accertamento
L’accertamento alla «piccola» srl pregiudica il giudizio del socio
Nell’ipotesi in cui sul socio di una società a ristretta compagine sociale vengano ribaltati gli utili extracontabili accertati
dal Fisco in capo all’ente societario, il giudizio nei confronti del
socio è inevitabilmente pregiudicato dall’esito dell’accertamento
effettuato nei confronti della stessa società, cosicché, se esso è
divenuto definitivo per mancata impugnazione nei termini, il socio non
può contestare il merito della pretesa avanzata nei confronti della società. Inoltre, la mancata allegazione all’atto
impositivo notificato al socio dell’avviso di accertamento a carico
della società non comporta alcuna conseguenza. È quanto si desume dalla
sentenza della Cassazione n. 441 di ieri.
Il caso oggetto della pronuncia è abbastanza frequente, in quanto attiene alla prassi ormai consolidata del Fisco di attribuire ai soci delle società di capitali a ristretta compagine sociale gli utili occulti accertati in capo a queste ultime. Il meccanismo presuntivo è quello per cui, se la società ha conseguito dei ricavi “in nero”, è verosimile ritenere che gli stessi siano stati ripartiti tra i soci, sempreché ovviamente questi siano in numero limitato. Si tratta di una presunzione introdotta in via interpretativa dalla Suprema Corte (Cass. n. 9849/2011, n. 13338/2009; n. 9519/2009; SS.UU. n. 18640/2008).
Dai fatti di causa relativi alla sentenza in commento emerge che l’Agenzia delle Entrate aveva accertato i maggiori utili occulti della società attraverso l’avviso di accertamento notificato a questa, che, poi, era divenuto definitivo per mancata impugnazione. Successivamente, l’Amministrazione finanziaria aveva notificato al socio unico l’atto impositivo con cui erano stati ribaltati su quest’ultimo i maggiori utili accertati in capo alla società. Nell’avviso di accertamento notificato al socio, però, non era stato allegato l’atto impositivo redatto a carico della società e notificato soltanto a quest’ultima. Quindi, il ricorrente eccepiva la violazione dell’art. 7, comma 1, dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000), in base al quale se, nella motivazione dell’atto, si fa riferimento ad un altro atto, quest’ultimo va allegato al primo. Poiché, nel caso di specie, ciò non era avvenuto, il socio lamentava la lesione del suo diritto di difesa, dato che non conosceva il percorso accertativo utilizzato dal Fisco per determinare i maggiori utili in capo alla società.
I Giudici del Palazzaccio, però, hanno stabilito che l’intervenuta definizione dell’accertamento nei confronti della società pregiudica il giudizio nei riguardi del socio. In sostanza, una volta divenuto definitivo, l’accertamento a carico della società non è più censurabile e il merito della pretesa non può essere riconsiderato nel giudizio nei confronti del socio. Quindi, quest’ultimo può solo cercare di dimostrare che quel vincolo di solidarietà su cui si regge la presunzione in oggetto, nel caso di specie, non esiste, perché magari vi sono cattivi rapporti con gli altri soci, o non vi è mai stata una partecipazione nella gestione della società. Recentemente, alcuni giudici di merito hanno annullato l’avviso di accertamento redatto a carico del socio, che aveva dimostrato di essere stato residente e di aver lavorato all’estero, non avendo così potuto partecipare all’attività gestionale della società e rimanendo escluso da quella “complicità” fra i soci che il suddetto consolidato indirizzo giurisprudenziale pone a base della presunzione di distribuzione del maggior reddito accertato in capo alla “piccola” società di capitali (C.T. Reg. Bari n. 40/6/11).
Per quanto riguarda, poi, la censura relativa alla mancata allegazione dell’atto a carico della società all’accertamento notificato al socio, i Supremi Giudici non si sono pronunciati, limitandosi ad affermare che correttamente il Fisco aveva notificato l’accertamento solo al legale rappresentante della società, che al tempo era il curatore fallimentare, dato che i soci non hanno alcuna legittimazione processuale per poter impugnare l’accertamento della società.
Si osserva che l’art. 7, comma 1, dello Statuto si limita a stabilire il generale obbligo di allegazione, a carico dell’Amministrazione finanziaria, degli atti richiamati nella motivazione degli accertamenti, senza però stabilire alcuna sanzione di nullità dell’atto in caso di violazione della disposizione. La Cassazione ha ribadito che il richiamato obbligo non sussiste nel caso in cui esso sia conosciuto o conoscibile dal contribuente (ex multis: Cass. n. 9164/2010; n. 25721/2009; n. 5755/2005). In effetti, l’art. 2476 c.c. dispone che “i soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali e i documenti relativi all’amministrazione”; pertanto, l’accertamento a carico della società era quantomeno conoscibile dal socio, sicché poteva ritenersi non obbligatoria tale allegazione.
