Penale tributario
Elusione fiscale a rischio sequestro e processo penale
La Corte di Cassazione ritiene legittima la misura cautelare e rinvia la valutazione dell’effettiva rilevanza penale dell’elusione al giudizio di merito
Anche una condotta elusiva, potenzialmente riconducibile, quanto meno dal punto di vista materiale, alla fattispecie di dichiarazione infedele, può legittimare il ricorso al sequestro preventivo per equivalente in funzione della successiva confisca. È questa l’indicazione desumibile dalla sentenza 7 luglio 2011 n. 26723 della Cassazione. Soluzione che – nonostante le avvertenze che gli stessi Giudici di legittimità tendono ad evidenziare, in ragione dello stato in cui la decisione è intervenuta (vale a dire alla luce di un esame sommario tipico della fase cautelare) – non appare condivisibile.
In relazione ad una vicenda riconducibile alla figura giuridica dell’abuso del diritto in ambito tributario (ovvero con riguardo ad una condotta elusiva), un soggetto risultava destinatario di un decreto di sequestro preventivo per equivalente (in funzione della successiva confisca) di beni mobili ed immobili per un valore superiore a 3 milioni di euro, sul presupposto – evidentemente – di una supposta rilevanza penale dell’elusione ex art. 4 del DLgs. 74/2000 (conformemente con quanto sostenuto da una parte minoritaria della dottrina). Il provvedimento del GIP veniva confermato dal Tribunale del riesame. Il difensore dell’indagato proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, nel quale si contestava (a sommesso avviso di chi scrive, correttamente) la violazione dell’art. 4 del DLgs. 74/2000, per essersi considerata penalmente rilevante l’elusione fiscale.
In particolare, si evidenziava che: tale condotta è priva di qualsiasi carattere di decettività, comunque necessario per l’integrazione della fattispecie in questione (è, infatti, la stessa Relazione illustrativa del DLgs. 74/2000 a richiedere, anche per la dichiarazione infedele, un minimo di attitudine all’inganno nei confronti del Fisco, inesistente nell’elusione, connotata dall’assenza di artificiosità nel comportamento materiale, configurabile solo nella veste giuridica); una eventuale rilevanza penale dell’elusione sarebbe in contrasto con la necessaria tipicità dell’illecito penale; non può configurarsi il dolo specifico di evasione, incompatibile con una finalità meramente elusiva.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso. Pur riconoscendo il carattere “pregevole” delle argomentazioni difensive, infatti, reputa le stesse attinenti più propriamente al merito, dovendo essere meglio valutate nel prosieguo del procedimento. Nella fase in corso, invece, occorre solo valutare l’esistenza del fumus commissi delicti (probabilità della consumazione del reato) al fine di giustificare la misura cautelare reale a garanzia della successiva riscossione. Tale fumus è ritenuto esistente dal momento che l’art. 4 del DLgs. 74/2000 punisce l’indicazione in dichiarazione, senza l’utilizzo di mezzi fraudolenti, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi fittizi (al superamento delle prescritte soglie di punibilità).
In particolare, i precedenti giudici avrebbero motivatamente ritenuto esistente il fumus di una dichiarazione infedele, dal momento che in essa sarebbero stati esposti “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”. Conclusione che non sarebbe contraddetta dalla circostanza di trovarsi di fronte ad una condotta elusiva (ovvero rientrante tra quelle previste dall’art. 37-bis del DPR 600/73). Questa, infatti, essendosi risolta in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, avrebbe determinato l’infedeltà della dichiarazione in quanto priva dell’esposizione degli elementi attivi nel loro ammontare effettivo.
Diversamente ragionando, si dovrebbe pervenire alla paradossale conclusione di pretendere dal contribuente, sotto minaccia di applicazione di una sanzione penale, di riportare in dichiarazione risultanze diverse da quelle emergenti dalle appostazioni contabili. D’altra parte, sia pure “in obiter dictum”, la Cassazione, nella sentenza 7 luglio 2006 n. 23730, ha già affermato che il risparmio fiscale non è riconducibile ad alcuna fattispecie incriminatrice del DLgs. 74/2000, ancorché riconosciuto “inopponibile” all’Erario ex art. 37-bis del DPR 600/73. In modo ancora più esplicito, inoltre, si esprime la giurisprudenza di merito (cfr., tra le altre, Trib. Milano 1 aprile 2011, Trib. Catania 11 novembre 2009 n. 2741 e Trib. Pinerolo 10 luglio 2000); in talune occasioni addirittura accogliendo la richiesta di archiviazione del PM (cfr. Trib. Milano 3 dicembre 2009).
