6 luglio 2011

Niente definizione delle liti con giudicato prima del 6 luglio 2011

L’Agenzia non ammette la definizione di una lite per la quale si sia formato il giudicato prima dell’entrata in vigore del DL 98/2011

/ Lunedì 31 ottobre 2011
Nella circolare n. 48/2011 sono state fornite le indicazioni sulle principali modalità applicative per accedere al c.d. “condono delle liti minori”, di cui all’art. 39, comma 12 del DL n. 98/2011, ovvero quelle controversie che risultino pendenti alla data del 1° maggio 2011, la cui controparte sia l’Agenzia delle Entrate e che non superino il valore di 20.000 euro.
Nel documento di prassi si è, quindi, preliminarmente definito il concetto di lite pendenti, ovvero si considerano tali tutte quelle controversie per le quali:
- alla data del 1° maggio 2011 sia stato proposto l’atto introduttivo del giudizio in primo grado;
- alla data del 6 luglio 2011 (entrata in vigore del DL n. 98/2011) non si sia formato il giudicato.
In conseguenza di ciò, secondo l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, non possono essere condonate quelle controversie per le quali sia intervenuta una sentenza – sia di primo che di secondo grado – ed i cui tempi d’impugnazione concessi siano decorsi. Quindi, perché una lite si consideri pendente, è necessario che la pronuncia giurisdizionale definitiva non si sia formata prima dell’entrata in vigore del DL n. 98/2011. In altre parole, è fatta salva la possibilità per il contribuente di invocare la definizione della lite se, entro il 6 luglio 2011, non sono ancora decorsi i termini di legge per impugnare l’eventuale decisione.
In realtà, il legislatore richiede – come unici requisiti formali – che, alla data indicata, sia stato proposto il ricorso e che non sia intervenuto il giudicato. Le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate sembrano, pertanto, richiedere contra legem un ulteriore requisito, ovvero che la sentenza non passi in giudicato prima dell’entrata in vigore del decreto legge.
Oltre a ciò, nell’art. 39, comma 12 del DL n. 98/2011 viene operato un espresso richiamo all’art. 16 della L. n. 289/2003 – che aveva, a sua volta, disciplinato le modalità di chiusura delle liti fiscali pendenti – e, come osservato nella circolare, “i concetti di lite pendente e di valore della lite, come precisati dall’art. 16 della L. n. 289/2002, rilevano anche per la definizione delle liti “minori” (...)”.
Pertanto, assumendo quale definizione di controversia pendente quella che emerge dall’articolo richiamato, mutatis mutandis dovrebbe essere definibile quella lite per la quale – alla data del 1° maggio 2011 – non sia ancora intervenuta una sentenza passata in giudicato. Infatti, come si legge espressamente nell’art. 39 del DL n. 98/2011, al fine di ridurre il numero delle controversie giudiziarie, possono essere definite quelle liti fiscali che risultano pendenti a tale data (ovvero 1° maggio 2011): dal disposto normativo non emerge altro requisito – ai fini della pendenza – se non quello appena citato.
Inoltre, in relazione alla sospensione dei termini, nella circolare in oggetto si ritiene che la stessa operi, sempre, a partire dall’entrata in vigore della legge: quindi, dal 6 luglio 2011 “sono (...) sospesi, sino al 30 giugno 2012 i termini per la proposizione di ricorsi, appelli, controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la costituzione in giudizio”.
Tesi dell’Agenzia opinabile, alla luce della L. 289/2002
Tuttavia, anche in questo caso è necessario osservare che, se l’istituto della sospensione opera per le liti c.d. “pendenti” – ovvero per quelle non ancora coperte da giudicato alla data del 1° maggio 2011 – esso dovrebbe operare anche per le controversie “divenute definitive” successivamente a tale data. Pertanto, stante l’esplicito richiamo all’art. 16 della L. n. 289/2002 – per la definizione di controversia pendente – e considerando che le specificazioni, inserite nell’art. 39 del DL n. 98/2011, non incidono sulla definizione del concetto di “pendenza” della lite, è possibile sostenere che la sospensione dei processi e dei termini per appelli e ricorsi operi anche qualora sia intervenuto il giudicato prima del 6 luglio 2011 (o meglio, che essa inibisca il formarsi di giudicati proprio per tale sospensione).
/ Sandro CERATO e Alessandra DURANTE

 
http://www.fiscal-focus.it/flow.int?func=nlt_link&id_nlt=@@@ID_NLT@@@&ctrl=@@@INVUTE_CTRL@@@&url=%2Fbin%2FFiscal_News_n._478_del_03.11.2011_Chiusura_liti._Definizione_e_rilevanza_pronuncia.pdf

Imposte sui redditi

Imposte sui redditi

Tremonti-ter, Tremonti-quater e reti di imprese: obbligo di ricalcolare gli acconti

Se nel 2010 si è fruito delle agevolazioni, occorre rideterminare l’imposta storica di riferimento

/ Lunedì 31 ottobre 2011
Nonostante il termine per il versamento della seconda o unica rata degli acconti 2011 delle imposte sui redditi e dell’IRAP sia ancora lontano (30 novembre 2011 per i soggetti IRPEF e i soggetti IRES con esercizio coincidente con l’anno solare), occorre muoversi per tempo, al fine di verificare se sussista l’obbligo di rideterminare l’imposta relativa al 2010 sulla quale commisurare l’acconto medesimo. Il ricalcolo, infatti, può rivelarsi non sempre agevole.
Interessati dal ricalcolo sono innanzitutto gli imprenditori che, nel corso del 2010, hanno fruito della detassazione parziale degli investimenti in macchinari (c.d. “Tremonti-ter”) o della detassazione per la realizzazione di campionari nel settore tessile (c.d. “Tremonti-quater”).
La Tremonti-ter (art. 5 commi 1 – 3-bis del DL 78/2009, conv. L. 102/2009) spettava ai titolari di reddito d’impresa che, dal 1° luglio 2009 al 30 giugno 2010, hanno acquistano determinati beni strumentali classificati nella divisione 28 della Tabella ATECO 2007. La detassazione (ai fini IRES/IRPEF e non IRAP) era pari al 50% del valore dei beni stessi, fruibile tramite una variazione in diminuzione da indicare nella dichiarazione dei redditi. Per espressa disposizione normativa, l’agevolazione “può essere fruita esclusivamente in sede di versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d’imposta di effettuazione degli investimenti”.
Tale circostanza comporta che, se ci si avvale del metodo storico, occorre (cfr. circ. Agenzia Entrate 27 ottobre 2009 n. 44, § 4):
- rideterminare l’IRPEF/IRES relativa al 2010, senza tenere conto della detassazione fruita in relazione agli investimenti effettuati dal 1° gennaio 2010 al 30 giugno 2010;
- calcolare l’ammontare dell’acconto IRPEF/IRES dovuto per il 2011 sulla base dell’imposta così ricalcolata.
Della Tremonti-quater si occupa l’art. 4 commi 2 – 4 del DL 40/2010 (conv. L. 73/2010), a norma del quale le imprese operanti nei settori di cui alle divisioni 13, 14, 15 e al codice 32.99.20 (in relazione alla fabbricazione di bottoni) della Tabella ATECO 2007, che hanno effettuato investimenti in attività di ricerca industriale e sviluppo precompetitivo finalizzate alla realizzazione di campionari (fatti nell’Unione europea), potevano fruire della detassazione, ai fini delle imposte sui redditi, dell’intero valore delle spese sostenute. Il beneficio fiscale riguarda gli investimenti effettuati nel periodo d’imposta 2010 (per i soggetti “solari”).
Anche in tale ipotesi, è stabilito che l’agevolazione “può essere fruita esclusivamente in sede di versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d’imposta di effettuazione degli investimenti” e che, per il periodo d’imposta successivo a quello di effettuazione degli investimenti (2011), l’acconto IRPEF/IRES è calcolato senza tener conto dell’agevolazione. In pratica, si deve considerare come imposta storica del periodo precedente (anno 2010, per i soggetti “solari”), in base alla quale determinare gli acconti 2011 con il metodo “storico”, quella che si sarebbe calcolata in assenza della detassazione in esame.
Nell’ipotesi di applicazione del criterio previsionale, invece, tali agevolazioni, atteso che, per il periodo d’imposta 2011, non spettano più, non influenzano in alcun modo il calcolo dell’imposta “virtuale” 2011, sulla quale commisurare il relativo acconto.
Al ricalcolo degli acconti devono provvedere anche coloro che hanno fruito delle agevolazioni fiscali per le “reti di imprese”: in particolare, l’art. 42 comma 2-quater del DL 78/2010 (conv. L. 122/2010) prevede, per le imprese che hanno aderito ad un “contratto di rete” (ex art. 3 comma 4-ter del DL 5/2009), un regime di sospensione d’imposta per la quota degli utili d’esercizio accantonata in un’apposita riserva a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2010 e sino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2012, per l’esecuzione degli investimenti previsti dal programma comune di rete.
Analogamente a quanto previsto per le due Tremonti, il beneficio in commento può essere fruito esclusivamente in sede di versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d’imposta relativo all’esercizio cui si riferiscono gli utili destinati al fondo patrimoniale comune o al patrimonio destinato all’affare; per il periodo di imposta successivo, l’acconto delle imposte dirette è calcolato assumendo, come imposta del periodo precedente, quella che si sarebbe applicata in assenza delle agevolazioni.
Per quanto sopra, le imprese che:
- hanno beneficiato della detassazione nel corso del 2010, devono rideterminare l’IRPEF/IRES relativa al 2010, sulla quale commisurare l’acconto “storico” 2011, senza tenere conto dell’incentivo;
- fruiscono dell’agevolazione nel corso del periodo d’imposta 2011, non possono tenerne conto in sede di calcolo dell’acconto IRPEF/IRES, relativo al medesimo periodo, con il cosiddetto criterio previsionale.
/ Luca FORNERO

