accertamento
Il neo-professionista «sfugge» al redditometro
Per la Provinciale di Bari, nella fase di avvio di una professione la bassa redditività non può essere sintomatica di un comportamento antieconomico
/ Mercoledì 01 febbraio 2012
È nullo l’avviso di accertamento fondato sul redditometro a carico di un professionista che ha iniziato da pochi anni l’attività professionale, giacché la bassa redditività è fisiologica nella prima fase di avvio di una nuova professione, non potendosi, quindi, considerare sintomatica di un comportamento antieconomico e di possibile evasione. Lo ha stabilito la C.T. Prov. di Bari, con la sentenza n. 123/12/11 del 25 luglio 2011.
La pronuncia riguarda un tipico caso di accertamento redditometrico ex art. 38, comma 4 e seguenti del DPR 600/1973, ante riforma, avvenuta ad opera dell’art. 22 del DL 78/2010. L’Amministrazione finanziaria, con l’atto impositivo, contestava ad una avvocatessa un maggior reddito sinteticamente accertabile per l’anno 2005 rispetto a quello dichiarato, inferiore a mille euro, in considerazione dei canoni di locazione corrisposti per un fabbricato e dell’incremento patrimoniale costituito dall’acquisto di un immobile nel 2006, in comproprietà al 50% con il marito.
Al di là delle varie eccezione procedurali sollevate, tutte respinte dal collegio di merito, la ricorrente censurava l’operato dell’Ufficio perché aveva considerato quale indice di capacità contributiva la corresponsione dei canoni di locazione relativi all’anzidetto fabbricato, che, però, era destinato esclusivamente all’esercizio dell’attività professionale. Inoltre, per quanto concerne la quota di incremento patrimoniale contestata – pari ad un quinto della spesa complessiva (presunzione non più operante con il nuovo redditometro, che prevede, invece, che la spesa sia attribuita interamente all’anno in cui è stata sostenuta, salvo prova contraria da parte del contribuente) – la contribuente eccepiva che tale somma per l’acquisto dell’abitazione, col marito, era stata finanziata con l’accensione di un mutuo ipotecario, da cui derivava una rata mensile di circa 400 euro.
La C.T. Prov. ha stabilito, innanzitutto, che il canone di locazione per lo studio non doveva rientrare tra gli elementi considerati ai fini del calcolo redditometrico, poiché si trattava di un bene ad esclusivo utilizzo dell’attività professionale. In effetti, l’art. 2, comma 2 del DM 10 settembre 1992 stabilisce che, tra i beni ed i servizi da considerare al fini del redditometro, non devono essere inclusi quelli “relativi esclusivamente ad attività di impresa o all’esercizio di arti o professioni e tale circostanza risulti da idonea documentazione”. In tal caso, nello stesso contratto di affitto, era stato specificato che la destinazione d’uso dell’immobile era quella esclusiva dello studio professionale. Relativamente, invece, al secondo elemento considerato dal Fisco – l’acquisto di un immobile nel 2006 –, il collegio di prime cure ha stabilito che la rata di mutuo di circa 400 euro mensili era “compatibile con le aspettative di reddito di un avvocato, che non possono rimanere compresse nel livello di reddito del 2005”, poiché si trattava di uno dei primi anni di avvio della professione e, inoltre, proprio in quell’anno la contribuente aveva subito una limitazione dell’esercizio professionale a causa di una gravidanza.
Per le sopra esposte ragioni, quindi, l’esiguo reddito dichiarato nel 2005, secondo i giudici baresi, non era manifestazione di un comportamento antieconomico sintomatico di evasione, quanto piuttosto la tipica condizione di un professionista nei primi anni di avvio dell’attività, in cui i compensi sono sempre piuttosto esigui, giacché il loro aumento si verifica solo dopo aver conseguito un’adeguata clientela e dopo anni di esperienza. Anche i giudici pugliesi, sebbene non affrontino direttamente la questione, sembrano sostenere l’orientamento fatto poi proprio dalla C.T. Reg. di Torino (sentenza n. 76/14/11), per cui il redditometro costituisce soltanto una presunzione semplice e, quindi, l’Ufficio che procede all’accertamento sulla base di tale strumento deve provare un quid pluris rispetto alle mere risultanze di tale meccanismo presuntivo, alla stregua – in sostanza – di quanto già avviene per l’accertamento fondato sugli studi di settore, dopo le sentenze delle SS.UU. del 2009 (Cass. 26635-6-7-8/2009).
Tuttavia, sebbene il fronte pro “presunzione semplice” sembri espandersi tra i giudici di merito, la Cassazione è, invece, ben salda sulla propria posizione, per cui il redditometro costituisce una presunzione legale relativa (ex multis, Cass. 27545/2011, 9549/2011) e l’onere della prova grava sul contribuente che deve dimostrare la provenienza extrareddituale delle somme necessarie per il mantenimento dei beni contestati dall’Amministrazione Finanziaria, la quale null’altro è tenuta a provare (cfr. Cass. 656/1996, 11300/2000, 5794/2001, 20588/2005, 17202/2006, 3316/2009, 8075/2010). In forza di tale giurisprudenza, peraltro, è stato stabilito che il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall’Ufficio, non ha il potere di togliere a tali elementi la capacità presuntiva contributiva che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può solo valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale.
