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sabato 5 maggio 2012

ilcasodelgiorno

Ciascun sindaco può chiedere lo scioglimento della società

La legittimazione a richiedere al Tribunale l’accertamento della causa di scioglimento è individuale e non consegue ad una delibera del collegio
/ Sabato 05 maggio 2012
Il Tribunale di Napoli, con decreto del 25 maggio 2011, ha fornito interessanti chiarimenti in ordine ad alcuni aspetti della disciplina dedicata alle cause di scioglimento delle società di capitali.
Ai sensi dell’art. 2485 comma 2 c.c., quando gli amministratori omettono gli adempimenti connessi al verificarsi di una causa di scioglimento, il Tribunale accerta l’esistenza della stessa su istanza di singoli soci o amministratori ovvero dei sindaci. Una parte della dottrina ha sottolineato come tale norma sembrerebbe deporre nel senso che i sindaci debbano considerarsi legittimati alla presentazione dell’istanza solo collegialmente (cfr. anche la Norma di comportamento CNDCEC n. 10.9). In senso contrario si esprime, invece, la giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Biella 4 giugno 2004 e, sembrerebbe, App. Bari 6 settembre 2006), confermata dal provvedimento in commento, secondo il quale sia dal tenore letterale dell’art. 2485 comma 2 c.c. che dalla norma che attribuisce a ciascun sindaco il potere di procedere singolarmente ad atti di controllo (art. 2403-bis comma 1 c.c.) si deve desumere che la legittimazione sostitutiva a ricorrere al Tribunale per l’accertamento di una causa di scioglimento della società, ove gli amministratori non vi provvedano, spetti, oltre che ai singoli soci o ai singoli amministratori, ai sindaci in forma individuale.
La causa di scioglimento connessa all’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale di cui all’art. 2484 comma 1 n. 2 c.c. – precisa ancora il Tribunale di Napoli – si configura quando la società viene a trovarsi, in modo oggettivo, definitivo e irreversibile nell’impossibilità di continuare a svolgere l’attività economica programmata dai soci nell’atto costitutivo, in modo tale da precludere qualsiasi ulteriore attività operativa della società (cfr. Trib. Lecco 19 febbraio 2007 e Cass. 15 luglio 1996 n. 6410). In altri termini, la circostanza che impedisce il conseguimento dell’oggetto sociale non può essere contingente o consistere in una mera antieconomicità sopravvenuta dell’impresa, ma deve essere tale da rendere impossibile in modo assoluto il protrarsi dell’attività sociale.
La causa di scioglimento determinata dall’impossibilità di funzionamento o dalla continuata inattività dell’assemblea di cui all’art. 2484 comma 1 n. 3 c.c., inoltre, si configura tutte le volte in cui l’assemblea ordinaria (e non quella straordinaria; cfr. Trib. Prato 12 gennaio 2010 e Trib. Pavia 17 settembre 1988), a causa del dissidio persistente e insanabile insorto tra i soci ovvero a causa del loro continuato disinteresse per le attività sociali, non è più in grado – in modo oggettivo, stabile e irreversibile – di adottare le decisioni che ad essa competono; ma ciò solo se si tratta di delibere essenziali per la società e per il suo regolare funzionamento, come accade nel caso della delibera di approvazione del bilancio di esercizio ovvero di nomina dei nuovi amministratori (cfr. Cass. 24 ottobre 1996 n. 9267 e, nella giurisprudenza di merito più recente, Trib. Alessandria 13 dicembre 2010 e Trib. Prato 12 gennaio 2010), e sempre che la paralisi deliberativa non sia superabile con l’applicazione di altri strumenti giuridici. E così, ad esempio, l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea non può desumersi dal fatto che l’amministratore della società sia stato revocato con conseguente venir meno dell’organo deputato alla convocazione; in mancanza dell’amministratore, infatti, l’assemblea può essere convocata dal collegio sindacale, se esistente, o dal Tribunale su richiesta dei soci (cfr. Cass. 8 maggio 1992 n. 5498 e Trib. Milano 18 luglio 1991).
Per gli amministratori “scaduti”, regime di prorogatio con pieni poteri
Nel caso di specie, il Tribunale esclude la causa di scioglimento per impossibilità di funzionamento dell’assemblea di una spa in cui i conflitti tra due gruppi paritari di soci avevano comunque consentito, seppure con notevoli difficoltà, di pervenire all’approvazione del bilancio d’esercizio, alla nomina dei componenti del collegio sindacale e anche alla sostituzione del cda con un amministratore unico, il quale, però, non aveva accettato la carica. A quest’ultimo riguardo, il Tribunale sottolinea l’irrilevanza del fatto che, successivamente alla mancata accettazione, l’assemblea non fosse riuscita a deliberare la nomina dei nuovi amministratori o la conferma del cda scaduto. Ciò in quanto, in caso di cessazione per “scadenza del termine”, gli amministratori, ex art. 2385 comma 2 c.c., restano in carica in regime di prorogatio fino alla ricostituzione del cda, assicurandosi, senza soluzione di continuità e con pienezza di poteri gestori, la normale prosecuzione dell’attività sociale. Non rileva, in relazione a tale ipotesi, l’ultimo comma dell’art. 2386 c.c., ai sensi del quale, se vengono a cessare l’amministratore unico o l’intero cda, l’assemblea per la nomina deve essere convocata d’urgenza dal collegio sindacale che, nel frattempo, può compiere gli atti di ordinaria amministrazione.

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