imposta di registro : La cessione dell’azienda al figlio non sconta il registro

imposta di registro

La cessione dell’azienda al figlio non sconta il registro

Per la C.T. Reg. di Roma, in tale ipotesi non avviene alcun trasferimento di ricchezza tassabile ai fini dell’imposta di registro

/ Lunedì 31 ottobre 2011
La cessione a titolo oneroso dell’azienda dal padre al figlio, avvenendo in ambito familiare, non determina alcuna base imponibile per l’applicazione dell’imposta di registro, a cui, quindi, non deve essere assoggettata. Lo ha stabilito la C.T. Reg. di Roma, con la sentenza n. 555/01/11 del 19 settembre 2011.
Un contribuente, titolare di una ditta individuale di commercio al minuto, aveva ceduto la sua azienda al figlio, mediante un atto di cessione a titolo oneroso. L’Ufficio aveva quindi rettificato il valore dell’azienda dichiarato in atto e liquidato l’imposta di registro dovuta ai sensi dell’articolo 51, comma 4, del DPR 131/1986, secondo il quale, per gli atti che hanno ad oggetto aziende o  diritti  reali  su  di esse, il valore dichiarato è controllato dall’Ufficio con riferimento al  valore  complessivo  dei  beni  che  compongono   l’azienda,   compreso l’avviamento,  al  netto  delle  passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o  da  atti  aventi  data certa a norma del codice civile,  tranne  quelle  che  l’alienante  si  sia espressamente impegnato a estinguere; a tal fine, l’Ufficio può tener conto anche degli accertamenti compiuti  ai  fini di altre imposte e può procedere ad accessi, ispezioni e verifiche.
Il contribuente aveva impugnato l’avviso di liquidazione e la C.T. Prov. aveva accolto il suo ricorso, stabilendo che la cessione, invero, era avvenuta nell’ambito familiare e, quindi, ad essa non doveva applicarsi alcuna imposta. Avverso tale decisione opponeva gravame l’Agenzia delle Entrate, eccependo che erano stati gli stessi contraenti del negozio giuridico a qualificarlo come cessione a titolo oneroso e, conseguentemente, l’Ufficio aveva correttamente controllato e liquidato l’imposta di registro, come previsto dalla normativa poc’anzi menzionata.
I giudici del riesame, però, non hanno concordato con la tesi erariale. La C.T. Reg. ha ricordato innanzitutto che, ai sensi dell’articolo 58 comma 1, secondo periodo, del TUIR, il trasferimento di azienda  per  causa  di  morte  o  per  atto  gratuito  non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa: l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. Secondo i giudici regionali, tale norma, pur essendo dettata per la determinazione delle plusvalenze e, quindi, del reddito imponibile ai fini delle imposte dirette, formula un principio di carattere generale sulla valutazione delle aziende cedute ai familiari, per le quali è negata l’esistenza di qualsiasi plusvalenza rispetto ai valori riconosciuti  nei confronti del dante causa. L’atto di cessione dell’azienda nell’ambito familiare, infatti, è un mero strumento di regolarizzazione amministrativa della situazione contingente in cui versa il genitore che, ritirandosi dall’attività, lascia che il figlio vi subentri.
In conclusione, la C.T. Reg. ha stabilito che, in simili situazioni, non avviene alcun trasferimento di ricchezza tassabile con l’imposta di registro e, pertanto, il ricorso del Fisco è stato respinto.
Parere opposto da Cassazione e giurisprudenza di merito
La Cassazione, però, già nel 1995, con la sentenza n. 10893, aveva stabilito che il  valore  dell’avviamento  nella  vendita  di  un’attività commerciale  deve  essere  considerato  nella  determinazione  della   base imponibile dell’imposta di registro anche  nel  caso  in  cui  la  cessione avvenga tra parenti in  linea  retta. Peraltro, tale posizione è stata confermata anche dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale, in  caso  di  cessione  di  azienda,  si  deve  tener  conto dell’avviamento,   agli   effetti   dell’imposta   di    registro,    nella determinazione del valore venale dell’azienda ceduta,  senza  che  assumano rilievo circostanze contingenti  che  pure  possono  aver  influito  nella determinazione concreta del corrispettivo, quali, ad esempio, i legami familiari (C.T.C. decisione n. 4353 del 21 luglio 2000).
/ Alessandro BORGOGLIO

Contenzioso : Nella definizione delle liti le perdite sono affrancabili

Contenzioso

Nella definizione delle liti le perdite sono affrancabili

Il contribuente deve pagare sulla base delle imposte accertate e della cosiddetta «imposta virtuale»

/ Sabato 29 ottobre 2011
Nella circ. 48/2011 (si veda “Sulle liti pendenti le linee guida dell’Agenzia” del 25 ottobre 2011), l’Agenzia delle Entrate affronta anche il tema relativo alla definizione delle liti pendenti instaurate su accertamenti concernenti le perdite fiscali.
In questo caso, a differenza di ciò che era accaduto nel 2002, si pongono due problemi: la determinazione del valore della lite (per accedere alla sanatoria, la causa deve essere di valore non superiore a 20.000 euro, e ciò deve essere vagliato considerando la maggiore imposta contestata al netto di sanzioni collegate al tributo e interessi) e il calcolo delle somme da versare, sempre parametrato al valore della causa.
In base a quanto sostenuto nella circ. 48, al § 3.2, se il contribuente intende affrancare la perdita, il valore della causa è dato dalle maggiori imposte accertate, alle quali occorre sommare la cosiddetta “imposta virtuale” commisurata all’ammontare delle perdite in contestazione, qualora, per effetto dell’accertamento, sia emerso un imponibile, o sulla base della sola “imposta virtuale”, se l’accertamento ha comportato una minor perdita, calcolata “applicando le aliquote vigenti per il periodo d’imposta oggetto di accertamento all’importo risultante dalla differenza tra la perdita dichiarata e quella accertata”.
Tuttavia, il contribuente potrebbe anche non voler affrancare la perdita: in questo caso, il valore è dato dalla maggiore imposta accertata o, in mancanza di imposta, dalle sanzioni irrogate.
In ipotesi di perdita “affrancata”, le perdite rilevano ai fini della determinazione dei redditi dei periodi d’imposta successivi, comportando il venir meno degli effetti della rettifica in contestazione nelle annualità posteriori a quella per la quale è stata definita la lite.
È possibile “mantenere” le perdite per gli anni successivi
Si riporta l’esempio della circolare.
Una società per azioni, nel 2007, dichiara una perdita fiscale ai fini IRES per 50.000 euro, che viene computata in diminuzione del reddito complessivo del 2008, pari a 50.000 euro (per effetto di ciò, nell’anno 2008 il reddito dichiarato risulta pari a zero).
L’Agenzia delle Entrate sottopone a verifica sia il 2007 sia il 2008, disconoscendo interamente la perdita per il 2007 e rideterminando il reddito complessivo in 20.000 euro per il 2008.
In questo caso, per il 2007, il reddito accertato è pari a zero, mentre per il 2008 è pari a 70.000 euro (la computazione in diminuzione della perdita formatasi nel 2007 è stata interamente disconosciuta, per cui il reddito, per questo solo motivo, giunge a 50.000 euro, ai quali vanno aggiunti i 20.000 euro relativi all’accertamento sul 2008).
Ipotizzando che il contribuente abbia impugnato entrambi gli accertamenti, che le liti fossero pendenti al 1° maggio 2011 e che alla data della domanda di definizione non sia ancora stata depositata alcuna sentenza, ne deriva che, se la società intende definire la lite relativa all’accertamento sul 2007, bisogna pagare le somme da condono sull’“imposta virtuale”, quindi: 50.000 x 33% = 16.500 euro (valore della lite); 16.500 x 30% = 4.950 euro (importi da versare per effetto della sanatoria).
Il suddetto “affrancamento” rende computabile in diminuzione la perdita nel periodo d’imposta 2008, con la conseguenza che nella lite relativa a quest’ultimo anno si avrà una parziale cessazione della materia del contendere, limitata al recupero eseguito dall’Ufficio in merito al disconoscimento della computazione in diminuzione della perdita. Peraltro, il processo è destinato a proseguire in merito ai maggiori ricavi accertati, nell’esempio pari a 20.000 euro, a meno che il contribuente non opti, anche per tale atto (quello sul 2008), per la definizione, nel qual caso il valore della lite deve essere vagliato con esclusivo riferimento all’imposta derivante dai maggiori ricavi accertati.
La società può anche definire solo l’accertamento sul 2008, e le somme vanno pagate nella seguente maniera: il valore della lite è pari alla maggiore imposta relativa all’intero maggior imponibile accertato (70.000 x 27,5% = 19.250); 19.250 x 30% = 5.775 euro (somme da versare per la sanatoria).
/ Alfio CISSELLO

