Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

sabato 29 dicembre 2012

Riforma forense

Riforma forense, il via libera dalla Camera

 giovedì 1 novembre 2012
IL testo ritorna in terza lettura al Senato, corsa contro il tempo per il varo definitivo
Pareri discordi nella categoria, i penalisti chiedono modifiche alle specializzazioni

Società professionali bandite ai soci di solo capitale, mandato quadriennale dei consigli forensi (con rieleggibilità per una sola volta), obbligo di iscrizione alla Cassa forense, quote rosa negli organi rappresentativi, tirocinio ridotto da 24 a 18 mesi, funzione disciplinare attribuita ai nuovi Consigli distrettuali: sono alcuni dei punti qualificanti della riforma della professione forense approvata ieri dalla Camera e che ora passa al vaglio del Senato per una terza lettura. Stralciato dal testo la revisione delle norme per l’esame di Stato. La continuità dell’esercizio professionale va verificata, ma senza riferimenti a parametri di reddito, come era previsto in una prima versione del testo.
Incompatibilità e riserve
Di particolare rilevanza nel testo approvato è la norma sulla incompatibilità tra professione e altre attività di lavoro autonomo o di impresa con cui viene salvaguardata l’indipendenza degli avvocati. Mentre per accedere all’albo dei cassazionisti la selezione diventa più rigida. Altro punto nodale della riforma è la riserva di competenza in materia di consulenza legale e di asistenza stragiudiziale. In materia tariffaria è stabilita la libera pattuizione fra le parti, il legale ha l’obbligo di informare il cliente sulla complessità dell’incarico, ma è tenuto a fornirgli un preventivo solo se viene esplicitamente richiesto. Ritorna il divieto del patto di quota lite. Questo patto, lo ricordiamo, è un accordo tra avvocato e cliente in base al quale si attribuisce al primo, quale compenso della sua attività professionale, una parte (quota) dei beni o diritti in lite; oppure si ragguaglia l’onorario al valore dei beni o diritti litigiosi, in ragione di percentuale o di una determinata somma. Il patto di quota lite venne consentito dai cosiddetti “decreti Bersani”, mentre in passato era vietato e addirittura configurato come reato.
Montecitorio dà il via libera con 395 sì, 7 no e 14 astenuti. Le poche settimane che oramai separano questa legislatura dalla sua fine naturale impongono una corsa contro il tempo. Sarà sufficiente, infatti, anche una minima modifica al testo licenziato dalla Camera per mandare a monte anche stavolta la riforma forense.
Le reazioni
Sul testo varato dalla camera sì registrano posizioni discordanti. Parere positivo per l’Organismo unitario dell’avvocatura. “La riforma – sostiene il presidente dell’Oua Maurizio de Tilla – interviene positivamente sulle tariffe, sul preventivo, sulle consulenze esclusive extra giudiziali, contro i soci di solo capitale. È un passo in avanti: i professionisti non sono imprese e non possono soggiacere alle logiche di mercato, ma devono garantire qualità e tutelare un diritto sancito costituzionalmente, quello alla difesa”.
Critica la posizione dell’Associazione nazionale forense; “La legge sul riordino della professione forense – afferma il segretario Ester Perifano – approvata alla Camera, duole constatarlo, non ha nulla che ricordi una riforma se non il titolo, e non può che suscitare notevoli perplessità perché non risolve alcuno dei problemi effettivi degli avvocati, come ad esempio l’accesso, che viene appesantito dalla previsione di scuole forensi obbligatorie, oltre alla totale mancanza della riforma dell’esame di Stato, i cui articoli sono stati stralciati”. L’avvocatura, aggiunge, “avrebbe bisogno di ben altro, ed è singolare che tutte le forze politiche, con pochissime eccezioni, abbiano espresso consenso per un sistema che ripropone schemi vecchi di quasi 80 anni”. L’Unione delle camere penali, presieduta da Valerio Spigarelli, “pur ribadendo la necessità di modificare il regime della specializzazione, esprime apprezzamento per l’approvazione della riforma forense alla Camera”. Infatti i corsi di specializzazione sono demandati all’Università, mentre i penalisti chiedevano di includere tra gli enti formatori anche le associazioni specialistiche riconosciute. Il Consiglio nazionale forense esprime in una nota “grande soddisfazione per l’approvazione da parte della Camera della riforma forense, con l’apporto fattivo del Governo”. Rileva che il voto finale (395 sì, 7 contrari, 14 astenuti) “ha espresso la grande convergenza dei gruppi politici su un testo che l’attento esame parlamentare ha modificato nel solco della più generale riforma delle professioni rispettando la specialità della funzione della professione forense, radicata in Costituzione con il diritto di difesa”. “Questo importante risultato – dichiara il presidente del Cnf Guido Alpa – è stato acquisito con il favore di tutta la Camera nell’interesse dei cittadini e della tutela della dignità della professione forense”. Secondo Alpa “i giovani potranno avviarsi alla professione con maggiore fiducia nel futuro e con maggiori garanzie di qualità, competenza e correttezza. I clienti saranno più tutelati e potranno contare su consulenti e difensori preparati e corretti. A questo punto è necessario perfezionare questo importante impegno del Parlamento con il passaggio definitivo in Senato nel giro di poche settimane. La riforma, una volta approvata, costituirà una solida base per proseguire nel percorso di ammodernamento della professione”.
Aiga: Giovani dimenticati
Forti critiche vengono dai giovani. “Il testo licenziato dalla Camera – dice il presidente dell’Aiga Dario Greco – ci lascia un certo amaro in bocca: c’è scarsissima attenzione verso i giovani professionisti di oggi e di domani. Lo svuotamento delle specializzazioni forensi, la mancata riforma dell`accesso alla professione, l`assenza di incentivi alle aggregazioni professionali e multiprofessionali sono, infatti, tra gli aspetti negativi del provvedimento, su cui esprimiamo le nostre riserve”.
 Di Redazione il Denaro –

