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venerdì 24 febbraio 2012

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Sull’«exit tax», l’Italia deve correggere il tiro

Norme del DL 1/2012 non in linea col principio della Corte di Giustizia sull’imposizione delle plusvalenze latenti all’atto del trasferimento all’estero
/ Venerdì 24 febbraio 2012
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata sulla causa promossa dalla società olandese National Grid Indus BV (C‑371/10 del 29 novembre 2011), nell’applicazione della norma domestica sull’exit tax, al momento del trasferimento della residenza fiscale in Gran Bretagna. Il caso rivestiva particolare interesse, poiché le precedenti sentenze, favorevoli ai contribuenti, riguardavano il trasferimento della residenza di persone fisiche (sentenze 11 marzo 2004, causa C‑9/02 e 7 settembre 2006, causa C‑470/04).
La Corte ha stabilito che, in via generale, uno Stato membro, sulla base del principio di territorialità fiscale, associato a un elemento temporale, vale a dire la residenza fiscale del contribuente sul territorio nazionale durante il periodo in cui le plusvalenze latenti si sono originate, ha il diritto di tassare tali plusvalenze al momento del trasferimento all’estero dell’impresa. L’exit tax, secondo la Corte, mira infatti a prevenire situazioni tali da compromettere il diritto dello Stato membro di “uscita” di esercitare la propria competenza fiscale in merito alle attività prodotte sul proprio territorio e può pertanto essere giustificata da motivi legati alla tutela della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri.
Ciò che, invece, lede la libertà di stabilimento è la riscossione immediata dell’imposta su queste eventuali plusvalenze, norma, quindi, contraria allo spirito dell’art. 49 TFUE e non proporzionale. Ne discende, conseguentemente, che una normativa di uno Stato membro, che impone ad una società che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva la riscossione immediata dell’imposta sulle plusvalenze latenti, al momento stesso di tale trasferimento, è disposizione sproporzionata, in quanto idonea ad ostacolare o, quantomeno, a dissuadere l’esercizio della libertà di stabilimento garantita dal Trattato. Inoltre, la riscossione anticipata dell’imposta non è nemmeno giustificabile come misura volta a prevenire l’evasione fiscale. La mera circostanza che una società trasferisca la propria sede in un altro Stato membro, sancisce la Corte, non può fondare una presunzione generale di evasione fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (si veda, tra le altre, la sentenza 12 settembre 2006, causa C-196/04, punto 50).
Gli Stati, come evidenziato dalla Corte, possono ricorrere ai meccanismi di assistenza reciproca previsti della Direttiva del Consiglio 26 maggio 2008, 2008/55/CE, in materia di recupero dei crediti fiscali. In particolare, la Direttiva offre alle autorità dello Stato membro di “uscita” un ambito di cooperazione e di assistenza che consente loro di riscuotere effettivamente il credito fiscale nello Stato membro ospitante nel momento in cui gli attivi vengono alienati.
La sentenza è destinata a modificare le attuali norme di exit tax presenti nei diversi ordinamenti degli Stati membri. Recentemente, il legislatore italiano, a seguito del pronunciamento della Corte e al fine di ovviare allo specifico procedimento d’infrazione aperto dalla Commissione UE sulla norma domestica (n. 2010/4141, promosso a seguito di una denuncia dell’AIDC), all’art. 91, comma 1 del DL 1/2012, è intervenuto ad emendare l’art. 166 del TUIR, aggiungendo, dopo il comma 2-ter, i commi 2-quater e 2-quinquies.
Sotto un profilo tecnico, vi è sostanziale differenza tra l’enunciato principio della Corte, che ritiene contraria alla libertà di stabilimento la riscossione anticipata dell’imposta, e l’emendato comma 2-quater, nel quale si legge che i contribuenti “possono richiedere la sospensione degli effetti del realizzo”. In realtà, non può trattarsi di una concessione dello Stato italiano, quanto di un vero e proprio “diritto” del contribuente di pagare l’imposta solo al momento del realizzo. Per cui, l’opzione (facoltativa) è il pagamento immediato e non la sospensione che, invece, costituisce la regola. Sul punto la norma andrebbe opportunamente modificata in sede di conversione.
Il comma 2 del citato art. 91 prevede poi che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai trasferimenti effettuati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Anche se non credo vi siano casi pendenti, questa disposizione è contraria al principio statuito nella causa C‑371/10, in quanto la nostra norma interna (art. 166 del TUIR), per il passato, continua ad essere incompatibile con l’art. 49 del TFUE. Si tratta di un vecchio e pervicace vizio italiano.
In primo luogo, le sentenze interpretative della Corte di Giustizia vincolano il giudice nazionale, che dovrà disapplicare la norma nazionale confliggente. In secondo luogo, per quanto riguarda gli effetti nel tempo della pronuncia della Corte, essa esplica i propri effetti retroattivamente (ex tunc). Solo in via eccezionale la Corte, applicando il principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, ha limitato in passato la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede, con specifica statuizione. Nella causa National Grid Indus BV la Corte nulla ha detto e, pertanto, la sentenza esplica i propri effetti retroattivamente.

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