agevolazioni : Mutualità prevalente: non contano i costi per opere eseguite da terzi

agevolazioni

Mutualità prevalente: non contano i costi per opere eseguite da terzi

Per l’Agenzia, essi rientrano, invece, nel computo per fruire dell’esenzione IRES dell’IRAP dovuta dalle cooperative di produzione e lavoro

/ Sabato 29 ottobre 2011
Con la risoluzione n. 104 di ieri, 28 ottobre 2011, l’Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti in merito alla sussistenza del requisito di mutualità prevalente (artt. 2512 e 2513 c.c.) in capo alle società cooperative di produzione e lavoro, qualora queste si avvalgano dell’opera di terzi, tramite contratti di appalto, per lo svolgimento dell’attività sociale.
Ai sensi dell’art. 2513, comma 1, lett. b) c.c., il requisito della prevalenza ricorre, tra l’altro, qualora gli amministratori e i sindaci evidenzino contabilmente che “il costo del lavoro dei soci è superiore al cinquanta per cento del totale del costo del lavoro di cui all’art. 2425, primo comma, punto B9 computate le altre forme di lavoro inerenti lo scopo mutualistico”.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, tale ultima locuzione deve essere interpretata nel senso che nel costo del lavoro vanno computate le altre forme di lavoro, stabilite con contratti “atipici” diversi dal contratto di lavoro subordinato, come quelle di lavoro autonomo o di collaborazione, a condizione che abbiano un collegamento con l’attuazione del rapporto mutualistico. In tale ipotesi, occorre dunque considerare il costo relativo alle altre forme di lavoro dei soci riportato alla voce B7 del Conto economico (art. 2425 c.c.), oltre che al costo delle prestazione lavorative dei soci ricompreso alla voce B9.
Nel caso di contratti di appalto, invece, nel computo in esame non rientra il corrispettivo pagato per le opere eseguite da terze imprese; i costi sostenuti dalla società cooperativa committente si riferiscono infatti all’esecuzione del servizio reso dall’appaltatore, ma è su quest’ultimo che ricadono gli oneri sociali e il costo del lavoro relativo alla gestione dell’impresa e dei suoi dipendenti, salvo le prescrizioni dettate in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro a cui sono tenuti tanto gli appaltatori quanto i committenti.
Trattandosi di costi per il pagamento di un servizio e non di costi di lavoro come definiti dal codice civile, in base alla normativa civilistica, gli stessi non devono essere computati nella voce B9 del Conto economico.
Il riconoscimento del requisito della prevalenza di cui agli art. 2512 e 2513 c.c. consente di fruire delle agevolazioni fiscali specificatamente riservate alle c.d. “cooperative a mutualità prevalente”, in parte oggetto di recenti modifiche. Si ricorda, in particolare, che il DL 138/2011 (conv. L. 148/2011) ha aumentato dal 30% al 40% la quota minima tassata degli utili netti annuali della generalità delle cooperative a mutualità prevalente e loro consorzi, per effetto delle modifiche apportate all’art. 1, comma 460, lett. b della L. 311/2004.
Con particolare riguardo alle cooperative di produzione e lavoro, inoltre, l’art. 11 del DPR 601/73 stabilisce che l’esenzione da IRES, pari alla quota IRAP computata a Conto economico, opera a condizione che l’ammontare delle retribuzioni effettivamente corrisposte ai soci che prestano la loro opera con carattere di continuità non sia inferiore al 50% dell’ammontare complessivo di tutti gli altri costi tranne quelli relativi alle materie prime e sussidiarie; se le retribuzioni sono inferiori al 50%, ma non al 25% dell’ammontare complessivo degli altri costi, l’esenzione dal reddito imponibile dell’IRAP è ridotta alla metà.
La normativa tributaria differisce da quella civilistica
Diversamente dalla normativa civilistica, quindi, la norma tributaria pone in rapporto il costo del lavoro dei soci con il totale dei costi sostenuti dalla cooperativa, escludendo solo i costi inerenti le materie prime e sussidiarie.
Ne risulta che, in presenza di contratti di appalto, per una società cooperativa di produzione e lavoro, i costi relativi alle prestazioni eseguite da dipendenti o collaboratori dell’impresa appaltatrice vanno computati ai fini del calcolo del rapporto previsto dall’art. 11 del DPR 601/73, ma non ai fini della determinazione del requisito della mutualità prevalente di cui agli artt. 2512 e 2513 c.c.
/ Luisa CORSO e Massimo NEGRO

iva : Carbone importato, «reverse charge» per l’IVA sulle accise

iva

Carbone importato, «reverse charge» per l’IVA sulle accise

La ris. 103 dell’Agenzia precisa che è ammessa, per l’autoconsumo interno, l’emissione di un documento integrativo dell’originaria bolletta doganale

