Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

venerdì 29 luglio 2011

Iva

Iva

Indetraibile l’IVA delle fatture in fotocopia

Secondo la Cassazione, le fotocopie sono «sospette», se l’assenza degli originali non è adeguatamente motivata

/ Giovedì 28 luglio 2011
La normativa vigente prevede che, ai fini della detraibilità dell’IVA, le fatture di acquisto debbano essere conservate in originale e, in caso di perdita, su contestazione dell’Amministrazione finanziaria, spetta al contribuente provare la forza maggiore che ne ha determinato lo smarrimento, nonché ricostruire tali documenti sulla base dei dati raccolti dai fornitori. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13943 del 24 giugno 2011.
L’articolo 39, ultimo comma, primo periodo, del DPR 633/1972, che disciplina la tenuta e conservazione dei registri e dei documenti rilevanti ai fini IVA, dispone che i registri, i bollettari, gli schedari e i tabulati nonché le fatture, le bollette doganali e gli altri documenti devono essere conservati a norma dell’art. 22 del DPR 600/1973. Tale ultima disposizione, inserita nel decreto relativo all’accertamento ai fini delle imposte sui redditi, prevede che devono essere conservati ordinatamente, per ciascun affare, gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevuti e le copie delle lettere e dei telegrammi spediti e delle fatture emesse. Il quadro normativo, quindi, appare lineare e chiaro: la fatture devono essere conservate in originale.
In sede di accertamento nei confronti di una società, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato la detrazione IVA operata dalla contribuente in riferimento a fatture di acquisto conservate ed esibite soltanto in fotocopia. Ritenendo indetraibile l’imposta, attesa la normativa testé illustrata, l’Amministrazione finanziaria ne recuperava la relativa IVA, con sanzioni e interessi.
I giudici di merito, a cui si era rivolta la società, si pronunciavano a suo favore. In particolare, la C.T. Reg., dopo aver rilevato il “difetto probatorio documentale” a carico della contribuente, che a distanza di molti anni non era stata in grado di avere gli originali o copie ufficiali o meglio conformi agli originali dai fornitori, ha stabilito che sarebbe comunque stato compito dell’Ufficio verificare l’effettiva regolarità e veridicità delle fatture fotocopiate.
Avverso tale decisione proponeva ricorso l’Agenzia delle Entrate, ottenendo una pronuncia a sé favorevole da parte della Cassazione. I giudici del Palazzaccio hanno stabilito, infatti, che la C.T. Reg. aveva fatto malgoverno del principio di ripartizione dell’onere della prova di cui all’articolo 2697 c.c., atteso che aveva erroneamente deciso che fosse l’Ufficio a dover colmare le lacune probatorie della controparte, accertando la “genuinità” dei documenti allegati dalla contribuente. Tale statuizione – secondo i supremi giudici – è in contrasto sia con la predetta norma codicistica in materia di onere probatorio, sia con la disposizione del Decreto IVA che impone la conservazione delle fatture in originale (art. 39 del DPR 633/1972).
In conclusione, la Cassazione ha stabilito che spetta sempre al contribuente dimostrare il suo diritto alla detrazione dell’imposta e, pertanto, in caso di assenza delle fatture di acquisto originali, se l’Amministrazione finanziaria contesta le fotocopie esibite in sede di accertamento, grava sempre sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di una forza maggiore che ha determinato la perdita dei documenti, e di ricostruire gli stessi anche con la collaborazione dei fornitori.
La sentenza in commento riporta alla luce un tema già balzato agli onori della cronaca nel 2009, quando la Suprema Corte, con la sentenza n. 4502, aveva stabilito, però in materia di imposte dirette, l’indeducibilità di un costo documentato soltanto da una fotocopia della fattura di acquisto trasmessa via fax. In quell’occasione, i giudici del Palazzaccio avevano stabilito che l’obbligo di conservare la documentazione originale, previsto dall’articolo 22 del DPR 600/1973 (e, di rimando, dall’articolo 39 del DPR 633/1972, per l’IVA), è norma speciale rispetto al regime ordinario della prova documentale dettato dal codice civile, che equipara la copia all’originale se non ci sia espressa contestazione sulla conformità (art. 2712 c.c.): in altri termini, le fotocopie di documenti originali, che non risultino smarrite o distrutte per cause non imputabili al contribuente, non hanno lo stesso valore probatorio degli originali, apparendo anzi come una documentazione sospetta, specialmente se non sono allegate valide ragioni che giustifichino la mancata esibizione degli originali.
È il caso di aggiungere che, a maggior ragione, per quanto concerne l’IVA, nella disciplina recata dal summenzionato decreto del 1972, la detraibilità dell’imposta pagata dal contribuente per l’acquisto di beni o servizi inerenti all’esercizio della sua attività (articolo 19 del DPR 633/1972) postula che questi sia in possesso delle relative fatture in originale, che le annoti in apposito registro (articolo 25) e che le conservi come previsto dall’articolo 39 dello stesso decreto (in tal senso, Cass. nn. 21233/2006, 10174/1995 e 13605/2003).
È opportuno pertanto che, in caso di smarrimento della fattura di acquisto in originale, il contribuente non si limiti a richiedere al fornitore la semplice fotocopia via fax, come accade spesso nella prassi commerciale, ma si attivi prontamente per ottenere un nuovo originale del documento o quantomeno una sua copia conforme all’originale, così da evitare possibili contestazioni da parte del Fisco.

IRAP

IRAP

IRAP: il giudice deve giustificare l’assenza di autonoma organizzazione

Secondo la Cassazione, occorre esaminare i fattori sintomatici di autonoma organizzazione

/ Venerdì 29 luglio 2011
Con l’ordinanza n. 16628, depositata il 28 luglio 2011, la Suprema Corte (ri)affronta il tema dell’assoggettamento ad IRAP dei professionisti, questa volta soffermandosi, in particolare, sulle modalità attraverso le quali i giudici di merito devono dimostrare la sussistenza, o meno, del presupposto impositivo.
La fattispecie oggetto di pronuncia concerne il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la sentenza di secondo grado che ha riconosciuto a un professionista, medico pediatra, il diritto al rimborso dell’IRAP con riferimento agli anni dal 1999 al 2001 per l’assenza di un’attività autonomamente organizzata.
Nell’ordinanza, viene preliminarmente ricordato che il riscontro dell’assoggettamento ad IRAP deve avvenire tramite l’esame delle dichiarazioni dei redditi, con specifico riguardo al contenuto del quadro RE del modello UNICO, che specifica la composizione dei costi, riportando, tra gli altri:
- le quote di ammortamento dei beni strumentali (con tipologia ricavabile dai registri contabili tenuti dal contribuente in relazione al regime contabile adottato);
- i canoni di locazione finanziaria e non;
- le spese relative agli immobili;
- le spese per dipendenti e collaboratori;
- i compensi comunque elargiti a terzi;
- gli interessi passivi.
Nello stesso senso, in passato, la Cassazione si era già espressa nelle sentenze 16 febbraio 2007 n. 3675, 23 gennaio 2008 n. 1414 e 19 novembre 2010 n. 23446. In particolare, in quest’ultima, si legge che i dati contabili desumibili dal modello devono essere funzionali alla verifica dell’esistenza di un’attività autonomamente organizzata, atteso che, di per se stessi, non possono determinare l’assoggettamento ad imposta del contribuente.
Di analogo tenore le indicazioni contenute nella circ. Agenzia delle Entrate 13 giugno 2008 n. 45, § 5.5, secondo la quale, oltre al quadro RE, vanno analizzati i modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini degli studi di settore e, in particolare, i quadri relativi:
- al personale addetto all’attività;
- all’unità locale destinata all’esercizio dell’attività;
- ai beni strumentali.
Omesso l’esame della documentazione prodotta dalle parti
Tornando al contenuto dell’ordinanza in commento, secondo i supremi giudici l’impugnata sentenza ha omesso l’esame, sia sotto il profilo qualitativo, sia sotto quello quantitativo, dei fattori sintomatici di autonoma organizzazione (come detto, ammortamenti, compensi a terzi, ecc.), comunque ricavabili dai documenti prodotti dalle parti.
Inoltre, è mancata la rigorosa verifica degli elementi probatori posti a carico del professionista.
Si ricorda, infatti, che, nelle liti di rimborso, l’onere della prova spetta al contribuente. Al riguardo, è forse opportuno rammentare altresì che, pure nel processo tributario, vige il principio di “acquisizione probatoria”. In virtù di ciò, qualora dalla documentazione prodotta dall’ufficio emergano elementi idonei a dimostrare l’insussistenza del presupposto d’imposta, il giudice non può esimersi dal valutarli sulla base della loro provenienza.
Per quanto sopra, la Suprema Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, cassa la sentenza impugnata rinviandola ad altra sezione della Commissione tributaria regionale di Genova affinché proceda ad un nuovo esame sulla base dei principi sopra esposti.