Una parte della giurisprudenza di merito, tuttavia, non concorda con tale tesi, ritenendo che l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato ex art. 7 è comunque ineludibile, a meno che sia riprodotto il contenuto essenziale di tale atto richiamato (cfr. C.T. Reg. di Bari n. 56 del 6 maggio 2011).
FONTE:EUTEKNE
Il caso oggetto della pronuncia è abbastanza frequente, in quanto attiene alla prassi ormai consolidata del Fisco di attribuire ai soci delle società di capitali a ristretta compagine sociale gli utili occulti accertati in capo a queste ultime. Il meccanismo presuntivo è quello per cui, se la società ha conseguito dei ricavi “in nero”, è verosimile ritenere che gli stessi siano stati ripartiti tra i soci, sempreché ovviamente questi siano in numero limitato. Si tratta di una presunzione introdotta in via interpretativa dalla Suprema Corte (Cass. n. 9849/2011, n. 13338/2009; n. 9519/2009; SS.UU. n. 18640/2008).
Dai fatti di causa relativi alla sentenza in commento emerge che l’Agenzia delle Entrate aveva accertato i maggiori utili occulti della società attraverso l’avviso di accertamento notificato a questa, che, poi, era divenuto definitivo per mancata impugnazione. Successivamente, l’Amministrazione finanziaria aveva notificato al socio unico l’atto impositivo con cui erano stati ribaltati su quest’ultimo i maggiori utili accertati in capo alla società. Nell’avviso di accertamento notificato al socio, però, non era stato allegato l’atto impositivo redatto a carico della società e notificato soltanto a quest’ultima. Quindi, il ricorrente eccepiva la violazione dell’art. 7, comma 1, dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000), in base al quale se, nella motivazione dell’atto, si fa riferimento ad un altro atto, quest’ultimo va allegato al primo. Poiché, nel caso di specie, ciò non era avvenuto, il socio lamentava la lesione del suo diritto di difesa, dato che non conosceva il percorso accertativo utilizzato dal Fisco per determinare i maggiori utili in capo alla società.
I Giudici del Palazzaccio, però, hanno stabilito che l’intervenuta definizione dell’accertamento nei confronti della società pregiudica il giudizio nei riguardi del socio. In sostanza, una volta divenuto definitivo, l’accertamento a carico della società non è più censurabile e il merito della pretesa non può essere riconsiderato nel giudizio nei confronti del socio. Quindi, quest’ultimo può solo cercare di dimostrare che quel vincolo di solidarietà su cui si regge la presunzione in oggetto, nel caso di specie, non esiste, perché magari vi sono cattivi rapporti con gli altri soci, o non vi è mai stata una partecipazione nella gestione della società. Recentemente, alcuni giudici di merito hanno annullato l’avviso di accertamento redatto a carico del socio, che aveva dimostrato di essere stato residente e di aver lavorato all’estero, non avendo così potuto partecipare all’attività gestionale della società e rimanendo escluso da quella “complicità” fra i soci che il suddetto consolidato indirizzo giurisprudenziale pone a base della presunzione di distribuzione del maggior reddito accertato in capo alla “piccola” società di capitali (C.T. Reg. Bari n. 40/6/11).
Per quanto riguarda, poi, la censura relativa alla mancata allegazione dell’atto a carico della società all’accertamento notificato al socio, i Supremi Giudici non si sono pronunciati, limitandosi ad affermare che correttamente il Fisco aveva notificato l’accertamento solo al legale rappresentante della società, che al tempo era il curatore fallimentare, dato che i soci non hanno alcuna legittimazione processuale per poter impugnare l’accertamento della società.
Si osserva che l’art. 7, comma 1, dello Statuto si limita a stabilire il generale obbligo di allegazione, a carico dell’Amministrazione finanziaria, degli atti richiamati nella motivazione degli accertamenti, senza però stabilire alcuna sanzione di nullità dell’atto in caso di violazione della disposizione. La Cassazione ha ribadito che il richiamato obbligo non sussiste nel caso in cui esso sia conosciuto o conoscibile dal contribuente (ex multis: Cass. n. 9164/2010; n. 25721/2009; n. 5755/2005). In effetti, l’art. 2476 c.c. dispone che “i soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali e i documenti relativi all’amministrazione”; pertanto, l’accertamento a carico della società era quantomeno conoscibile dal socio, sicché poteva ritenersi non obbligatoria tale allegazione.
Una parte della giurisprudenza di merito, tuttavia, non concorda con tale tesi, ritenendo che l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato ex art. 7 è comunque ineludibile, a meno che sia riprodotto il contenuto essenziale di tale atto richiamato (cfr. C.T. Reg. di Bari n. 56 del 6 maggio 2011).
FONTE:EUTEKNE
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