La pronuncia riguarda un tipico caso di accertamento redditometrico ex art. 38, comma 4 e seguenti del DPR 600/1973, ante riforma, avvenuta ad opera dell’art. 22 del DL 78/2010. L’Amministrazione finanziaria, con l’atto impositivo, contestava ad una avvocatessa un maggior reddito sinteticamente accertabile per l’anno 2005 rispetto a quello dichiarato, inferiore a mille euro, in considerazione dei canoni di locazione corrisposti per un fabbricato e dell’incremento patrimoniale costituito dall’acquisto di un immobile nel 2006, in comproprietà al 50% con il marito.
Al di là delle varie eccezione procedurali sollevate, tutte respinte dal collegio di merito, la ricorrente censurava l’operato dell’Ufficio perché aveva considerato quale indice di capacità contributiva la corresponsione dei canoni di locazione relativi all’anzidetto fabbricato, che, però, era destinato esclusivamente all’esercizio dell’attività professionale. Inoltre, per quanto concerne la quota di incremento patrimoniale contestata – pari ad un quinto della spesa complessiva (presunzione non più operante con il nuovo redditometro, che prevede, invece, che la spesa sia attribuita interamente all’anno in cui è stata sostenuta, salvo prova contraria da parte del contribuente) – la contribuente eccepiva che tale somma per l’acquisto dell’abitazione, col marito, era stata finanziata con l’accensione di un mutuo ipotecario, da cui derivava una rata mensile di circa 400 euro.
La C.T. Prov. ha stabilito, innanzitutto, che il canone di locazione per lo studio non doveva rientrare tra gli elementi considerati ai fini del calcolo redditometrico, poiché si trattava di un bene ad esclusivo utilizzo dell’attività professionale. In effetti, l’art. 2, comma 2 del DM 10 settembre 1992 stabilisce che, tra i beni ed i servizi da considerare al fini del redditometro, non devono essere inclusi quelli “relativi esclusivamente ad attività di impresa o all’esercizio di arti o professioni e tale circostanza risulti da idonea documentazione”. In tal caso, nello stesso contratto di affitto, era stato specificato che la destinazione d’uso dell’immobile era quella esclusiva dello studio professionale. Relativamente, invece, al secondo elemento considerato dal Fisco – l’acquisto di un immobile nel 2006 –, il collegio di prime cure ha stabilito che la rata di mutuo di circa 400 euro mensili era “compatibile con le aspettative di reddito di un avvocato, che non possono rimanere compresse nel livello di reddito del 2005”, poiché si trattava di uno dei primi anni di avvio della professione e, inoltre, proprio in quell’anno la contribuente aveva subito una limitazione dell’esercizio professionale a causa di una gravidanza.
Per le sopra esposte ragioni, quindi, l’esiguo reddito dichiarato nel 2005, secondo i giudici baresi, non era manifestazione di un comportamento antieconomico sintomatico di evasione, quanto piuttosto la tipica condizione di un professionista nei primi anni di avvio dell’attività, in cui i compensi sono sempre piuttosto esigui, giacché il loro aumento si verifica solo dopo aver conseguito un’adeguata clientela e dopo anni di esperienza. Anche i giudici pugliesi, sebbene non affrontino direttamente la questione, sembrano sostenere l’orientamento fatto poi proprio dalla C.T. Reg. di Torino (sentenza n. 76/14/11), per cui il redditometro costituisce soltanto una presunzione semplice e, quindi, l’Ufficio che procede all’accertamento sulla base di tale strumento deve provare un quid pluris rispetto alle mere risultanze di tale meccanismo presuntivo, alla stregua – in sostanza – di quanto già avviene per l’accertamento fondato sugli studi di settore, dopo le sentenze delle SS.UU. del 2009 (Cass. 26635-6-7-8/2009).
Tuttavia, sebbene il fronte pro “presunzione semplice” sembri espandersi tra i giudici di merito, la Cassazione è, invece, ben salda sulla propria posizione, per cui il redditometro costituisce una presunzione legale relativa (ex multis, Cass. 27545/2011, 9549/2011) e l’onere della prova grava sul contribuente che deve dimostrare la provenienza extrareddituale delle somme necessarie per il mantenimento dei beni contestati dall’Amministrazione Finanziaria, la quale null’altro è tenuta a provare (cfr. Cass. 656/1996, 11300/2000, 5794/2001, 20588/2005, 17202/2006, 3316/2009, 8075/2010). In forza di tale giurisprudenza, peraltro, è stato stabilito che il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall’Ufficio, non ha il potere di togliere a tali elementi la capacità presuntiva contributiva che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può solo valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale.
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