770/2011 semplificato, scadenza al 22 agosto

SOSTITUTI D'IMPOSTA

770/2011 semplificato, scadenza al 22 agosto

Attenzione particolare al monitoraggio delle ritenute sul pignoramento presso terzi e di quelle relative alle agevolazioni sugli immobili

/ Venerdì 29 luglio 2011
Con la circolare n. 18 di ieri, l’Assonime commenta le novità riguardanti il modello 770/2011 semplificato.
I sostituti d’imposta che corrispondono redditi soggetti a ritenuta ex artt. 23, 24, 25, 25-bis e 29 del DPR 600/73 e che sono tenuti al rilascio della certificazione dei sostituti d’imposta di cui ai commi 6-ter e 6-quater dell’art. 4 del DPR 322/98 devono comunicare all’Agenzia delle Entrate i dati fiscali e contributivi contenuti nelle certificazioni, nonché quelli relativi alle operazioni di conguaglio necessari all’attività di liquidazione e controllo da parte dell’Amministrazione.
In relazione ai compensi erogati nel corso del 2010, il termine entro cui operare la trasmissione telematica del modello 770/2011 in argomento da parte dei sostituti d’imposta (originariamente fissata al 1° agosto 2011), scade il 22 agosto prossimo in virtù della proroga disposta dal DPCM 12 maggio 2011.
L’Assonime commenta, in particolare, l’introduzione all’interno del modello del prospetto SY, che si è reso necessario per effetto delle nuove disposizioni, in base alle quali, in caso di pignoramento presso un terzo, quest’ultimo (cioè il terzo erogatore), se è sostituto d’imposta, deve operare, al momento del pagamento, una ritenuta del 20% a titolo di acconto dovuta dal creditore pignoratizio (ossia, colui che vanta un credito nei confronti di un debitore e per il quale ha ottenuto un pignoramento presso terzi).
Il prospetto in esame si compone di tre sezioni: la prima sezione deve essere compilata dal soggetto erogatore delle somme, la seconda dal debitore principale, la terza dalle banche e dalle Poste Italiane SpA.
Con riferimento alla sezione I del prospetto SY, l’Assonime segnala che la casella inserita al punto 5 deve essere barrata qualora la ritenuta non sia stata operata perché il credito vantato dal percipiente è riferibile a somme o valori non assoggettabili a ritenute alla fonte ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo III del DPR 600/73, nell’art. 11 commi 5, 6 e 7 della L. 413/91, nonché nell’art. 33 comma 4 del DPR 42/88.
Come precisato dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 8 del 2 marzo 2011, infatti, il prelievo alla fonte non deve essere effettuato se la somma non rientra fra quelle assoggettabili a ritenuta in base alle apposite disposizioni. Il summenzionato pronunciamento di prassi ha anche chiarito che la ritenuta non deve essere altresì operata se le somme sono erogate a titolo di risarcimento di un danno emergente, che abbia, cioè, provocato una lesione effettiva e immediata al patrimonio del creditore pignoratizio ai sensi dell’art. 6 comma 2 del TUIR.
Nella sezione III ristrutturazioni e risparmio energetico
La sezione III del prospetto SY deve essere compilata da Poste Italiane SpA e dagli istituti di credito per evidenziare la ritenuta d’acconto del 10% (ora ridotta al 4% dal DL 98/2011) operata sui pagamenti relativi a bonifici disposti dai contribuenti per beneficiare di oneri deducibili o per i quali spetta la detrazione di imposta. Assonime osserva che il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, con provvedimento n. 94288 del 30 giugno 2010, ha chiarito la disposizione riguarda esclusivamente i bonifici aventi ad oggetto gli interventi di ristrutturazione edilizia e di risparmio energetico.

accertamento

accertamento

Accesso in locali a uso promiscuo: nullo l’accertamento se non autorizza il PM

Per la Cassazione, necessaria l’autorizzazione anche quando locale per l’attività lavorativa e abitazione sono comunicanti

/ Venerdì 29 luglio 2011
È necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica per accedere sia nei locali del contribuente ad uso promiscuo che per quelli ad utilizzo esclusivamente abitativo, ma nel primo caso non è richiesto alcun ulteriore requisito per il rilascio del provvedimento autorizzatorio, mentre nella seconda ipotesi occorre che esistano gravi indizi di violazioni tributarie; per entrambe le fattispecie, però, la mancanza dell’autorizzazione comporta inevitabilmente l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite e, quindi, la nullità degli atti impositivi che si di esse si fondano. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 16570 di ieri, 28 luglio 2011.
L’art. 52 del DPR 633/1972 reca la disciplina del potere di accesso dell’Amministrazione finanziaria. In particolare, dall’esame di tale articolo di legge, è possibile individuare schematicamente tre diverse tipologie di accesso in funzione dei luoghi da controllare:
- locali destinati esclusivamente ad attività lavorative del contribuente (commerciali, professionali, agricole o artistiche): in tale ipotesi, è necessaria soltanto un’apposita autorizzazione rilasciata dal Capo Ufficio o dal Comandante del Reparto da cui i funzionari o i militari procedenti dipendono;
- locali utilizzati ad “uso promiscuo”, cioè per l’attività lavorativa del contribuente e contestualmente come sua abitazione: in tal caso, la norma richiede, oltre all’autorizzazione scritta di cui al precedente punto, anche il preventivo rilascio di un’autorizzazione del Procuratore della Repubblica;
- i cosiddetti “locali diversi”: si tratta di una sorta di categoria residuale, riferendosi la norma, appunto, a “…locali diversi da quelli indicati al precedente comma…”, che ricomprende i locali adibiti esclusivamente ad abitazione del soggetto controllato o di terzi, nonché gli altri locali privati del contribuente verificato o di terzi (garage, box, cantine, ecc.); per effettuare gli accessi, la legge richiede l’esistenza di “gravi indizi” di violazione delle norme tributarie e della preventiva autorizzazione rilasciata dal PM.
Ad eccezione, quindi, dell’accesso presso i locali adibiti esclusivamente all’esercizio dell’attività lavorativa del contribuente, nelle altre ipotesi, invece, è sempre necessaria l’autorizzazione del PM. È proprio questo il primo aspetto rilevante della sentenza in commento, che conferma la necessità del predetto provvedimento autorizzatorio, ma precisa altresì che per i locali ad uso promiscuo esso è sostanzialmente un atto dovuto del PM, mentre per i locali adibiti esclusivamente ad abitazione o “locali diversi”, intesi nell’accezione sopra illustrata, occorrono i gravi indizi di evasione prodromici al rilascio dell’autorizzazione.
Nel caso di specie, la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito avevano già accertato in fatto, attraverso l’esame delle planimetrie e dei certificati anagrafici prodotti dal contribuente, che l’opificio presso cui era stato effettuato l’accesso da parte dei militari della GdF era invero destinato a sede dell’impresa ma anche ad abitazione del contribuente, in locali tra di loro comunicanti. Per tale ragione, quindi, l’autorizzazione del PM risultava indispensabile, ancorché non fossero necessari al suo rilascio i gravi indizi di evasione, trattandosi, appunto, di locali ad uso promiscuo (cfr. Cass. 2444/2007, 10664/1998).
A tal ultimo proposito, i Supremi Giudici hanno precisato che la destinazione promiscua non sussiste soltanto quando i medesimi ambienti siano utilizzati contestualmente per la vita familiare e per l’attività lavorativa, come erroneamente affermato dall’Agenzia delle Entrate in sede di ricorso per Cassazione, ma ogni qual volta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi.
Autorizzazione per tutelare l’inviolabilità del domicilio privato
In conclusione, i Giudici del Palazzaccio hanno stabilito che l’autorizzazione del PM è diretta a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato e, pertanto, “rileva alla stregua di condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle relative conseguenti acquisizioni”. La mancanza di tale provvedimento autorizzatorio comporta – secondo gli Ermellini – l’inutilizzabilità della documentazione irritualmente acquisita: tale principio, infatti, trova applicazione anche in ambito tributario, in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’articolo 24 della Costituzione. (cfr. Cass. 8181/2007, 19689/2004).
Viene in tal modo riconfermato un filone giurisprudenziale di legittimità ormai ampiamente consolidato, a cui appartiene anche la recente sentenza, con la quale la Cassazione ha stabilito che è necessaria l’autorizzazione del PM anche per l’accesso presso la casa/studio di un commercialista ed, in mancanza di tale provvedimento, l’accertamento risulta nullo se fondato sulla sola documentazione ivi reperita (Cass. 6908/2011).
/ Alessandro BORGOGLIO

mercoledì 27 luglio 2011

Reverse charge se il cessionario è identificato in Italia

iva

Reverse charge se il cessionario è identificato in Italia

L’indicazione contenuta nella ris. 36/2011 dell’Agenzia, che va estesa all’ipotesi in cui il cedente non sia residente, supera la circ. 11/2007