/ Sabato 29 ottobre 2011
L’art. 69 del DPR n. 633/1972 stabilisce che l’IVA sulle importazioni è commisurata, secondo le aliquote vigenti, al valore dei beni introdotti nel territorio dello Stato, aumentato dell’ammontare dei diritti doganali dovuti.
Questi ultimi possono, tuttavia, comprendere anche le accise, suscettibili di avere modalità e tempistiche di liquidazione e versamento differente rispetto all’IVA: è il caso, ad esempio, di quella dovuta in relazione al carbone fossile importato, che non viene liquidata e pagata in dogana all’atto dell’importazione, ma in un momento successivo, per effetto dell’immissione in consumo. Il responsabile del pagamento dell’accisa, ovvero dell’imposta indiretta sulla produzione o sul consumo del bene, è il soggetto registrato che ha fornito l’utilizzatore finale, intendendosi per tale l’autoconsumatore, ovvero la persona fisica o giuridica che consuma i prodotti dalla stessa fabbricati, importati oppure acquistati in altri Stati membri (circ. n. 17/2007).
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito – con la risoluzione n. 103 di ieri, 28 ottobre 2011 – che l’operazione in parola (c.d. “autoconsumo interno”) non è soggetta ad IVA, in quanto non costituisce una cessione di beni ai sensi dell’art. 2 del DPR n. 633/1972, analogamente all’utilizzo – da parte di un soggetto passivo, nell’ambito della propria impresa – di un bene d’investimento o di una materia prima, prodotti internamente oppure acquistati presso terzi.
Conseguentemente, l’autoconsumo interno è escluso dal campo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto e non è soggetto ai relativi obblighi di documentazione fiscale.
È stato altresì precisato che, nell’ipotesi di impiego per la produzione, non si realizza la presunzione di cessione contemplata dall’art. 1, comma 1 del DPR n. 441/1997, per espressa previsione della predetta disposizione del Decreto IVA.
A tale proposito, è stato richiamato – con riferimento alle evidenze probatorie dell’effettivo impiego dei beni nella produzione – quanto già sostenuto in passato dall’Amministrazione finanziaria (C.M. n. 193/1998): la norma non prescrive alcun adempimento specifico dalla cui inosservanza possa derivare l’insorgere della presunzione legale di cessione, per cui l’utilizzazione dei beni stessi, nel ciclo economico aziendale, può essere dimostrata dal contribuente secondo le regole e con tutti i mezzi offerti dall’art. 2697 e seguenti del codice civile. In altri termini, l’utilizzazione per la produzione si può evincere dalle ordinarie scritture contabili, qualora richieste: in caso contrario, è necessario fare affidamento sui coefficienti tecnici, oppure sui riscontri diretti.
Per l’assolvimento dell’IVA, conta la data d’immissione in consumo
Alla luce di tali considerazioni, e soprattutto della peculiare modalità di pagamento dell’accisa, ovvero in un momento diverso rispetto all’importazione del carbone, la risoluzione n. 103/2011 ha chiarito che per l’assolvimento della corrispondente IVA rileva la data di immissione in consumo, da parte del medesimo soggetto che aveva introdotto i beni nel territorio dello Stato. In particolare, attesa la finalità di consentire il pagamento del tributo sul valore dell’accisa dovuta, è stata ritenuta legittima l’emissione di un documento – anche nella forma di autofattura (art. 17, comma 2 del DPR n. 633/1972), da annotarsi nel registro sia delle fatture emesse che degli acquisti – costituente l’integrazione dell’originaria bolletta doganale, di cui devono essere riportati gli estremi. L’autofattura deve, inoltre, indicare la base imponibile IVA – rappresentata dal solo valore dell’accisa dovuta, poiché l’autoconsumo interno, come anticipato, è escluso dall’applicazione del tributo – e l’imposta sul valore aggiunto, determinata secondo l’aliquota prevista per il bene a cui si riferisce.
L’Agenzia delle Entrate ha, infine, precisato che è ammessa l’emissione di un unico documento cumulativo, riguardante l’accisa dovuta per l’autoconsumo del periodo d’imposta precedente alla data di presentazione della dichiarazione annuale prevista dall’art. 21, comma 8 del TUA, siccome soltanto in occasione di tale adempimento è possibile determinare l’effettivo ammontare di accisa dovuta e, conseguentemente, la corrispondente IVA.
/ Michele BANA

diritto penale tributario

diritto penale

Sequestro al commercialista per concorso in corruzione del giudice tributario

In caso di illecito plurisoggettivo, l’effetto dell’imputazione ricade su ciascun concorrente, a prescindere dalla singola quota di profitto

/ Sabato 29 ottobre 2011
In caso di concorso in corruzione in atti giudiziari relativamente a due procedimenti pendenti presso una Commissione tributaria, il commercialista che ha concorso al reato con il proprio cliente è responsabile in solido con quest’ultimo e i suoi beni possono essere sottoposti a sequestro per l’intera entità del profitto illecito. Lo ha stabilito la Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39239 di ieri, 28 ottobre.
Un commercialista, depositario delle scritture contabili di due società, aveva depositato due ricorsi tributari per conto di queste contro gli atti impositivi emessi dall’Amministrazione finanziaria per un’evasione d’imposta, comprensiva di sanzioni, superiore ai venti milioni di euro. Il commercialista, poi, in concorso con i rappresentanti delle società ricorrenti, aveva corrotto i giudici della Commissione tributaria e, per questo, il gip aveva emesso un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei suoi beni fino a concorrenza dell’intero importo contestato dal Fisco, ai sensi dell’articolo 322-ter c.p., in base al quale, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 c.p.c., per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. Il Tribunale successivamente confermava il provvedimento di sequestro nei confronti del professionista.
Avverso tale ordinanza, proponeva ricorso per Cassazione il commercialista, eccependo, tra l’altro, la violazione dell’articolo 322-ter c.p. in relazione all’asserito vincolo di solidarietà, atteso che prima di procedere con il sequestro si sarebbe dovuta verificare la quota di partecipazione al profitto illecito di ciascun concorrente al reato: nel caso di specie, trattandosi di risparmio fiscale, il profitto era concretamente attribuibile soltanto al suo cliente, rappresentante delle società che avevano perpetrato l’evasione, e non certo al ricorrente, che non aveva tratto alcun profitto dalla corruzione.
Trova applicazione il principio solidaristico
La Cassazione, investita della questione, non ha, però, ritenuto fondato il motivo di ricorso. Gli Ermellini, infatti, richiamando la loro giurisprudenza pregressa, hanno stabilito che, in caso di illecito plurisoggettivo, debba applicarsi il principio solidaristico che implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e, pertanto, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso, in particolare ogniqualvolta non sia possibile individuare già specificamente la quota del singolo apporto rispetto al profitto (cfr. Cass. 13277/2011, 10810/2010, 18536/2009, 26654/2008, 30966/2007). In conclusione, quindi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del commercialista, che è anche stato condannato al pagamento delle spese di giudizio.
/ Alessandro BORGOGLIO

accertamento Accertamenti da studi validi anche senza altri elementi

accertamento

Accertamenti da studi validi anche senza altri elementi

La C.T. Reg. di Torino, ultima a esprimersi in tal senso, non ha fatto proprie le conclusioni cui erano giunte le Sezioni Unite nel 2009

/ Venerdì 28 ottobre 2011
Si susseguono le pronunce dei giudici di merito sulla capacità probatoria degli studi di settore di fondare autonomamente l’accertamento analitico-induttivo. È la C.T. Reg. di Torino, da ultimo, a confermare questa posizione giurisprudenziale, con la sentenza n. 84/27/11 del 17 ottobre scorso (per altre sentenze analoghe, si veda “Studi di settore, dietrofront dei giudici di merito” del 12 ottobre 2011).
Il percorso motivazionale della pronuncia si sviluppa partendo della formulazione testuale dell’articolo 62-sexies, comma 3, del DL 331/1993, in base al quale gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d), del DPR 600/1973 e 54 del DPR 633/1972 possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore. I giudici piemontesi pongono, quindi, l’accento sulla congiunzione “ovvero”, che, secondo gli stessi, comporta che gli accertamenti analitico-induttivi di cui alle predette disposizioni siano effettuabili anche sulla base della sola applicazione degli studi di settore.
Secondo il collegio giudicante, la presunzione qualificata prevista dalle sopra citate norme è insita, essa stessa, nel meccanismo accertativo costituito dall’applicazione degli studi di settore, per espressa previsione del summenzionato articolo 62-sexies. Ancor meglio, per utilizzare le parole della C.T. Reg., “l’accertamento basato su studi di settore (…) gode intrinsecamente dei requisiti di gravità, precisione e concordanza necessari per fondare un accertamento analitico presuntivo”.
A sostegno di tale tesi, i giudici torinesi richiamano la giurisprudenza di legittimità antecedente alle ormai note pronunce a Sezioni Unite del 2009. In particolare, vengono menzionate le sentenze con cui gli Ermellini avevano stabilito che gli accertamenti analitico-induttivi possono essere fondati alternativamente sugli studi di settore ovvero sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi/compensi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche dell’attività svolta, senza la necessità che i risultati ottenuti siano suffragati da altri elementi probatori addotti dal Fisco (cfr. Cass. 13038/2002, 1130/2009, 2876/2009, 5977/2007, 8543/2007).
La Sezioni Unite della Cassazione, però, con le pronunce n. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009, hanno introdotto importanti principi sull’accertamento da studi di settore (e parametri), anche con l’obiettivo di uniformare il pensiero della stessa Suprema Corte. È stato stabilito, in quell’occasione, tra l’altro, che gli studi di settore non integrano, ex se, una presunzione qualificata idonea a fondare legittimamente l’accertamento presuntivo, ma sono soltanto potenzialmente adatti in tal senso, atteso che la loro capacità probatoria diviene tale da integrare una presunzione qualificata soltanto in esito al contraddittorio endoprocedimentale da attivare obbligatoriamente da parte del Fisco, e comunque il gap tra i ricavi/compensi dichiarati e quelli accertabili deve essere sufficientemente elevato da determinare una “grave incongruenza”.
I giudici di merito, nella parte motiva della sentenza in commento, ricordano anche questo insegnamento della Suprema Corte, ma sembrano non attribuirgli particolare rilevanza, risultando maggiormente attratti dall’orientamento giurisprudenziale opposto.
In conclusione, però, prima di pronunciarsi a favore del Fisco e della legittimità dell’accertamento da studi, che, stando a quanto premesso dal collegio di merito, dovrebbero essere sufficienti da soli a fondare la pretesa impositiva, la C.T. Reg. evidenzia una serie di circostanze concordanti e, di fatto, supportanti l’accertamento presuntivo, come la persistenza di approvvigionamenti consistenti anche in presenza dell’asserita crisi, gli ingenti immobilizzi anche finanziari e il continuo investimento di capitali da parte del contribuente. Tali aspetti, confrontati con la deludente situazione reddituale dell’anno oggetto di accertamento e di quelli prossimi allo stesso, determinano, secondo i giudici regionali, una situazione palesemente antieconomica, atteso che il contribuente avrebbe così portato avanti un’attività, con l’impegno delle risorse sopra indicate, pur continuando a perseguire risultati deludenti o addirittura una perdita.
Non si comprende, allora, perché, se l’accertamento da studi è sicuramente legittimo senza altri elementi probatori, i giudici si siano “sforzati” di prendere in esame anche tutte queste ulteriori circostanze indiziarie, culminanti nell’antieconomicità. Ma, comunque, quel che rileva è che tale posizione giurisprudenziale a favore dell’autonomia accertativa degli studi di settore resta, ed è diffusa anche presso altri giudici di merito.
/ Alessandro BORGOGLIO