In relazione ad una vicenda riconducibile alla figura giuridica dell’abuso del diritto in ambito tributario (ovvero con riguardo ad una condotta elusiva), un soggetto risultava destinatario di un decreto di sequestro preventivo per equivalente (in funzione della successiva confisca) di beni mobili ed immobili per un valore superiore a 3 milioni di euro, sul presupposto – evidentemente – di una supposta rilevanza penale dell’elusione ex art. 4 del DLgs. 74/2000 (conformemente con quanto sostenuto da una parte minoritaria della dottrina). Il provvedimento del GIP veniva confermato dal Tribunale del riesame. Il difensore dell’indagato proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, nel quale si contestava (a sommesso avviso di chi scrive, correttamente) la violazione dell’art. 4 del DLgs. 74/2000, per essersi considerata penalmente rilevante l’elusione fiscale.
In particolare, si evidenziava che: tale condotta è priva di qualsiasi carattere di decettività, comunque necessario per l’integrazione della fattispecie in questione (è, infatti, la stessa Relazione illustrativa del DLgs. 74/2000 a richiedere, anche per la dichiarazione infedele, un minimo di attitudine all’inganno nei confronti del Fisco, inesistente nell’elusione, connotata dall’assenza di artificiosità nel comportamento materiale, configurabile solo nella veste giuridica); una eventuale rilevanza penale dell’elusione sarebbe in contrasto con la necessaria tipicità dell’illecito penale; non può configurarsi il dolo specifico di evasione, incompatibile con una finalità meramente elusiva.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso. Pur riconoscendo il carattere “pregevole” delle argomentazioni difensive, infatti, reputa le stesse attinenti più propriamente al merito, dovendo essere meglio valutate nel prosieguo del procedimento. Nella fase in corso, invece, occorre solo valutare l’esistenza del fumus commissi delicti (probabilità della consumazione del reato) al fine di giustificare la misura cautelare reale a garanzia della successiva riscossione. Tale fumus è ritenuto esistente dal momento che l’art. 4 del DLgs. 74/2000 punisce l’indicazione in dichiarazione, senza l’utilizzo di mezzi fraudolenti, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi fittizi (al superamento delle prescritte soglie di punibilità).
In particolare, i precedenti giudici avrebbero motivatamente ritenuto esistente il fumus di una dichiarazione infedele, dal momento che in essa sarebbero stati esposti “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”. Conclusione che non sarebbe contraddetta dalla circostanza di trovarsi di fronte ad una condotta elusiva (ovvero rientrante tra quelle previste dall’art. 37-bis del DPR 600/73). Questa, infatti, essendosi risolta in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, avrebbe determinato l’infedeltà della dichiarazione in quanto priva dell’esposizione degli elementi attivi nel loro ammontare effettivo.
Ma l’elusione non integra la condotta tipica della dichiarazione infedele
Al di là della correttezza dei rilievi difensivi formulati nel ricorso in Cassazione, ma rinviati alla valutazione di merito, è proprio quest’ultimo aspetto a non convincere. Come sottolineato da autorevole dottrina, infatti, in presenza di comportamenti elusivi è la condotta tipica della dichiarazione infedele a mancare, perché nella dichiarazione presentata il contribuente non fa altro che riportare fedelmente le risultanze contabili delle operazioni da lui effettivamente compiute e volute, senza che possa parlarsi di “indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”.Diversamente ragionando, si dovrebbe pervenire alla paradossale conclusione di pretendere dal contribuente, sotto minaccia di applicazione di una sanzione penale, di riportare in dichiarazione risultanze diverse da quelle emergenti dalle appostazioni contabili. D’altra parte, sia pure “in obiter dictum”, la Cassazione, nella sentenza 7 luglio 2006 n. 23730, ha già affermato che il risparmio fiscale non è riconducibile ad alcuna fattispecie incriminatrice del DLgs. 74/2000, ancorché riconosciuto “inopponibile” all’Erario ex art. 37-bis del DPR 600/73. In modo ancora più esplicito, inoltre, si esprime la giurisprudenza di merito (cfr., tra le altre, Trib. Milano 1 aprile 2011, Trib. Catania 11 novembre 2009 n. 2741 e Trib. Pinerolo 10 luglio 2000); in talune occasioni addirittura accogliendo la richiesta di archiviazione del PM (cfr. Trib. Milano 3 dicembre 2009).
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