/ Martedì 26 luglio 2011
La territorialità IVA delle cessioni di beni non ha subìto modifiche ad opera del DLgs. n. 18/2010, di recepimento della Direttiva n. 2008/8/CE. Anche successivamente al 1° gennaio 2010, se la cessione ha per oggetto beni mobili, si considera come luogo impositivo quello in cui i beni esistono (art. 7-bis, comma 1 del DPR n. 633/1972). Tale regola generale si riferisce agli artt. 31 e 32 della Direttiva n. 2006/112/CE, ove vengono disciplinate, rispettivamente, le cessioni senza e con trasporto a destinazione del cessionario. Se i beni non sono spediti o trasportati, il luogo della cessione è quello dove il bene si trova al momento della cessione (art. 31); se, invece, il bene è spedito o trasportato, dal cedente o dal cessionario, ovvero da un terzo, il luogo della cessione è quello in cui il bene si trova al momento iniziale della spedizione o del trasporto (art. 32).
Il richiamato criterio di collegamento con il territorio dello Stato deve essere correlato all’obbligo di reverse charge ogni qual volta il cedente non sia residente. L’art. 17, secondo comma del DPR n. 633/1972, infatti, in linea con la facoltà prevista dall’art. 194 della Direttiva n. 2006/112/CE, prevede la traslazione obbligatoria dell’obbligo d’imposta in capo al cessionario, purché sia un soggetto passivo stabilito in Italia, cioè – di regola – con sede dell’attività economica nel territorio (art. 7, comma 1, lett. d) del DPR n. 633/1972), salvo il caso in cui la cessione sia effettuata per il tramite di una stabile organizzazione in Italia del cedente non residente (art. 17, quarto comma del DPR n. 633/1972).
Nell’ipotesi in cui il cedente e il cessionario non siano residenti, è lecito domandarsi quale sia l’operatore tenuto ad assolvere l’imposta in Italia relativa alla cessione che soddisfi il presupposto territoriale di cui al citato art. 7-bis. Ebbene, il reverse charge non è applicabile siccome il cessionario non è stabilito in Italia; di conseguenza, gli obblighi IVA vanno adempiuti dal cedente, previa identificazione nel territorio dello Stato nella forma diretta (ex art. 35-ter del DPR n. 633/1972, se si tratta di operatore comunitario) o indiretta, cioè per mezzo di un proprio rappresentante fiscale. Risulta così ripristinata la regola generale, di cui all’art. 17, primo comma , del D.P.R. n. 633/1972 (corrispondente all’art. 193 della Direttiva n. 2006/112/CE), secondo la quale l’imposta è dovuta dal soggetto passivo che effettua la cessione.
La soluzione esposta si applica anche nel caso in cui il cessionario, stabilito all’estero, sia già identificato ai fini IVA in Italia (cfr., da ultimo, la circolare n. 28/2011, § 1.3 e 1.4), in quanto è il luogo di stabilimento – che coincide, come detto, con il territorio in cui l’operatore ha fissato la sede dell’attività – a determinare l’applicazione del regime di reverse charge; per contro, il luogo di identificazione, ossia quello in cui l’operatore non residente ha acceso una posizione IVA, è unicamente preordinato a consentire al Fisco di avere un interlocutore nazionale quando il soggetto passivo è stabilito all’estero (Corte di Giustizia, causa C-1/08, Athesia Druck).
La disciplina del reverse charge c.d. “esterno”, cioè con cedente estero e cessionario italiano, di cui sopra, va coordinata con la disciplina del reverse charge c.d. “interno”, applicabile nei casi di cui all’art. 17, quinto e sesto comma del DPR n. 633/1972. Può, infatti, accadere che il bene oggetto di cessione interna rientri in quest’ultimo regime, con la conseguente traslazione dell’obbligo impositivo in capo al cessionario.
Nell’ipotesi in cui il cedente e il cessionario siano entrambi non residenti, il dubbio da chiarire è quale sia il soggetto tenuto ad assolvere l’IVA; in definitiva, si tratta di stabilire se il debitore d’imposta resti il cedente – in applicazione del principio generale di cui all’art. 17, primo comma del DPR n. 633/1972 – oppure diventi il destinatario della cessione, nel presupposto che l’operazione sia oggettivamente attratta nel sistema del reverse charge interno.
Quest’ultima conclusione è stata avallata dall’Agenzia delle Entrate in riferimento al regime di inversione contabile per i subappalti edili. Nella circolare n. 11/2007 (§ 5.1), è stato infatti precisato che, nel caso in cui appaltatore e subappaltatore siano entrambi soggetti esteri, non stabiliti in Italia, soltanto l’appaltatore, in quanto debitore d’imposta ai sensi dell’art. 17, sesto comma, lett. a) del DPR n. 633/1972, è tenuto ad identificarsi in Italia.
L’indicazione della ris. 36/2011 è conforme all’art. 17 del DPR 633/72
Tale interpretazione pare, tuttavia, smentita dalla più recente risoluzione n. 36/2011 (§ C), avente per oggetto le cessioni di telefonini e di dispositivi a circuito integrato, soggette ad inversione contabile a seguito della decisione del Consiglio UE n. 2010/710/UE. Secondo l’Agenzia, il destinatario della cessione, ancorché non residente, ma identificato in Italia, è obbligato all’assolvimento dell’IVA in luogo del cedente. Si tratta di un’indicazione conforme alla lettera dell’art. 17, quinto comma del DPR n. 633/1972, nella parte in cui dispone che il reverse charge interno si applica alle operazioni aventi come destinatario un “soggetto passivo d’imposta nel territorio dello Stato”. Non è quindi richiesto che il cessionario sia stabilito in Italia – come nell’ipotesi del reverse charge esterno – essendo sufficiente che il destinatario, benché non residente, sia identificato in Italia.
Tale ultima posizione dell’Agenzia appare in linea con quanto già chiarito con la circolare n. 28 del 21 giugno 2004 (§ 12.3) in sede di commento al regime di reverse charge alle cessioni di rottami ferrosi e non, laddove si afferma che il regime non si applica per le cessioni a privati e a coloro che non sono soggetti passivi di imposta nazionali. In altri termini, si lascia intendere che non vi sia obbligatorietà di applicazione del regime nell’ipotesi in cui il cessionario non sia identificato ai fini IVA in Italia.
La precisazione fornita dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione 36/2011, benché riferita al caso in cui il cedente sia residente, dovrebbe applicarsi anche se il cedente non è residente. Come, infatti, indicato dalla circolare n. 11/2007, il luogo di stabilimento del cedente è irrilevante. Andrebbe, invece, definitivamente chiarito se il reverse charge si applichi qualora il cessionario non residente sia privo di identificazione in Italia. La soluzione affermativa, riconosciuta dalla circolare n. 11 del 2007, si pone infatti in contrasto con lo status a quest’ultimo richiesto dall’art. 17, quinto comma del DPR n. 633/1972, così come interpretato dalla risoluzione n. 36 del 2011. In tale ipotesi, sembrerebbe pertanto più corretto escludere l’applicazione del reverse charge, di modo che ad identificarsi sia obbligato non già il cessionario, bensì il cedente, con il conseguente addebito in fattura dell’imposta.

Immobili professionali, plusvalenza slegata dal riscatto

reddito d'impresa

Immobili professionali, plusvalenza slegata dal riscatto

Rileva il regime vigente alla data di stipulazione del contratto di leasing, e non a quella di esercizio dell’opzione per l’acquisto