contenzioso Liti pendenti, la società di persone non può definire il maggior reddito accertato

contenzioso

Liti pendenti, la società di persone non può definire il maggior reddito accertato

La circ. 48 dell’Agenzia ha chiarito che la controversia è definibile solo quando contiene l’ammontare dei tributi dovuti

/ Venerdì 28 ottobre 2011
La definizione unitaria di una lite pendente, ai sensi dell’art. 39 del DL n. 98/2011, non è esperibile qualora il soggetto coinvolto rientri tra quelli elencati all’art. 5 del TUIR: società di persone (semplici, snc e sas) e soggetti ad esse equiparati, quali associazioni di persone costituite per l’esercizio di arti e professioni, produttive di reddito di lavoro autonomo da imputare pro quota a ciascun associato.
A riguardo, si è espressa l’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 48/2011, secondo cui non è definibile, nel proprio complesso, una controversia in atto con una società di persone, qualora l’accertamento impugnato contenga esclusivamente la rettifica in aumento del reddito imputabile per trasparenza ai soci. Infatti, per effetto del richiamo all’art. 16, comma 3, lett. a) e c) della L. n. 289/2002, la controversia è definibile solo quando contiene l’ammontare dei tributi dovuti, sulla base dei quali determinare le somme richieste per la definizione (circolare n. 22/2003, paragrafo 12.10).
In particolare, il paragrafo 3 della circolare n. 48/2011 ha precisato che la somma da versare per il perfezionamento della definizione della lite pendente deve essere relativa al valore della lite stessa, il quale è dato:
- dall’ammontare dell’imposta o maggior imposta accertata, oggetto di contestazione in primo grado, al netto di interessi, sanzioni e altri accessori collegati al tributo, benché irrogati con un provvedimento a parte;
- dall’importo della sanzione, nell’ipotesi di controversie che hanno ad oggetto esclusivamente l’atto di irrogazione della sanzione, collegata ad un tributo accertato ma non contestato;
- dall’importo della sanzione, non collegata ad alcun tributo, per una lite pendente riguardante il solo provvedimento sanzionatorio.
Peraltro, un atto di accertamento relativo ad una società o associazione, il cui reddito è imputato pro quota ai soci, potrebbe riguardare non solo la contestazione di tributi di pertinenza dell’impresa, come l’IRAP, ma altresì ravvisare un maggior reddito trasferibile pro quota ai singoli soci: nell’atto amministrativo non è individuabile, in questo caso, alcun valore che rappresenti l’imposta da versare o che quantifichi le eventuali sanzioni dovute dagli stessi.
Si consideri l’ipotesi di Alfa snc, alla quale venga accertata – nel medesimo atto – non soltanto il tributo regionale, ma anche maggiori ricavi, rilevanti ai fini IRPEF, da imputare ai soci per trasparenza: la definizione della lite da parte della società avrà effetto limitatamente alla quota parte riferibile all’IRAP, mentre nessun effetto si verificherà in relazione ai redditi da partecipazione contenuti nel medesimo atto di accertamento.
I soci interessati devono singolarmente contestare il guadagno addebitato
In altre parole, i soci interessati dovranno singolarmente contestare il guadagno addebitato e, quindi, autonomamente, procedere all’eventuale definizione della relativa lite pendente, mentre il giudizio relativo all’imposta IRAP rimane di competenza esclusiva della partecipata.
L’Amministrazione finanziaria aveva precedentemente osservato che “le liti in materia di imposte sui redditi riguardanti i soci sono autonomamente definibili rispetto a quelle instaurate dalle società di persone per le imposte dovute dalla stessa” (circolare n. 12/2003, paragrafo 11.5). Sul punto, si rammenta che l’orientamento in parola è stato, inoltre, recentemente confermato dalla Cassazione, con l’ordinanza n. 16982/2011: in tale sede, è stato stabilito che la definizione agevolata della lite da parte del socio – per il reddito accertato nei suoi confronti – ha carattere strettamente personale, poiché costituisce titolo per l’accertamento nei suoi confronti. In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che “nel giudizio di impugnazione promosso dal socio avverso l’avviso di rettifica del reddito da partecipazione non è configurabile un litisconsorzio necessario con la società e gli altri soci (...) perché l’esigenza di unitarietà dell’accertamento viene meno con l’intervenuta definizione da parte della società (...)”.
Occorre peraltro rilevare che la tesi appena riportata rappresenta un’inversione di tendenza rispetto al precedente orientamento dei giudici supremi (Cass. n. 14815/2008), i quali sostenevano che tra i soci e la società di persone sussistesse il vincolo del litisconsorzio necessario (si veda “La definizione delle liti «travolge» il litisconsorzio per le società di persone” del 24 ottobre 2011). Le singole liti poste in essere dal socio sono distinte ed autonome non solo dal punto di vista sostanziale, ma anche da quello processuale: infatti, oltre a costituire autonomi ricorsi rispetto alla controversia portata avanti dalla società per le imposte accertate in capo alla stessa, non subiscono neppure gli effetti delle vicende processuali relative agli altri soci.
/ Alessandra DURANTEhttp://www.eutekne.info/Sezioni/Articolo_Print.aspx?ID=361256

Contenzioso : Per il nuovo termine «lungo» di 6 mesi conta la notifica del ricorso

Contenzioso

Per il nuovo termine «lungo» di 6 mesi conta la notifica del ricorso

Occorre verificare se il ricorso introduttivo è stato notificato sino al 4 luglio 2009, non rileva il suo deposito

/ Venerdì 28 ottobre 2011
La L. 69/2009, modificando l’art. 327 del codice di procedura civile, applicabile anche nel contenzioso tributario, ha ridotto il termine “lungo” per impugnare le sentenze da un anno a sei mesi.
I termini per impugnare le pronunce delle Commissioni tributarie sono di due tipi:
- c’è il termine “breve”, che coincide con il decorso di sessanta giorni dalla notifica della sentenza ad opera della controparte,
- e il termine “lungo”, che, dopo la L. 69/2009, coincide con il decorso di sei mesi dalla data di pubblicazione della sentenza, non avendo quindi rilievo la data di comunicazione del dispositivo.
Ora, l’art. 58 della L. 69/2009 ha stabilito che le modifiche apportate dalla riforma “si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore” (dal 4 luglio 2009). Secondo l’interpretazione dominante, la locuzione “giudizi instaurati” deve essere intesa come giudizi di primo grado, quindi, per gli appelli e le impugnazioni successive relative a cause i cui giudizi sono stati instaurati in primo grado prima del 4 luglio 2009 o al massimo in tale data, opera ancora il vecchio termine annuale.
Nel contenzioso tributario si è posto il problema di individuare il momento in cui il giudizio si intende instaurato, visto che, in tale modello rituale, il ricorso viene prima notificato e poi depositato in Commissione.
La Commissione tributaria provinciale di Torino, sentenza del 30 giugno 2011 n. 130, sezione XI, ha risolto la questione, tra l’altro in maniera conforme a quanto prospettato dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 31 marzo 2010 n. 17 § 7.
Nella specie, si controverteva sul diritto di agire in ottemperanza, posto che l’art. 70 del DLgs. 546/92 richiede, per tale fase, la previa formazione del giudicato.
I giudici, richiamando l’art. 20 del decreto 546 del 1992, affermano che il processo tributario è introdotto con la notifica del ricorso, quindi non hanno rilievo i successivi momenti processuali come la costituzione in giudizio.
Attenzione al decorso del termine “lungo”
È infatti con la notifica del ricorso che si realizza la “vocatio in jus del convenuto (ente impositore), e non può essere accettata la tesi secondo cui, sino a quando non vi sia costituzione in giudizio, il rapporto processuale non può ritenersi instaurato, posto che altresì nel rito civile la litispendenza coincide con il momento di notifica dell’atto di citazione.
Invero, si potrebbe giungere ad una diversa conclusione per le ipotesi di processi ove prima si deposita il ricorso presso la cancelleria del giudice, e poi questo viene comunicato alla controparte (in questi casi, “la costituzione in giudizio precede la chiamata in giudizio del convenuto, e non già, la segue, come avviene nel giudizio ordinario e in quello tributario”). A sostegno di ciò, i giudici affermano che “è sempre il primo atto compiuto dall’attore/ricorrente a determinare la pendenza del giudizio”.
Il principio affermato dai giudici è pertanto chiaro: il contenzioso tributario è instaurato con la notifica del ricorso e non con il suo deposito. E allora:
- per i ricorsi introduttivi notificati sino al 4 luglio 2009, il giudicato si forma decorso un anno dal deposito della sentenza senza che la parte abbia notificato l’appello o il ricorso per Cassazione;
- per i ricorsi introduttivi notificati successivamente al 4 luglio 2009, il giudicato si forma con il decorso di sei mesi dal deposito della sentenza senza che la parte abbia notificato l’appello o il ricorso per Cassazione.
/ Alfio CISSELLO

