accertamento
Studi di settore, onere della prova sempre a carico dell’Ufficio
Per i giudici di legittimità, resta ferma la ratio della pronuncia delle Sezioni Unite del 2009
La Corte di Cassazione interviene nuovamente, con la recente sentenza n. 1864/2012, depositata lo scorso 8 febbraio a cura della sesta sezione civile – la cosiddetta sezione “filtro” –, in materia di studi di settore, rafforzando il principio sancito dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2009, la n. 26635, secondo il quale gli studi di settore non sono suscettibili di generare presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
La questione investe un accertamento fondato sui parametri accertativi, concernente il periodo d’imposta 1996, che vedeva il contribuente ricorrere per Cassazione avverso la decisione sfavorevole della C.T. Reg. del Lazio (sentenza n. 287/14/2009 del 15 luglio 2009): decisione, quella dei giudici regionali, che si fondava sulla ritenuta legittimità e congruità dei parametri accertativi e alla stregua dell’inconcludenza del contribuente in termini di onere probatorio.
Peraltro, la relazione depositata sul ricorso evidenziava, tra gli altri argomenti, l’inammissibilità dello stesso, tanto in ragione delle censure, che apparivano mosse all’accertamento impugnato e non alla decisione d’appello, quanto per il fatto che le stesse non aggredivano specificamente la ratio della decisione impugnata, la quale aveva valorizzato la circostanza che il contribuente non aveva prodotto prove idonee a superare e a vincere la prova presuntiva offerta dai coefficienti parametrici: da cui la richiesta di rigetto del ricorso per inammissibilità dei motivi o per manifesta infondatezza.
La sezione ha invece deciso per l’accoglimento del ricorso del contribuente, ribadendo che la procedura di accertamento tributario “standardizzato”, mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati: affermando nuovamente, in sostanza, che alcuna significatività può derivare automaticamente dalle risultanze matematico-statistiche (definiti “meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività”).
Significatività che nasce, dunque, soltanto in esito al contraddittorio eventualmente svolto tra Ufficio e contribuente, il quale, tuttavia, non è nemmeno suscettibile di condizionare l’impugnabilità dell’accertamento, atteso che il Giudice tributario può liberamente valutare sia l’applicazione degli standard al caso concreto, da dimostrare a cura dell’Ufficio tanto in termini motivazionali quanto probatori, sia la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è nemmeno vincolato alle eccezioni eventualmente sollevate in ambito endoprocedimentale.
Tant’è che alcuna conseguenza può derivare a quest’ultimo nel caso in cui scelga di restare inerte nell’obbligatoria fase contraddittoria preventiva, atteso che ciò può certo costituire oggetto di motivazione dell’atto, a questo punto fondato sulla sola applicazione dello strumento matematico-statistico, ma non preclude affatto, o limita, alcuna azione difensiva da dispiegare dinanzi al giudice (che potrà, nel caso, valutare la mancata risposta all’invito nel complessivo quadro probatorio).
Confermando, così, che se certamente alcuna delle parti in causa può vantare un’esimente in termini probatori, è altrettanto certo che, però, la prima mossa spetta all’Ufficio, la cui pretesa ben difficilmente potrà resistere in sede contenziosa se fondata esclusivamente sulle risultanze matematico-statistiche, ormai definitivamente acclarati quali semplici elementi indiziari (si veda anche Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 29185/2011).
/ Carlo NOCERA
La questione investe un accertamento fondato sui parametri accertativi, concernente il periodo d’imposta 1996, che vedeva il contribuente ricorrere per Cassazione avverso la decisione sfavorevole della C.T. Reg. del Lazio (sentenza n. 287/14/2009 del 15 luglio 2009): decisione, quella dei giudici regionali, che si fondava sulla ritenuta legittimità e congruità dei parametri accertativi e alla stregua dell’inconcludenza del contribuente in termini di onere probatorio.
Peraltro, la relazione depositata sul ricorso evidenziava, tra gli altri argomenti, l’inammissibilità dello stesso, tanto in ragione delle censure, che apparivano mosse all’accertamento impugnato e non alla decisione d’appello, quanto per il fatto che le stesse non aggredivano specificamente la ratio della decisione impugnata, la quale aveva valorizzato la circostanza che il contribuente non aveva prodotto prove idonee a superare e a vincere la prova presuntiva offerta dai coefficienti parametrici: da cui la richiesta di rigetto del ricorso per inammissibilità dei motivi o per manifesta infondatezza.
La sezione ha invece deciso per l’accoglimento del ricorso del contribuente, ribadendo che la procedura di accertamento tributario “standardizzato”, mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati: affermando nuovamente, in sostanza, che alcuna significatività può derivare automaticamente dalle risultanze matematico-statistiche (definiti “meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività”).
Significatività che nasce, dunque, soltanto in esito al contraddittorio eventualmente svolto tra Ufficio e contribuente, il quale, tuttavia, non è nemmeno suscettibile di condizionare l’impugnabilità dell’accertamento, atteso che il Giudice tributario può liberamente valutare sia l’applicazione degli standard al caso concreto, da dimostrare a cura dell’Ufficio tanto in termini motivazionali quanto probatori, sia la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è nemmeno vincolato alle eccezioni eventualmente sollevate in ambito endoprocedimentale.
Tant’è che alcuna conseguenza può derivare a quest’ultimo nel caso in cui scelga di restare inerte nell’obbligatoria fase contraddittoria preventiva, atteso che ciò può certo costituire oggetto di motivazione dell’atto, a questo punto fondato sulla sola applicazione dello strumento matematico-statistico, ma non preclude affatto, o limita, alcuna azione difensiva da dispiegare dinanzi al giudice (che potrà, nel caso, valutare la mancata risposta all’invito nel complessivo quadro probatorio).
La prima mossa spetta all’Ufficio
La Cassazione ha dunque accolto il ricorso del contribuente, tanto per effetto del principio affermato dalle Sezioni Unite quanto in considerazione del fatto che non sono state esplicitate considerazioni di sorta, a cura della controparte resistente, circa le ragioni idonee a superare le difese opposte in merito alle censure per le quali il reddito dichiarato risultava congruo in base ai parametri applicabili pro tempore.Confermando, così, che se certamente alcuna delle parti in causa può vantare un’esimente in termini probatori, è altrettanto certo che, però, la prima mossa spetta all’Ufficio, la cui pretesa ben difficilmente potrà resistere in sede contenziosa se fondata esclusivamente sulle risultanze matematico-statistiche, ormai definitivamente acclarati quali semplici elementi indiziari (si veda anche Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 29185/2011).
/ Carlo NOCERA
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