/ Martedì 26 luglio 2011
La cessione del fabbricato utilizzato nell’esercizio di arti e professioni, la cui proprietà sia stata ottenuta a conclusione di un contratto di locazione finanziaria a seguito del riscatto del bene, pone frequenti dubbi in merito all’eventuale emersione di una plusvalenza imponibile.
Le principali criticità sorgono nelle situazioni in cui vi sia difformità tra il regime fiscale vigente all’epoca della stipulazione dell’atto di leasing e quello applicabile al momento dell’esercizio dell’opzione dell’acquisto. Si pensi, ad esempio, al caso dell’immobile ottenuto in locazione finanziaria, mediante un contratto stipulato dal 15 giugno 1990 al 31 dicembre 2006, periodo in cui era prevista l’integrale indeducibilità dei canoni, poi riscattato nel triennio 1° gennaio 2007 - 31 dicembre 2009, quando, invece, operava un sistema di rilevanza fiscale dei costi relativi ai fabbricati impiegati dai professionisti, e delle corrispondenti plus/minusvalenze da alienazione (art. 54, comma 2, del TUIR).
In tale contesto, e considerato che dal 1° gennaio 2011 è tornato efficace il previgente regime di indeducibilità (art. 1, commi 334-335, della L. n. 296/2006), il professionista si pone un primo, fondamentale, interrogativo: la plusvalenza contabile che dovesse emergere, in occasione di una futura cessione del bene, a quale disciplina sarebbe soggetta? Rileva il periodo dell’effettivo esercizio del diritto di riscatto, oppure quello di originaria stipulazione dell’atto di leasing? Quest’ultima soluzione appare quella preferibile, per una serie di motivazioni, coerenti con la normativa e la prassi di riferimento.
In primo luogo, il predetto art. 1, comma 335, della L. n. 296/2006 pone sullo stesso piano la data di acquisto dell’immobile e quella di sottoscrizione del contratto di locazione finanziaria, quali forme equivalenti di ottenimento della disponibilità del bene, sostanzialmente distinte dalla modalità di pagamento del corrispettivo dell’investimento. Analogamente, l’Agenzia delle Entrate sostiene che, in sede di individuazione del trattamento fiscale da riservare ai beni acquisiti tramite leasing, si debba attribuire rilevanza all’originaria stipulazione del contratto di locazione finanziaria (risoluzione n. 13/2010).
Il medesimo principio è stato, inoltre, ribadito dal Consiglio Nazionale del Notariato, nel recente documento di Studio Tributario n. 64-2011/T, seppure con riferimento a un’operazione temporalmente differente. In tale occasione, è stato chiarito che “se il riscatto, che determina l’effettivo trasferimento del bene, è avvenuto oltre il triennio 2007-2009, ma il contratto è stato stipulato all’interno di tale periodo, l’eventuale trasferimento successivo è idoneo a determinare una plusvalenza tassabile o una minusvalenza deducibile”. Analogamente, nel caso di un atto di locazione finanziaria stipulato tra il 15 giugno 1990 e il 31 dicembre 2006, quando i canoni di leasing non erano fiscalmente rilevanti, il riscatto nel triennio 1 ° gennaio 2007 - 31 dicembre 2009 non determina – nell’eventualità di una successiva cessione dell’immobile – il realizzo di una plusvalenza imponibile.
Tale posizione appare, inoltre, confortata da alcune considerazioni sviluppate nella circolare n. 19/IR/2010 dell’Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili:
- nella disciplina del reddito d’impresa, la rilevanza fiscale delle plusvalenze e minusvalenze relative agli immobili strumentali trova sempre contropartita nel riconoscimento fiscale delle quote di ammortamento del corrispondente costo di acquisto e, quindi, anche nella deducibilità dei canoni di locazione finanziaria;
- un regime giuridico che impedisca la deduzione delle quote di ammortamento o dei canoni di leasing di un bene strumentale e, nel contempo, attribuisca rilevanza fiscale alle plus/minusvalenze al momento della dismissione dello stesso risulterebbe del tutto “anomalo” e incoerente sotto il profilo sistematico;
- il riconoscimento tributario delle plusvalenze e minusvalenze relative agli immobili strumentali presuppone, infatti, che siano ammesse in deduzione le quote di ammortamento del relativo costo, o i canoni di leasing, in modo da garantire congiuntamente i principi di tutela dell’affidamento dei contribuenti e di certezza dei rapporti giuridici, nonché le esigenze di coerenza interna del sistema di determinazione del reddito di lavoro autonomo.
Con l’effetto che la cessione di un immobile strumentale originariamente acquisito in leasing, in un’epoca in cui vigeva un regime di irrilevanza fiscale, non è suscettibile di comportare l’emersione di una plusvalenza imponibile, a prescindere dalla circostanza che il riscatto fosse avvenuto in un periodo in cui operava una nuova disciplina di riconoscimento tributario, e viceversa.

Raddoppio dei termini anche per gli anni già decaduti

Accertamento

Raddoppio dei termini anche per gli anni già decaduti

È arrivata l’attesa sentenza della Consulta sul raddoppio dei termini per l’accertamento in presenza di reati tributari

/ Martedì 26 luglio 2011
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 247 depositata ieri, si è pronunciata in riferimento all’ambito applicativo del raddoppio dei termini per violazioni penali, introdotto dal DL 223/2006 che, come noto, ha modificato gli artt. 43 del DPR 600/73 e 57 del DPR 633/72.
Le norme menzionate stabiliscono che gli ordinari termini per l’accertamento delle imposte sono raddoppiati nei casi in cui sussiste l’obbligo di denuncia per uno dei reati previsti dal DLgs. 74/2000. Quindi, ad esempio, in caso di dichiarazione infedele o fraudolenta, l’accertamento può essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o, in caso di omessa dichiarazione, del decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
Il problema principale sollevato dal giudice a quo (si veda “Alla Consulta il raddoppio dei termini di accertamento per le violazioni penali” del 1° ottobre 2010) concerne la possibilità che il suddetto raddoppio si verifichi anche qualora il fumus di reato emerga in un momento in cui i termini “brevi” siano già decaduti.
In altri termini, per il giudice rimettente sarebbe incostituzionale che si applichi il raddoppio ove, a luglio 2011, emergano profili penali in merito al periodo d’imposta 2005 (l’anno 2005 è scaduto il 31 dicembre 2010), siccome la norma dovrebbe essere applicata solo per i periodi d’imposta “aperti”, nel nostro esempio, a luglio 2011, quindi dall’anno 2006 in poi (l’esercizio 2006, ordinariamente, decade il 31 dicembre 2011, ed è ancora “aperto” a luglio di quest’anno).
La Consulta, con le dovute cautele e con una sentenza che, condivisibile o meno, si presenta ben motivata, dà al quesito risposta affermativa, sostenendo, in poche parole, che il DL 223/2006 non ha raddoppiato i termini ordinari, ma ha previsto una diversa forma di termine, la cui “lunghezza” dipende dalla sussistenza di un fatto obiettivo: l’obbligo di presentazione della denuncia penale a carico del pubblico ufficiale.
Ai fini del raddoppio, quindi, ha rilievo l’obbligo di invio della notizia di reato, non la sua effettiva presentazione, così come è irrilevante l’esito del processo penale.
L’ulteriore conseguenza è che le scritture contabili devono essere conservate non entro il termine quadriennale, ma entro il più ampio termine di otto o di dieci anni, perché l’art. 22 del DPR 600/73 lega l’obbligo di conservazione al termine per l’accertamento, non solo al termine “breve”.
Il giudice tributario deve vagliare la serietà della denuncia penale
I diritti del contribuente sono garantiti, secondo l’impostazione della Consulta, dal fatto che l’obbligo di denunzia sussiste solo in presenza di seri indizi di reato e, soprattutto, dalla circostanza che ciò è sottoposto a vaglio giudiziale ad opera della Commissione tributaria.
Sul primo aspetto, la Consulta afferma, richiamando la giurisprudenza penale, che, se l’obbligo di denuncia sussiste anche in presenza di cause di estinzione del reato (es. prescrizione), occorre sempre che “il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare”, escludendo ogni profilo di discrezionalità in capo al funzionario.
In merito al vaglio della Commissione tributaria, i giudici costituzionali accolgono solo a metà l’indirizzo della giurisprudenza formatosi prima della sentenza in commento: infatti, analizzando le sentenze pronunciatesi sul tema, emerge che al giudice dovrebbe essere demandato il compito di sindacare l’esistenza del reato fiscale (si veda “Solo i reati «accertati» dalla Commissione cagionano la proroga” del 26 ottobre 2010), mentre la Corte Costituzionale afferma espressamente che il sindacato della Commissione deve riguardare la sussistenza dei presupposti di applicabilità della proroga, quindi la sola presenza di un obbligo di denuncia (il tema di prova “è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato”), ovvero la serietà del fumus di reato.

Immobile in leasing: elusiva la «sublocazione» allo studio associato

Reddito di lavoro autonomo

Immobile in leasing: elusiva la «sublocazione» allo studio associato

Secondo la C.T. Prov. Reggio Emilia, sarebbe violato il principio di solidarietà, con un’indebita riduzione del gettito fiscale