IMMOBILI: Proroga dei termini per le agevolazioni «prima casa»

IMMOBILI

Proroga dei termini per le agevolazioni «prima casa»

La Cassazione ribadisce che si applica la proroga biennale dei termini per la rettifica e liquidazione delle maggiori imposte

/ Venerdì 28 ottobre 2011
La proroga biennale dei termini per la rettifica e liquidazione delle maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastale si applica anche in tema di agevolazioni “prima casa”, qualora il contribuente non si sia avvalso della definizione di cui all’art. 11 della L. n. 289/2002 (Finanziaria 2003). Per la fruizione dei benefici fiscali, il contribuente è tenuto a dimostrare di non rientrare nel regime di tassazione ordinario e, quindi, di trovarsi nelle condizioni di favore. Questi, in estrema sintesi, i principi di diritto riaffermati dalla Corte di Cassazione (sezione tributaria) che, con ordinanza n. 21533 del 22 settembre 2011, depositata il 18 ottobre 2011, ha rigettato il ricorso di due coniugi.
La vicenda trae origine dall’acquisto di un’abitazione costituente “prima casa” dei coniugi. Il Fisco, nel recuperare le maggiori imposte dovute (registro, ipotecaria e catastale), aveva notificato un apposito avviso di rettifica e liquidazione, nel quale veniva contestata la misura della superficie utile complessiva ai fini dell’accesso all’agevolazione. Per il Fisco, tale superficie era di 255 metri quadrati, superiore quindi al limite consentito. Infatti, secondo l’art. 6 del DM 2 agosto 1969, recante le “caratteristiche delle abitazioni di lusso”, sono considerate abitazioni di lusso le singole unità immobiliari aventi una superficie utile complessiva superiore a 240 metri quadrati, escludendo (perché non vanno computati) i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e i posti auto (compresi i box).
I primi giudici tributari fiorentini hanno respinto le doglianze dei ricorrenti e la decisione è stata confermata dai giudici di appello. In particolare, con sentenza n. 29/16/09, la C.T. Reg. di Firenze, nel respingere l’appello dei contribuenti, ha espressamente negato che i locali che determinavano l’eccedenza della “superficie utile complessiva” potessero essere qualificati come “cantine” e quindi esclusi dal computo, giacché essi sono collocati sul medesimo livello degli altri vani e di questi ultimi hanno la stessa consistenza.
I contribuenti si sono rivolti ai giudici di legittimità, impugnando tempestivamente la citata sentenza n. 29/16/09 con quattro motivi, il primo dei quali riservato alla decadenza dell’azione amministrativa tributaria. A parere dei ricorrenti, la proroga biennale prevista dalla disposizione in materia di concordato fiscale (art. 11, comma 1, ultimo periodo, della L. n. 289/2002 e sue modificazioni), rispetto al termine ordinario triennale stabilito dall’art. 76, comma 2, del DPR n. 131/1986 (TUR), si applica soltanto in caso di accertamento di maggior valore. In buona sostanza, in virtù della specialità delle disposizioni sul “condono” tributario, l’allungamento dei termini di controllo riguarda solamente la fattispecie di cui al comma 1, con esclusione, quindi, dei casi di agevolazioni tributarie contemplati nel successivo comma 1-bis dello stesso art. 11 della Finanziaria 2003. Con gli altri motivi d’impugnazione, i contribuenti hanno dedotto genericamente una violazione di legge in relazione alla normativa catastale e una violazione del regolamento edilizio comunale, in quanto i locali che determinavano l’eccedenza della superficie utile complessiva erano catastalmente qualificati come “cantine” e queste non sono annoverabili come “vani” abitabili.
Va dimostrato che i locali “eccedenti” non sono abitabili
I giudici del Palazzaccio, nel respingere il ricorso, hanno ritenuto infondato il primo motivo e inammissibili le altre doglianze, perché nella sentenza impugnata si nega espressamente che i locali possano definirsi cantine, non avendo peraltro i contribuenti assolto in sede di merito la dimostrazione concreta (tramite idonea documentazione tecnica) che i locali in questione non fossero utilizzabili a scopo abitativo (cfr. Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 17450 del 23 luglio 2010). Con riferimento all’infondatezza, gli Ermellini hanno riaffermato il principio dell’applicabilità della proroga biennale anche ai casi di violazione della normativa concernente le “agevolazioni tributarie” in tema di imposte su atti, scritture, denunce e dichiarazioni di cui al comma 1 dell’art. 11 della L. n. 289/2002 (conforme, circolare Agenzia delle Entrate n. 12 del 21 febbraio 2003, paragrafo 7.3; Corte di cassazione, sezione tributaria, fra le tante, ordinanze n. 3506 dell’11 febbraio 2011, n. 1672 del 24 gennaio 2011 e n. 12069 del 17 maggio 2010). È  stata infatti rinverdita la tesi secondo cui la previsione del successivo comma 1-bis esprime il concetto che le violazioni delle disposizioni agevolative sono assimilate alle violazioni concernenti l’enunciazione del valore dei beni immobili, come stabilito dal comma 1.
/ Antonio PICCOLO

Contenzioso: Niente definizione per le cartelle di pagamentosu omessi versamenti

Contenzioso

Niente definizione per le cartelle di pagamento IRAP su omessi versamenti

L’Agenzia conferma che la definizione delle liti opera per tutti gli atti, esclusi quelli semplicemente liquidatori