/ Mercoledì 27 luglio 2011
Una sentenza che farà discutere quella della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia (n. 283/01/11) che si è pronunciata sulla legittimità, o meno, della deduzione, ai fini della determinazione della base imponibile IRAP (e del reddito professionale ai fini IRPEF), dei canoni di locazione pagati da uno studio associato a fronte dell’acquisizione di un immobile strumentale nell’ambito di un’operazione economica attuata in presunto regime di abuso del diritto.
Nel dettaglio, la fattispecie oggetto di pronuncia trae origine da un avviso di accertamento relativo al periodo d’imposta 2004 ed è la seguente:
- una srl immobiliare, i cui tre soci sono gli stessi associati dello studio professionale, stipula, nel 2000, un contratto di leasing immobiliare, con la facoltà di cedere in sublocazione il bene oggetto del contratto;
- lo studio associato acquisisce l’immobile in locazione ad uso esclusivamente strumentale;
- la srl non detiene alcun bene materiale, non ha mai conseguito utili e ha sempre registrato perdite ripianate con finanziamenti infruttiferi concessi dai soci stessi;
- i ricavi conseguiti dalla srl derivano esclusivamente dalla sublocazione dell’immobile, senza che siano poste in essere altre operazioni immobiliari.
Secondo l’Ufficio, l’operazione – così come prospettata – si rivela elusiva, in quanto la srl appare costituita al solo fine di cedere in locazione l’immobile allo studio associato. Perché l’operazione risulti fiscalmente inoppugnabile, tale società dovrebbe:
- disporre di una propria struttura organizzativa;
- possedere una compagine sociale diversa da quella dello studio associato;
- esercitare “realmente” l’attività immobiliare, ponendo quindi in essere con continuità una molteplicità di operazioni immobiliari con più soggetti.
Dal canto suo, lo studio associato può dedurre i canoni di locazione sia ai fini IRAP che ai fini IRPEF. Viceversa, qualora avesse provveduto direttamente all’acquisizione dell’immobile in leasing, esso non avrebbe mai potuto procedere alla deduzione, in base alla legge pro tempore vigente.
Si ricorda, infatti, che i canoni di leasing degli immobili strumentali del professionista sono deducibili, alle condizioni dettate dall’art. 54, comma 2 del TUIR, soltanto se relativi a contratti stipulati dal 1° gennaio 2007 al 31 dicembre 2009. Inoltre, per i periodi d’imposta 2007, 2008 e 2009, gli importi (massimi) deducibili erano ridotti a un terzo.
Per i contratti di leasing stipulati dal 1° gennaio 2010, la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 2 marzo 2010 n. 13 ha precisato che, stante il tenore letterale del citato art. 54, comma 2 del TUIR, sono indeducibili tanto i canoni, quanto la rendita catastale.
Per quanto sopra, ad avviso dell’Ufficio, l’avvenuta deduzione dei canoni di locazione, da parte dello studio associato, deve essere disconosciuta.
La Commissione respinge il ricorso del contribuente (dando quindi ragione all’Amministrazione finanziaria), osservando, in via preliminare, che l’abuso del diritto che si configurerebbe nell’ipotesi in esame è una violazione che “nulla ha a che fare” con l’art. 37-bis del DPR 600/73. Infatti, l’abuso del diritto consiste, di regola, “nel ledere le norme sull’affidamento, sulla buona fede e ponendo in essere negozi giuridici privi di valide ragioni economiche al solo scopo di trarne illecito vantaggio fiscale”.
Nel caso di specie, secondo i giudici, non appaiono evidenti né vantaggi fiscali particolari, né valide ragioni economiche, bensì motivi di natura personale.
In tale ottica, bisogna considerare che l’ordinamento fiscale non intende premiare scelte imprenditoriali che non siano determinate da valutazioni di economia sostanziale. Infatti, nessun limite è posto alla realizzazione di qualsiasi valida iniziativa economica, salvo quello previsto dall’art. 41, comma 2 della Costituzione, vale a dire che l’iniziativa stessa non deve essere in contrasto con l’utilità sociale.
Viceversa, un’operazione economica realizzata al solo fine di ottenere un vantaggio personale contrasta con l’utilità sociale:
- ledendo il principio di solidarietà;
- determinando un’indebita riduzione del gettito fiscale.
Alla luce delle considerazioni sopra formulate, i giudici emiliani concordano “sulla linea dell’Ufficio anche se non può negarsi sia una contestazione limite, visti gli atti e ponderato il vantaggio economico e la sua legittimità”.
Pertanto, essi respingono il ricorso del contribuente, rilevando che, in caso di acquisizione “diretta” dell’immobile strumentale tramite contratto di leasing, lo studio associato non avrebbe in ogni caso potuto dedurre i relativi canoni.
Tanto l’accertamento quanto la sentenza appaiono discutibili sotto diversi profili, al punto che risulta quanto mai urgente un intervento legislativo diretto a disciplinare l’istituto dell’abuso del diritto.
In primo luogo, occorre osservare che il ricorso a società immobiliari risulta alquanto frequente nel comparto industriale, con specifico riferimento ai gruppi. In tale circostanza, non constano interventi diretti ad affermare che la compagine della società immobiliare deve essere diversa rispetto a quella delle società operative che prendono in locazione i fabbricati strumentali.
È vero che, nel caso di specie, il canone di locazione finanziaria non sarebbe stato deducibile in capo allo studio associato, mentre invece lo è in capo alla società immobiliare.
È altrettanto vero, però, che l’immobile in questione, una volta riscattato, darebbe luogo ad una cessione plusvalente nel caso in cui a cedere fosse la società, mentre nessuna rilevanza fiscale dovrebbe avere la cessione effettuata dallo studio professionale.
Non appare pertanto corretto affermare che, così operando, si è determinata un’indebita riduzione fiscale. A ben vedere, si è scelto un modello che ha una piena dignità sul piano economico (si pensi alla possibilità di trasferire le quote della srl) e che sul piano fiscale compensa la deducibilità dei canoni con la tassazione della plusvalenza in caso di cessione del bene.
Resta da chiedersi se, laddove la tesi dell’Amministrazione venga confermata anche nei successivi gradi di giudizio, la cessione dell’immobile strumentale da parte della srl verrà considerata esente.

Fiscalità internazionale - «black list»

Fiscalità internazionale

Panama e Costa Rica fuori dalla «black list» OCSE

L’organizzazione di Parigi ha svolto il consueto punto della situazione sull’adozione di corretti standard di scambio di informazioni tra Stati
/ Mercoledì 27 luglio 2011
L’OCSE ha reso noto lo scorso 6 luglio 2011 lo stato di avanzamento sull’adozione di standard internazionali di trasparenza in materia fiscale e finanziaria.
A fornire lo spunto per l’aggiornamento del programma è stato l’esame delle azioni intraprese da due Stati centramericani (Costa Rica e Panama) storicamente non “collaborativi”.
Per quanto riguarda la Costa Rica, il comunicato dell’organizzazione di Parigi del 4 luglio ha annunciato il raggiungimento dell’obiettivo minimo di 12 Trattati bilaterali per lo scambio di informazioni, per effetto di appositi accordi con l’Australia e alcuni Stati del Nord Europa.
Costa Rica e Panama storicamente non “collaborativi”
Più articolato è stato, invece, il cammino di Panama, in considerazione della situazione di partenza. Come riconosciuto in data 6 luglio dallo stesso Segretario Generale dell’OCSE, Angel Gurria, la repubblica panamense, nonostante gli sforzi compiuti nel modificare la legislazione interna in materia, non ha superato la prima fase della “peer review” prevista per valutare la conformità delle norme dei singoli Stati agli obiettivi previsti per lo scambio di informazioni ai fini fiscali (si veda “Ocse, parte il monitoraggio delle legislazioni mondiali sullo scambio di informazioni” del 20 marzo 2010).
È stata, quindi, rinviata la “fase 2”, relativa alla corretta implementazione delle misure, sino a che la prima fase non si sia conclusa con esito positivo.
Con il raggiungimento del numero minimo di 12 Trattati bilaterali, ad ogni modo, Panama è uscito dalla “black list” OCSE.
Di seguito, il Report sui progressi degli Stati o territori monitorati dal Global Forum OCSE sull’adozione di standard internazionali di trasparenza al 6 luglio 2011 (fonte: OCSE).
Tabella 1
Stati o territori che hanno sostanzialmente raggiunto gli standard internazionali di trasparenza
AndorraCuraçaoJerseySaint Vincent and Grenadines
AnguillaCiproCoreaSamoa
Antigua e BarbudaRepubblica CecaLiberiaSan Marino
ArgentinaDanimarcaLiechtensteinSeychelles
ArubaDominicaLussemburgoSingapore
AustraliaEstoniaMalaysiaSint Maarten
AustriaFinlandiaMaltaRepubblica Slovacca
BahamasFranciaIsole MarshallSlovenia
BahrainGermaniaMauritiusSudafrica
BarbadosGibilterraMessicoSpagna
BelgioGreciaMonacoSvezia
BelizeGrenadaOlandaSvizzera
BermudaGuernseyNuova ZelandaTurchia
BrasileUngheriaNorvegiaIsole Turks e Caicos
Isole Vergini BritannicheIslandaPanamaEmirati Arabi
BruneiIndiaFilippineRegno Unito
CanadaIndonesiaPoloniaStati Uniti
Isole CaymanIrlandaPortogalloIsole Vergini Statunitensi
CileIsola di ManQatarVanuatu
Cina (escluse le Zone speciali)IsraeleFederazione Russa
Isole CookItaliaSaint Kitts and Nevis
Costa RicaGiapponeSaint Lucia

Tabella 2 - Stati o territori che si sono impegnati a raggiungere gli standard internazionali di trasparenza
Stato/territorioAnno di impegnoNumero di trattatiStato/territorioAnno di impegnoNumero di trattati
Paradisi fiscali
Montserrat2002(11)Niue2002(0)
Nauru2003(0)


Altri centri finanziari
Guatemala2009(0)Uruguay2009(9)

Omessa fatturazione: per l’AIDC Milano, sanzioni incompatibili col diritto UE

iva

Omessa fatturazione: per l’AIDC Milano, sanzioni incompatibili col diritto UE

La Commissione istituita presso l’AIDC segnala la violazione dei principi di proporzionalità, equivalenza ed effettività

/ Mercoledì 27 luglio 2011
Secondo l’AIDC di Milano, le norme nazionali che prevedono l’applicazione della sanzione “piena”, dal 100% al 200%, dell’imposta non applicata (art. 6, comma 1, del DLgs. 471/97), in caso di omessa autofatturazione delle operazioni poste in essere da soggetti non residenti, e rilevanti territorialmente ai fini IVA in Italia, non sono compatibili con i principi comunitari. È quanto emerge dalla lettura del documento del 12 maggio scorso, elaborato dalla Commissione, istituita presso l’AIDC (sezione di Milano) per l’esame della compatibilità comunitaria di leggi e prassi fiscale italiane.
Per inquadrare al meglio la questione, è necessario ricordare che dopo la sentenza della Corte di Giustizia Ue relativa al caso Ecotrade (causa C-95/07), che ha ribadito il principio di neutralità dell’imposta e l’assenza di danno erariale in mancanza di autofatturazione, ha dovuto abbandonare la strada in precedenza intrapresa, secondo cui ferma restando la debenza dell’imposta a debito non applicata, negava il diritto alla detrazione. Con la risoluzione n. 56 del 6 marzo 2009, l’Agenzia delle Entrate ha confermato il riconoscimento del citato diritto alla detrazione, ribadendo nel contempo l’applicabilità della sanzione dal 100% al 200% dell’imposta non applicata, e negando la riduzione della sanzione al 3%, prevista dall’art. 6, comma 9-bis, del DLgs. 471/97 (con decorrenza dal 2008), in quanto tale disposizione richiede che l’imposta sia stata comunque irregolarmente versata. Tale ipotesi, di fatto, si può realizzare nel caso di autofatturazione “interna” (ad esempio, nel reverse charge del settore edile), e non anche nella fattispecie in questione (autofatturazione “esterna”), in quanto l’applicazione del tributo non può che avvenire da parte del cessionario/committente residente.
La Commissione in seno all’AIDC denuncia la violazione di alcuni principi previsti in ambito comunitario. In primis, traendo spunto dalla citata sentenza Ecotrade, emerge che le sanzioni devono essere irrogate in base al principio della proporzionalità, che richiede la commisurazione delle sanzioni stesse al danno erariale, che nel caso di specie di regola non sussiste (fatto salvo il caso in cui il cessionario/committente obbligato al reverse charge non abbia limitazioni al diritto alla detrazione dell’IVA, come ad esempio accade per coloro che effettuano operazioni esenti e sono quindi soggetti al pro rata di detrazione limitato).
In secondo luogo, gli esperti dell’AIDC denunciano la violazione del principio di equivalenza, in quanto la citata disposizione di cui all’art. 6, comma 9-bis, del DLgs. 471/97, che prevede la riduzione della sanzione al 3% in caso di assolvimento dell’imposta, sia pure in modo irregolare, si rende applicabile, come già accennato, solamente alle violazioni commesse nelle operazioni “interne” (ad esempio, subappalto nel settore edile), e non anche in quelle “esterne”, nelle quali il fornitore estero non può addebitare l’imposta.
In terzo luogo, si denuncia la violazione del principio di effettività, secondo cui non si può rendere eccessivamente difficile, se non impossibile, l’esercizio dei diritti previsti dall’ordinamento giuridico, in quanto l’operatore nazionale che intenda esercitare il diritto alla detrazione è comunque soggetto alla sanzione dal 100% al 200% dell’imposta, con conseguente aggravamento delle condizioni per l’esercizio del citato diritto alla detrazione.
Se lo Stato UE non si conforma, si può adire la Corte di Giustizia
In base alle motivazioni esposte, la Commissione dell’AIDC ritiene che vi siano tutti i presupposti per attivare il procedimento previsto dall’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, secondo cui “la commissione, quando reputi che uno stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo stato in condizioni di presentare le sue osservazioni. Qualora lo stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla commissione, questa può adire la Corte di Giustiza dell’Unione europea”. Vedremo, si spera a breve, l’esito della denuncia.

Contributo unificato da chiarire nei ricorsi contro fermi e ipoteche

ilcasodelgiorno

Contributo unificato da chiarire nei ricorsi contro fermi e ipoteche

Si potrebbe fare riferimento al credito tutelato dall’ipoteca o dal fermo a titolo di imposta, non di sanzioni

/ Mercoledì 27 luglio 2011
In un precedente intervento si era palesata l’ambigua confezione normativa del Legislatore in tema di determinazione del valore per il contributo unificato, visto che l’art. 14 del DPR 115/2002 contiene un esclusivo riferimento all’art. 12 del DLgs. 546/1992, norma che mal si adatta a varie fattispecie che possono verificarsi nel nostro processo, che, meglio sempre rammentarlo, è un processo di impugnazione (si veda “Rebus contributo unificato nel giudizio di appello” del 20 luglio 2011).
Se in taluni casi la determinazione del contributo unificato è impossibile (ad esempio, impugnazione contro il provvedimento di cancellazione di una ONLUS dall’apposita anagrafe, ricorso contro una risposta resa a seguito di interpello, ricorso contro il provvedimento di revoca della partita IVA), in altre ipotesi è possibile, ravvisando magari la necessità di “concordare” eventuali modalità di computo del contributo con le segreterie prima di eseguire i pagamenti, specie in questa defatigante fase transitoria, giungere alla soluzione mediante operazioni interpretative.
Per esempio, nel caso del giudizio di ottemperanza, si potrebbe fare riferimento, nelle liti di rimborso, alle somme che il contribuente chiede in restituzione a titolo di imposta, stessa cosa nel caso di ottemperanza instaurata in quanto l’ente non ha restituito le somme versate per effetto della riscossione frazionata, sempre facendo riferimento alla sola imposta, al netto di sanzioni e interessi.
Si pensi, poi, al frequente caso dei ricorsi contro le misure cautelari adottate da Equitalia successivamente al decorso di sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, tra cui balzano all’occhio di certo i fermi e le ipoteche.
Il ricorso contro l’ipoteca, ad esempio, potrebbe scontare il contributo determinando il valore con riferimento al credito tutelato, al netto di sanzioni e interessi, in conformità con l’art. 12 del DLgs. 546/1992. Quindi, se l’ipoteca è stata iscritta a fronte di una cartella portante a riscossione 30.000 euro, di cui 19.000 euro di imposta e il restante di sanzioni e interessi, la somma da versare sarà di 120 euro (in base all’art. 13 del DPR 115/2002, 120 euro è la misura del contributo prevista per gli importi da 5.000 a 25.000 euro).
Lo stesso discorso vale per il fermo delle auto.
Occorre vagliare la natura giuridica del credito riscosso
Con riferimento al ricorso contro la cartella di pagamento, la questione può essere complicata in quanto essa porta a riscossione somme di diversa natura, derivanti da ruoli formati da vari enti creditori, ognuno dei quali è soggetto magari a una giurisdizione differente. La fattispecie non è poi così rara, basti pensare a una cartella che contiene somme relative a IVA e contributi INPS.
Per il calcolo del contributo, bisogna, a nostro avviso, “dividere” le somme riscosse con la cartella, e computare il contributo unificato solo con riferimento agli importi rientranti nella giurisdizione tributaria, al netto, come sempre, di sanzioni e interessi.
In merito alle altre somme, di conseguenza, il contributo unificato verrà pagato se e nella misura in cui verrà proposto ricorso contro la cartella di fronte alla giurisdizione competente, rispettando in tal caso le diverse disposizioni del DPR 115/2002, per esempio relative al processo del lavoro (contributi INPS) o al processo amministrativo (sanzioni Antitrust).

lunedì 25 luglio 2011

contributo unificato

contenzioso

Partenza in salita per il contributo unificato

Il sistema è radicalmente diverso rispetto alla «vecchia» applicazione dell’imposta di bollo

/ Lunedì 25 luglio 2011
Il sistema del contributo unificato, in vigore, come prevede l’art. 37 del DL 98/2011, per i ricorsi presentati (quindi notificati a controparte) a partire dal 7 luglio 2011 scorso, crea vari dubbi interpretativi anche per ciò che concerne la fase transitoria.
Occorre rilevare che la tassazione degli atti processuali avviene in modo radicalmente diverso rispetto al sistema del bollo: riassumendo, prima si pagava il bollo, praticamente, su ogni atto processuale (ricorso, memoria, richiesta di CTU, richiesta di riunione dei ricorsi), ora, ai sensi dell’art. 9 del DPR 115/2002, si paga il contributo “per grado di giudizio”, una volta in primo grado e una volta in appello.
Incidentalmente, si rileva che è molto diversa anche la fase, per così dire, strettamente operativa: il bollo si applicava sull’originale dell’atto, il contributo o lo si paga con F23/bollettino postale o presso i tabaccai convenzionati, e si deposita il tutto quando ci si costituisce in giudizio.
Così, si pensi a due contribuenti che intendono presentare ricorso contro una cartella, uno prima del 7 luglio (contribuente Tizio) e uno successivamente (contribuente Caio).
Tizio deve applicare il bollo sull’originale del ricorso ogni quattro facciate, e se lo notifica sia all’Ufficio che ad Equitalia ci sono due originali, quindi due bolli. Poi, il bollo deve essere pagato per tutti gli atti processuali successivi, sino alla richiesta di copia della sentenza per uso notifica, al fine di far decorrere il termine “breve” per l’impugnazione. Se, però, Tizio vuole fare appello, entra in gioco il contributo unificato, siccome si rientra in un ricorso (in appello) notificato dal 7 luglio.
Caio, invece, deve sin da subito applicare il contributo unificato, e le somme da versare sono quelle previste dall’art. 13 del DPR 115/2002, da corrispondere una sola volta, siccome non ha rilievo il numero dei convenuti: in altri termini, se Caio notifica il ricorso a Equitalia e all’Ufficio, il ricorso sconta il contributo una sola volta.
Il processo prosegue, quindi, senza la necessità di corrispondere altri contributi, nemmeno per la richiesta di copia della sentenza a uso notifica, in quanto così si esprime a chiare lettere l’art. 18 del DPR 115/2002.
A differenti conclusioni, peraltro, si deve pervenire nel caso in cui Caio, con un unico ricorso, impugni magari due cartelle. Qui, anche se sarebbe opportuna una conferma del Ministero, occorre pagare due contributi, perché due sono gli atti impugnati (si potrebbe però anche sostenere la possibilità di sommare il quantum richiesto dai due atti a titolo di imposta, e pagare un solo contributo in base al relativo scaglione, anche se questa non pare una soluzione molto corretta).
Si paga “a grado di giudizio”, non “ad atto processuale”
In armonia con ciò, se il contribuente notifica un ricorso contro l’accertamento e un successivo ricorso contro il ruolo, occorre versare due contributi. Per contro, se si fa ricorso contro l’accertamento e si chiede la sospensiva in seno al ricorso contro l’accertamento stesso, il contributo rimane unico, perché il processo rimane instaurato contro un solo atto.
Ulteriore problema si può porre per gli appelli notificati dall’Ufficio. Se si accetta quanto affermato, ne discende che:
- per gli appelli notificati dall’Ufficio prima del 7 luglio, le controdeduzioni e gli appelli incidentali del contribuente, come gli atti processuali successivi, dovranno scontare il bollo;
- per gli appelli notificati dopo, se il contribuente controdeduce solo, non dovrebbe essere versato alcun contributo, mentre a soluzione diversa si deve pervenire in ipotesi di appello incidentale.