/ Giovedì 27 ottobre 2011
La circ. 48/2011 dell’Agenzia delle Entrate, datata 24 ottobre, conferma che, nella definizione delle liti pendenti, rientrano tutte le cause instaurate avverso atti “impositivi” nel senso proprio del termine, con esclusione dei provvedimenti aventi una semplice funzione liquidatoria.
Così, nessun problema per definire le cause contro accertamenti, avvisi di liquidazione contenenti richieste, a qualsiasi titolo, di maggiori imposte, e cartelle di pagamento, a meno che, in quest’ultimo caso, non si verta in fattispecie di imposte regolarmente dichiarate ma poi non versate o simili, posto che non si rientrerebbe nel concetto di “atto di imposizione” (per approfondimenti si veda “Chiusura liti pendenti aperta anche alle cartelle” del 7 ottobre 2011).
Viene affermato che rientrano nel condono anche i processi instaurati avverso avvisi di recupero dei crediti d’imposta, in quanto atti impositivi, mentre restano escluse le impugnazioni avverso atti non indicati nell’elenco di cui all’art. 19 del DLgs. 546/92, come “avvisi bonari”, risposte date a seguito di interpelli, dinieghi di autotutela e così via.
Sulla cartella di pagamento, si rammenta che la lite è definibile ove il contribuente abbia, con il ricorso, inteso far valere la mancata notifica dell’accertamento, o l’irritualità della notifica di quest’ultimo provvedimento.
Nella circolare, però, ci sono a nostro avviso affermazioni che non possono essere accettate, in merito all’ipotesi degli omessi versamenti.
La non definibilità dei ricorsi avverso cartelle di pagamento scaturenti da omessi versamenti viene a nostro avviso meno nelle peculiari ipotesi in cui, per le più varie ragioni, il contribuente possa contestare la debenza del tributo.
Un caso lampante, e molto sentito dagli operatori, è quello del ricorso contro la cartella emessa a seguito di IRAP dichiarata e non versata, ove tale comportamento sia stato imposto dagli uffici mediante l’installazione del c.d. “errore bloccante”, che, sino all’invio del Modello UNICO 2006, costringeva i contribuenti alla compilazione del quadro IQ pena il mancato inoltro telematico della dichiarazione dei redditi, a prescindere dalla sussistenza del presupposto impositivo.
Inaccettabili le affermazioni in tema di IRAP
Nella circolare 48/2011, al § 4.2 (che, comunque, non fa alcuna menzione del problema sul “blocco”), si legge testualmente che trattasi di un’ipotesi non definibile, siccome si rientra nel caso degli omessi versamenti. Come evidenziato, sino all’invio del Modello UNICO 2006, l’Agenzia delle Entrate, capziosamente, obbligava tutti i lavoratori autonomi alla compilazione del suddetto quadro, pena il mancato invio della dichiarazione dei redditi, da qui la palese definibilità della causa, posto che, in ossequio all’attuale sistema impositivo, gli uffici finanziari, anziché installare il c.d. “blocco informatico”, avrebbero dovuto consentire senza problemi l’omessa compilazione del quadro IQ, per poi procedere ad accertamento anche induttivo extracontabile ove essi avessero riscontrato l’omessa dichiarazione IRAP.
Desta enorme perplessità il fatto che l’Agenzia delle Entrate, dopo l’inaccettabile comportamento tenuto negli anni addietro, continui imperterrita a fare finta che l’errore bloccante non sia mai esistito, e a sostenere che i contribuenti, per scelta, abbiano dichiarato e non versato.
Del resto, anche la Cassazione ha esplicitamente affermato (si badi bene, in termini generali, non facendo riferimento alla questione del “blocco” del sistema) che il contribuente può difendersi nel merito anche nel ricorso contro il ruolo derivante da IRAP dichiarata e non versata (Cass. 2 luglio 2010 n. 15744).
/ Alfio CISSELLO

iva : Non spetta la detrazione IVA se il registro non è stampato

iva

Non spetta la detrazione IVA se il registro non è stampato

Lo ha ribadito la Cassazione, se il contribuente, pur in possesso delle fatture, ha solo conservato i registri IVA su supporto informatico

/ Giovedì 27 ottobre 2011
Non spetta la detrazione dell’IVA sugli acquisti se il contribuente, ancorché in possesso delle fatture, non ha predisposto la stampa dei registri IVA, conservando questi ultimi soltanto su supporto informatico. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 22245 di ieri, 26 ottobre 2011.
Una società era stata sottoposta a verifica da parte della Guardia di Finanza nel 1999, che, tra l’altro, aveva constatato, per l’anno oggetto di controllo, il 1994, la mancanza dei registri IVA su supporto cartaceo, memorizzati soltanto sul computer aziendale. Le Fiamme Gialle avevano quindi rilevato l’illegittima detrazione dell’IVA relativa alle fatture d’acquisto, di cui, peraltro, la contribuente era in possesso. A seguito d’impugnazione dell’avviso di rettifica IVA, i giudici di merito si pronunciavano a favore della società, atteso che, secondo il collegio del riesame, la contribuente era comunque in possesso delle fatture attive e passive, avendo quindi solo omesso di stampare i relativi registri IVA, che tuttavia erano rimasti memorizzati su supporto informatico, in modo tale che i verificatori avevano potuto riconciliare le une con gli altri; da ciò – sempre secondo la C.T. Reg. – non emergeva alcun fine evasivo né elusivo e, pertanto, doveva essere riconosciuto il diritto alla detrazione IVA, anche alla luce del disposto dell’art. 7, comma 4-ter del DL 357/1994 applicabile nella formulazione al tempo vigente.
Tale disposizione prevedeva, infatti, che, a tutti gli effetti di legge, la tenuta di qualsiasi registro contabile con sistemi meccanografici è considerata regolare in difetto di trascrizione su supporti cartacei, nei termini di legge, dei dati relativi all’esercizio corrente, allorquando, anche in sede di controlli e ispezioni, gli stessi risultino aggiornati sugli appositi supporti magnetici e vengano stampati contestualmente alla richiesta avanzata dagli organi competenti ed in loro presenza. L’Agenzia delle Entrate ricorreva, allora, per Cassazione, eccependo che la verifica della GdF era avvenuta nel 1999, ma il periodo d’imposta oggetto delle attività ispettive era il 1994, per cui, ormai, ai sensi della predetta disposizione, erano spirati i termini di parificazione dei registri informatici a quelli cartacei, anche qualora fossero stati stampati contestualmente alla richiesta dei verificatori nel 1999, giacché la norma si riferiva, appunto, “all’esercizio corrente”. La memorizzazione informatica, quindi, non poteva più assumere alcun rilievo agli effetti di legge, sicché i registri IVA risultavano mancanti e la detrazione non spettante.
La Cassazione ha ricordato, innanzitutto, che, per la detrazione IVA prevista dall’art. 19 del DPR 633/1972, il contribuente deve porre in essere tutti gli adempimenti stabiliti dalla normativa di riferimento: deve, quindi, essere in possesso delle fatture d’acquisto, deve averle annotate nel relativo registro (ex art. 25 dello stesso DPR) ed, infine, deve conservare le une e l’altro, rimanendo, peraltro, gravato dell’onere di fornire la documentazione legittimante la detrazione (cfr. Cass. 28333/2005). Per quanto concerne la tenuta dei registri IVA, i Supremi Giudici hanno osservato che la regola è la conservazione cartacea, anche se, alla luce della sopra illustrata disposizione di cui al DL 357/1994, la tenuta dei registri con sistemi meccanografici (oggi diremmo con personal computer, elaboratori elettronici ed altri sistemi informatici EDP) è equiparata a tutti gli effetti di legge a quella cartacea, ma limitatamente ai dati dell’esercizio corrente (in cui avviene l’accesso o la verifica) e sempreché i registri siano aggiornati e stampati contestualmente alla richiesta dei verificatori. Gli Ermellini hanno stabilito, quindi, che la scelta di archiviazione informatica dei registri (fattispecie diversa dalla conservazione digitale delle scritture contabili di cui al nuovo articolo 2215-bis c.c.) presuppone sempre e comunque la successiva stampa degli stessi, attesa la limitazione temporale della parificazione degli effetti della registrazione meccanografica non trascritta a quelli della registrazione cartacea.
I Giudici di piazza Cavour hanno ribadito, quindi, la loro giurisprudenza pregressa, in base alla quale non è neppure necessaria un’espressa previsione normativa per escludere il diritto alla detrazione in relazione ai dati emergenti dai registri la cui tenuta, sulla base della norma sopra menzionata, non può essere considerata regolare (cfr. Cass. 22851/2010).  Nel caso di specie, i registri IVA richiesti nel 1999 dai verificatori erano quelli relativi all’anno d’imposta 1994, che, però, risultavano soltanto memorizzati sul computer aziendale e, quindi, per quanto sopra esposto, erano irregolari, tali, pertanto, da non consentire la detrazione IVA.
Si ricorda, infine, che il legislatore è intervenuto più volte sulla disposizione in oggetto, da ultimo modificata dall’art. 1, comma 161 della L. n. 244/2007, in vigore dal 1° gennaio 2008. La nuova formulazione prevede che la parificazione agli effetti di legge dei registri informatici rispetto a quelli cartacei riguarda non più l’esercizio corrente, ma quello per il quale i termini di presentazione delle relative dichiarazioni annuali non sono scaduti da oltre tre mesi.
/ Alessandro BORGOGLIO

società non operative: Società di comodo, penalizzazione per le holding

società non operative

Società di comodo, penalizzazione per le holding

Assoholding ha evidenziato alcuni possibili effetti distorsivi delle nuove disposizioni