sabato 23 luglio 2011

Induttivo per chi «bara» sugli studi di settore

accertamento

Induttivo per chi «bara» sugli studi di settore

La manovra correttiva amplia i poteri dell’Agenzia in caso di comunicazione dei dati rilevanti non corretta
/ Sabato 23 luglio 2011
Da quest’anno, in sede di compilazione dei modelli di comunicazione dei dati rilevanti ai fini degli studi di settore da allegare ad UNICO, è necessario prestare particolare attenzione alle informazioni che vanno ad indicarsi.
Infatti, tra le modifiche apportate alla disciplina degli studi di settore, la manovra correttiva (DL n. 98/2011, conv. L. n. 111/2011) ha sancito, con l’inserimento della nuova lettera d-ter) all’art. 39, comma 2 del DPR 600/73, la possibilità, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di procedere ad accertamento induttivo extracontabile nel caso in cui:
- venga rilevata l’omessa o infedele indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti;
- oppure vengano indicate cause di inapplicabilità o di esclusione dagli studi di settore insussistenti.
In sostanza, al ricorrere delle suindicate condizioni, l’Amministrazione può determinare il reddito sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili e di avvalersi anche di presunzioni semplici sprovviste dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
L’accertamento induttivo, peraltro, diventa utilizzabile solo a condizione che siano irrogabili le sanzioni di cui al comma 2-bis dell’art. 1 del DLgs. 471/97, vale a dire le sanzioni per infedele dichiarazione maggiorate del 10% rispetto alle ordinarie misure minima e massima (dal 100 al 200% delle maggiori imposte accertate), qualora il maggior reddito accertato sia superiore al 10% di quanto dichiarato dal contribuente.
Rilevano le violazioni commesse in UNICO 2011
La nuova disposizione, essendo efficace a partire dalle violazioni commesse dal 6 luglio 2011 (data di entrata in vigore del DL 98/2011), interessa già le comunicazioni dei dati rilevanti da allegare ad UNICO 2011.
Se, da un lato, tale rafforzamento dei poteri di accertamento mira a contrastare i comportamenti di artificiosa compilazione dei modelli per raggiungere il livello di congruità, dall’altro, non può non osservarsi come gli effetti della norma si producano anche nei confronti dei contribuenti che commettano involontari errori di compilazione.
Sempre al fine di agevolare l’attività di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, la manovra correttiva elimina il particolare obbligo di motivazione che incombeva sugli uffici che intendevano procedere ad accertamenti di tipo presuntivo in materia di imposte dirette ed IVA (artt. 39, comma 1, lett. d), secondo periodo del DPR 600/73 e 54, comma 2, ultimo periodo del DPR 633/72) nei confronti dei contribuenti congrui e coerenti agli studi di settore. Nello specifico, è abrogato il penultimo periodo dell’art. 10 co. 4-bis della L. 146/98: viene meno, così, l’obbligo, in capo all’ufficio che intenda procede all’emissione dell’avviso di accertamento nei confronti di soggetti congrui agli studi di settore, di illustrare, nella motivazione, le ragioni che lo hanno indotto a disattendere le risultanze dello studio, evidenziando l’inadeguatezza del medesimo a stimare correttamente il volume di ricavi o compensi potenzialmente ascrivibili al contribuente.
Resta comunque ferma l’esclusione da tale tipologia di accertamento per i contribuenti congrui e coerenti agli studi di settore che presentano un ammontare di attività non dichiarate, fino a un massimo di 50.000 euro, pari o inferiore al 40% dei ricavi o compensi dichiarati. In sostanza, i contribuenti congrui agli studi di settore, ai quali vengano accertate attività non dichiarate superiori a 50.000 euro oppure al 40% dei ricavi/compensi dichiarati, diventano accertabili senza alcuna limitazione o vincolo per l’ufficio.Si ricorda, peraltro, che, affinché operi tale preclusione dagli accertamenti presuntivi, è necessario che i dati dichiarati nel modello di comunicazione dei dati rilevanti siano corretti: tale misura, infatti, non è applicabile se i dati contenuti nel modello studi di settore risultano inficiati da infedeltà tali da rendere applicabili le sanzioni per infedele dichiarazione IRPEF/IRES, IVA e IRAP maggiorate del 10% nel caso di irregolarità nel modello stesso o di indicazione nel medesimo di cause di esclusione o inapplicabilità non sussistenti.

Accertamenti alla srl italiana se è stabile organizzazione di società estera

Imposte dirette

Accertamenti alla srl italiana se è stabile organizzazione di società estera

Secondo la Cassazione, la branch italiana è autonomo centro di imputazione dei rapporti tributari riferibili alla casa madre
/ Sabato 23 luglio 2011
Con la sentenza n. 16106 del 22 luglio 2011, la Corte di Cassazione ha stabilito che la stabile organizzazione di una società non residente costituisce un autonomo centro di imputazione dei rapporti tributari riferibili alla casa madre.
La pronuncia della Suprema Corte, che ha ribaltato il giudizio di merito espresso sul punto dalla Commissione tributaria regionale del Veneto, si riferisce ad una controversia originatasi dalla ripresa a tassazione di royalties corrisposte da una srl italiana, interamente controllata dalla capogruppo tedesca, a società del gruppo residenti in Austria e Germania.
Oggetto della sentenza 16106/2011 è, quindi, la sussistenza o meno di una “soggettività passiva” della società italiana rispetto alla pretesa impositiva dell’Amministrazione italiana, questione che la Cassazione ha ritenuto di dover risolvere in senso affermativo, non considerando le istanze di parte che ritenevano, invece, che questa pretesa dovesse essere rivolta direttamente alla casa madre estera.
Due sono, essenzialmente, gli ordini di considerazioni sui quali si è basata la sentenza. Il primo consiste nel richiamo alla giurisprudenza di legittimità in materia di IVA, che riconosce alla stabile organizzazione la natura di centro di imputazione dei rapporti tributari riferibili al soggetto non residente, e come tale abilitato alla richiesta di rimborso dell’imposta assolta in Italia; si tratterebbe, ad avviso della Corte di Cassazione, di un’impostazione estensibile anche alle imposte sui redditi, pur nella consapevolezza che la nozione di stabile organizzazione non è esattamente sovrapponibile nei due contesti.
In secondo luogo, lo stesso legislatore delle imposte sui redditi avrebbe “enucleato” la stabile organizzazione quale soggetto che, indipendentemente dalla forma giuridica assunta, assume legittimazione passiva nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria, dovendo nominare un rappresentante per i rapporti tributari per l’Italia (art. 4 del DPR 600/73) ed essendo obbligata alla presentazione della dichiarazione dei redditi italiana, naturalmente per i soli redditi prodotti in Italia.
Non decisiva la soggettività giuridica autonoma della branch
La sentenza reca, poi, un importante principio nel particolare contesto in cui la controversia ha avuto origine, rappresentato dal fatto che il soggetto riconosciuto quale stabile organizzazione del soggetto non residente è una srl di diritto italiano, ovvero un soggetto dotato di personalità giuridica autonoma. Sul punto, la Corte di Cassazione afferma:
- che la nozione di stabile organizzazione non è incompatibile con la personalità giuridica del soggetto che è riconosciuto come tale (deve, però, essere ricordato che non necessariamente una società controllata, ancorché in modo totalitario, configura stabile organizzazione della capogruppo, potendosi al contrario dimostrare – in determinati casi – la piena indipendenza dalla casa madre sotto il profilo giuridico ed economico);
- che, soprattutto, “l’autonoma piena soggettività giuridica non interferisce con imputazione, quale massa separata, dei rapporti fiscali riferibili al soggetto non residente, restando i due profili evidentemente autonomi e distinti”.
È, in conclusione, legittimo l’accertamento condotto non nei confronti della casa madre, bensì nei confronti della società italiana, che avviene attraverso la rettifica del reddito d’impresa evidenziato nella dichiarazione di quest’ultima, in quanto la società italiana “rappresenta” (se può passare questa semplificazione) la capogruppo estera nei rapporti con l’Amministrazione italiana. Questa conclusione deve intendersi rafforzata se la stabile organizzazione è una società residente dotata di personalità giuridica anche se, viste le conclusioni a cui è giunta la sentenza 16106/2011, il principio ben potrebbe essere applicato anche in presenza di branch italiane non dotate di autonomia patrimoniale.