/ Giovedì 27 ottobre 2011
L’art. 2 del DL n. 138/2011 ha introdotto due significative novità riguardanti i contribuenti IRES, che troveranno applicazione a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 17 settembre 2011.
In particolare, è stata prevista un’ulteriore fattispecie di non operatività, indipendente dal superamento del test dei ricavi dichiarati rispetto a quelli presunti, risultanti dall’applicazione di determinate percentuali alle immobilizzazioni iscritte in bilancio, tra cui le partecipazioni. È, infatti, stabilito che – pur in mancanza dei presupposti indicati dalla predetta disposizione – la presunzione di non operatività esplica i propri effetti anche quando le dichiarazioni del triennio dell’impresa espongono, alternativamente:
- sempre una perdita fiscale;
- per due anni una perdita fiscale, e per il rimanente periodo d’imposta un reddito inferiore a quello minimo di cui all’art. 30, comma 3 della L. n. 724/1994.
La novità normativa in parola ha formato oggetto di un primo commento da parte di Assoholding, con la nota n. 293/11/ASH, che ha ricordato, in primo luogo, l’esonero dalla stessa in presenza di una causa di esclusione dalla disciplina delle società di comodo, ai fini, tuttavia, del solo test sui ricavi: è il caso, ad esempio, delle imprese quotate, delle finanziarie e di quelle che hanno avuto almeno dieci dipendenti nel biennio precedente. È stato altresì rilevato che la nuova presunzione di non operatività può trovare applicazione nei confronti di imprese operative in base al livello dei ricavi, in quanto la scarsa redditività viene equiparata ad una perdita, che si verifica qualora il reddito risulti relativamente basso rispetto al patrimonio disponibile.
Nel caso specifico delle holding, l’Associazione di categoria ha richiamato il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n. 23681/2008, nella parte in cui ha riconosciuto la disapplicazione della disciplina delle società di comodo, a beneficio delle imprese detentrici di quote, al ricorrere di una condizione: le partecipate hanno ottenuto l’accoglimento della corrispondente istanza di interpello giustificativo della circostanza che non è stata raggiunta la soglia di ricavi minimi.
Tale esimente, a parere di Assoholding, rischia, ora, di essere vanificata dalle novità apportate dal DL n. 138/2011: le controllanti, pur in presenza del predetto esito positivo sui ricavi delle partecipate, potrebbero vedersi costrette a verificare la congruità del proprio reddito rispetto a quello emergente dall’applicazione dei parametri di cui all’art. 30, comma 3 della L. n. 724/1994. Con l’effetto che, nel caso delle holding, assume fondamentale rilevanza – ai fini del superamento di tale test – l’ammontare dei dividendi percepiti dalle partecipate, costituenti l’elemento di reddito tipico della capogruppo: soprattutto se si considera che gli stessi concorrono alla formazione del reddito fiscale, prevalentemente, nella misura del 5% del loro importo, penalizzando ulteriormente il risultato conseguito da confrontare con i parametri previsti dalla normativa.
A parere di Assoholding, tale attività di accertamento potrebbe essere condotta secondo modalità maggiormente equilibrate, qualora il livello del reddito da considerare nella verifica del test fosse connesso all’importo civilistico dei dividendi percepiti che concorrono per il 100% del loro ammontare.
A questo proposito, l’Associazione di categoria delle holding ha indicato alcuni possibili rimedi, che verranno proposti all’Amministrazione finanziaria:
- il computo nella misura del 100% – in luogo di quella fiscale del 5% – dei dividendi percepiti dalle partecipate per la verifica del test reddituale;
- l’esclusione dal predetto riscontro delle quote riferite alle società partecipate dalla holding rispetto alle quali si configura la nuova fattispecie di non operatività;
- l’accoglimento di particolari cause giustificative, rappresentanti la specificità delle holding, idonee ad esonerare le stesse dall’applicazione delle nuove disposizioni, come l’esito positivo all’interpello, ottenuto almeno dalla maggioranza delle partecipate, che ha giustificato il raggiungimento di un livello di ricavi inferiore al test. Un’ulteriore esimente potrebbe essere costituita dal verificarsi di una situazione di reddito a livello consolidato nella quale la holding è posta a capo della fiscal unit: lo stesso dicasi nell’eventualità delle presenza di politiche di mantenimento dei dividendi nel gruppo tributario, senza l’emersione degli stessi in capo alla holding, al fine di un rafforzamento patrimoniale dello stesso.
L’Associazione delle holding ha, pertanto, manifestato la propria disponibilità ad accogliere idee e proposte dei propri iscritti, dirette a rappresentare situazioni specifiche, ma di portata generale, idonee ad essere sottoposte all’Agenzia delle Entrate.
/ Michele BANA

iva Esportazione rilevante solo se provata

iva

Esportazione rilevante solo se provata

La Cassazione ha chiarito che l’esportazione deve risultare da un documento doganale o dalla vidimazione dell’Ufficio, comprovante l’uscita dei beni
/
/ Giovedì 27 ottobre 2011
Con la sentenza n. 22233 depositata il 26 ottobre 2011, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in caso di operazioni con operatori extra-Ue, “l’esportazione deve risultare da documento doganale o da vidimazione apposta dall’Ufficio”, al fine di comprovare l’uscita della merce dal territorio doganale.
Il caso trae origine dalla contestazione di omessa fatturazione di operazioni imponibili a una società italiana, che, all’epoca dei fatti (1997), aveva intrattenuto rapporti commerciali con una società ungherese, allora esclusa dal territorio dell’Unione europea, avvalendosi di un altro operatore identificato in Italia.
La Corte chiarisce, preliminarmente, che si tratta di un’esportazione triangolare regolata dall’articolo 8, lett. a) del DPR 633/1972, la quale si caratterizza per la presenza di un cedente e di un cessionario entrambi residenti nel territorio dello Stato, e di un cessionario residente all’estero e destinatario della merce. In tale contesto, il giudice di merito aveva ritenuto legittimo l’operato della contribuente, la quale aveva considerato non imponibili ai fini IVA le cessioni fatturate alla società ungherese, sul presupposto che le stesse venissero esportate in territorio extra-Ue.
Secondo la Cassazione, la tesi del giudice di merito risulta carente, in quanto si poggia sul presupposto del diritto al rimborso che spetterebbe alla società cessionaria e alla conseguente mancanza di danno erariale derivante dalla non applicazione dell’IVA nelle fatture emesse dalla ricorrente. La Suprema Corte, intervenendo sul punto, nel richiamare il principio contenuto nell’articolo 8, comma 1, lettera a) del DPR 633/1972, evidenzia come la norma, così come strutturata, prescinda dalla posizione del cessionario non residente e ponga precisi obblighi individuabili in capo all’operatore residente, tra cui la cura del trasporto dei beni e la presentazione in dogana delle fatture (su tale procedura, si veda la nota Agenzia delle Dogane n. 3495/2007).
Di conseguenza, solo qualora nelle fatture relative alla merce destinata all’esportazione, intestate al cessionario residente nel territorio dello Stato, risulti la vidimazione dell’Ufficio Doganale comprovante l’uscita dei beni dal territorio doganale, si devono ritenere sussistenti le condizioni richieste dalla legge per qualificare l’operazione come cessione all’esportazione esente da imposta (cfr. Cass. n. 5065/1998).
Non risultando i prescritti documenti nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che l’esportazione fosse eseguita dal cessionario destinatario dei beni, con conseguente disapplicazione del regime di non imponibilità previsto dall’articolo 8, comma 1, lett. a) del DPR 633/1972, a nulla rilevando il fatto che la merce effettivamente abbandonasse il territorio comunitario.
Per l’esportazione triangolare, sanzione pari al 100% dell’imposta evasa
Sotto altro profilo, la sentenza della Cassazione in commento si pronuncia anche in tema di sanzioni. Ricordando che lo schema negoziale tipico di un’esportazione triangolare si caratterizza per la presenza di due operatori residenti e un cessionario non residente destinatario finale della merce, la Corte ritiene applicabile al caso di specie la norma sanzionatoria prevista dall’articolo 6, comma 8, del DLgs. 472/1997, in ossequio al principio del favor rei introdotto dall’art. 3 del DLgs. 471/1997. In caso di omessa auto-fatturazione da parte del cessionario o committente, risulta quindi dovuta una sanzione pari al 100% dell’imposta evasa. Rispetto alla disposizione contenuta nell’abrogato articolo 41 del DPR 633/1972, tale sanzione risulta più lieve, atteso che l’abrogata disposizione richiedeva, oltre al pagamento della sanzione, anche l’imposta evasa.
Luigi Andrea CARELLO

Sulle liti pendenti le linee guida dell’Agenzia

Sulle liti pendenti le linee guida dell’Agenzia

/ Martedì 25 ottobre 2011

Il versamento delle somme da condono ferma la riscossione

Il versamento delle somme da condono ferma la riscossione

  Martedì 25 ottobre 2011
/ Alfio CISSELLO,