Agevolate le abitazioni, ma non le pertinenze

Tributi locali

Agevolate le abitazioni, ma non le pertinenze

Per la C.T. Reg. del Piemonte, l’aliquota ICI agevolata riguarda solo le unità immobiliari se così dispone la deliberazione dell’ente locale
/ Venerdì 22 luglio 2011
L’aliquota agevolata dell’ICI prevista dal Comune per gli immobili locati e destinati dall’inquilino ad abitazione principale, ai sensi dell’articolo 2, comma 4 della L. n. 431/1998, può riguardare le sole unità immobiliari e non anche le relative pertinenze, se lo stabilisce la deliberazione adottata in materia dall’ente locale.
Lo ha deciso la Commissione tributaria regionale del Piemonte con la sentenza n. 61/2/11 del 22 marzo scorso. Avallando quanto affermato dalla C.T. Prov., è stato precisato che l’estensione alle pertinenze dell’agevolazione rappresenta una mera facoltà, che il Comune può o meno esercitare.
In materia, si ricorda che le aliquote ICI, stabilite con deliberazione del Consiglio comunale, possono variare tra il 4 ed il 7 per mille.
In taluni casi, tuttavia, possono essere deliberate aliquote inferiori al limite anzidetto; è il caso, ad esempio, degli immobili oggetto di taluni interventi edilizi (si tratta degli interventi di recupero di edifici inagibili o inabitabili, di realizzazione di autorimesse o posti auto anche pertinenziali, di interventi finalizzati al recupero degli immobili di interesse artistico o architettonico localizzati nei centri storici o volti all’utilizzo dei sottotetti), degli immobili  locati ad enti o inquilini sfrattati (sulla base dei contratti di cui all’articolo 2 del DL n. 240/2004), delle unità immobiliari nelle quali siano stati installati impianti a fonte rinnovabile per la produzione di energia elettrica o termina per uso domestico (c.d. “immobili ecologici”) ovvero degli immobili locati destinati ad abitazione principale dell’inquilino sulla base degli accordi collettivi.
In relazione a quest’ultima tipologia di fabbricati, il Comune di Torino ha approvato le aliquote agevolate dello 0,1 per mille per il 2006 (deliberazione 31 gennaio 2006) e dell’1 per mille per gli anni dal 2007 al 2011 (deliberazioni 28 marzo 2007, 22 maggio 2008, 23 marzo 2009, 26 aprile 2010 e 30 marzo 2011), facendo riferimento esclusivamente alle “unità immobiliari concesse in locazione a titolo di abitazione principale alle condizioni stabilite dall’accordo territoriale (…)”, ed escludendo in tal modo le pertinenze dall’agevolazione.
L’applicazione dell’aliquota agevolata, peraltro, è subordinata alla presentazione del contratto di locazione registrato (ai contratti stipulati con studenti universitari fuori sede, invece, il sopracitato Comune stabilisce che debba essere allegata la copia del certificato di iscrizione).
L’estensione dell’agevolazione alle pertinenze è una mera facoltà
A nulla sono servite le lamentele del contribuente, secondo il quale l’esclusione delle pertinenze dall’agevolazione sarebbe in contrasto con i principi generali e con lo stesso Regolamento comunale, che non disciplina specificatamente la fattispecie degli immobili locati e destinati dal locatario ad abitazione principale (l’aliquota applicabile al caso in questione, infatti, è prevista nella tabella allegata alle deliberazioni comunali).
I giudici piemontesi, al contrario di quanto sostenuto dal contribuente, hanno affermato che detta tabella costituisce parte integrante delle deliberazioni ICI adottate dal Comune di Torino.

San Marino, passi avanti per lo scambio di informazioni con l’Italia

accordi internazionali

San Marino, passi avanti per lo scambio di informazioni con l’Italia

Approvata dalla Repubblica del Titano la nuova legge che regolamenta la materia, ma la distensione dei rapporti tra i due Stati sembra lontana
/ Venerdì 22 luglio 2011
Con l’approvazione della legge che regolamenta lo scambio di informazioni ai fini fiscali con le Amministrazioni degli Stati esteri, la Repubblica di San Marino ha compiuto un passo in avanti nella “distensione” dei rapporti con l’Italia, Stato che, naturalmente, intrattiene i maggiori rapporti con il Titano.
La legge, rubricata “Disposizioni per l’implementazione dell’assistenza fiscale internazionale attraverso lo scambio di informazioni”, consente allo Stato richiedente di ottenere le informazioni necessarie al contrasto all’evasione relativamente ai contribuenti oggetto di “attenzioni” particolari. Essa sembra, però, risentire, nella sua stessa struttura, del deterioramento dei rapporti tra i due Stati avvenuto negli ultimi anni; l’art. 2 della legge prevede infatti che, nelle more della conclusione e dell’entrata in vigore degli accordi tra San Marino e altri Stati aventi ad oggetto il contrasto alle doppie imposizioni, o lo scambio di informazioni secondo gli standard OCSE, la procedura per lo scambio di informazioni diverge da quella tipica prevista dagli accordi bilaterali siglati sulla base delle raccomandazioni dell’OCSE medesima, essendo invece regolata dagli artt. 9-12, che dettano regole particolari.
Si tratta di una previsione che sembra motivata da esigenze ad hoc, visto che proprio con l’Italia non è si mai giunti alla ratifica di una Convenzione (si veda “In arrivo le modifiche alla Convenzione con San Marino” del 27 agosto 2010), ragion per cui sono previste dalla nuova legge:
- apposite proroghe al termine ordinario di 90 giorni a seguito del quale è possibile evadere la richiesta;
- il possibile addebito allo Stato che richiede le informazioni di parte dei costi necessari per procurare le stesse;
- l’obbligo, da parte dello Stato richiedente, di fornire una serie di dettagli piuttosto vincolanti sulle informazioni richieste.
Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, lo Stato richiedente deve dichiarare all’Autorità sanmarinese:
- l’identità della persona sotto indagine;
- la natura delle informazioni richieste e la forma nella quale si desidera che esse vengano messe a disposizione;
- il fine per il quale le informazioni sono richieste;
- i motivi per i quali si ritiene che tali informazioni siano in possesso o a disposizione di una persona che rientra nella giurisdizione di San Marino;
- se conosciuti, il nome e l’indirizzo della persona che si ritiene in possesso delle informazioni richieste;
- la conformità alla legge delle richieste avanzate (di fatto, l’ammissione che la stessa richiesta di informazioni, se inoltrata all’Amministrazione dello Stato che l’ha effettuata, avrebbe avuto esito positivo);
- di aver fatto ricorso a tutti i mezzi disponibili nel proprio territorio per ottenere le informazioni richieste, fatti salvi quelli che avrebbero dato luogo a difficoltà sproporzionate.
Nuove regole per i redditi del 2011 e dei periodi d’imposta successivi
Per quanto riguarda la decorrenza, l’art. 13 della legge prevede che l’Autorità sanmarinese possa prestare l’assistenza richiesta dagli Stati terzi solo per informazioni relative a fattispecie reddituali di competenza dei periodi d’imposta che iniziano a decorrere dal 1° gennaio 2011.
Quanto agli effetti pratici della nuova legge relativamente ai rapporti con l’Italia, i commenti sembrano solo sussistere sul fronte di San Marino. Il Presidente dell’Associazione Bancaria Sammarinese (ABS), Pier Paolo Fabbri, ha giudicato positivamente il nuovo provvedimento, annunciando che le banche del Titano faranno la loro parte nell’esaudire le richieste che eventualmente pervengano; ottimismo è stato, naturalmente, evidenziato anche dal segretario di Stato alle Finanze, Pasquale Valentini, che ha esplicitato il vero nodo dei rapporti tra i due Stati, ovvero la ricomprensione di San Marino nella black list degli Stati per i quali occorre inviare le comunicazioni delle operazioni ai sensi dell’art. 1 del DL 40/2010 da parte dei soggetti IVA italiani.
L’auspicio, da parte sanmarinese, è che il varo della legge sullo scambio di informazioni possa “ammorbidire” la posizione italiana sull’argomento, anche se non vi sono al momento elementi che possano fare ritenere probabili passi in tal senso da parte del legislatore italiano.