ddl sulle professioni non regolamentate

Lavoro, sì della Camera a ddl sulle professioni non regolamentate: ecco che cosa cambia per osteopati, amministratori di condominio e altri 155 profili


Accanto alle professioni ordinistiche, si sono sviluppate anche in Italia nel corso degli ultimi anni numerose professioni senza il riconoscimento legislativo e che nella quasi totalità dei casi hanno creato autonome associazioni professionali di tipo privatistico. Si tratta delle cosiddette professioni non regolamentate o non protette, diffuse in particolare nel settore dei servizi, ma anche in settori come arti, scienze, servizi alle imprese e cura alla persona. Come ad esempio gli amministratori di condomini, animatori, fisioterapisti, musicoterapeuti, bibliotecari, statistici, esperti in medicine integrate, pubblicitari, consulenti fiscali e tanti altri.
Ecco cosa cambia con il testo di legge approvato oggi dalla Commissione Attività produttive relativo a una nuova disciplina delle "professioni non organizzate in ordini o collegi", a maggiore tutela degli stessi operatori e dei consumatori che possono rivolgersi a professionisti "accreditati". La legge, che dovrà essere ora pubblicata in Gazzetta Ufficiale, riguarda oltre due milioni di professionisti.

Tali professionisti possono ora costituire associazioni professionali, con il fine di valorizzare le competenze degli associati, diffondere tra essi il rispetto di regole deontologiche, favorendo la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza. Tali associazioni hanno natura privatistica, sono fondate su base volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva. Esse promuovono la formazione permanente dei propri iscritti, adottano un codice di condotta, vigilano sulla condotta professionale degli associati, definiscono le sanzioni disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni del medesimo codice e promuovono forme di garanzia a tutela dell'utente, tra cui l'attivazione di uno sportello di riferimento per il cittadino consumatore.
Le associazioni professionali possono rilasciare ai propri iscritti delle attestazioni su molteplici aspetti (regolare iscrizione del professionista, requisiti e standard qualitativi, possesso della polizza assicurativa, ...) previe le necessarie verifiche, sotto la responsabilità del proprio rappresentante legale, al fine di tutelare i consumatori e di garantire la trasparenza del mercato dei servizi professionali. Tali attestazioni non rappresentano tuttavia requisito necessario per l'esercizio dell'attività professionale. Per i settori di competenza, le medesime associazioni possono promuovere la costituzione di organismi di certificazione della conformità a norme tecniche UNI, accreditati dall'organismo unico nazionale di accreditamento (ACCREDIA), che possono rilasciare, su richiesta del singolo professionista anche non iscritto ad alcuna associazione, il certificato di conformità alla norma tecnica UNI definita per la singola professione.
fonte:il sole24ore

Partecipazioni Nella cessione di partecipazioni immobilizzate, utili sempre «straordinari»


Partecipazioni

Nella cessione di partecipazioni immobilizzate, utili sempre «straordinari»

La bozza dell’OIC 21 precisa come devono essere rilevati gli utili/perdite che derivano dalla negoziazione di partecipazioni e le spese di cessione

/ Giovedì 27 dicembre 2012
Tra i principi contabili revisionati dall’OIC, quello dedicato alle partecipazioni costituisce senza dubbio quello su cui sono state apportate le modifiche di maggior rilievo.
In merito, occorre sottolineare che, per effetto del progetto di aggiornamento, il trattamento contabile dei titoli e delle partecipazioni, attualmente disciplinato dal documento OIC 20, è stato inserito, per quanto riguarda i titoli di debito, nell’OIC 20 (pubblicato la scorsa primavera) e, per quanto riguarda le partecipazioni, nell’OIC 21 (pubblicato in consultazione il 6 dicembre 2012).
Peraltro, la bozza del nuovo OIC 21 non disciplina più (a differenza dell’attuale) il metodo del patrimonio netto di cui all’art. 2426 comma 1 n. 4 c.c., che sarà invece trattato in uno specifico principio contabile, di cui non è ancora stata definita la numerazione.
Venendo, poi, al contenuto del nuovo principio contabile 21, l’OIC ha in primo luogo riformulato la disciplina relativa ai cambiamenti di destinazione, con l’obiettivo di coordinare meglio le disposizioni ivi contenute con il dettato codicistico e di salvaguardare la coerenza interna del documento.
Mentre l’attuale OIC 20 stabilisce che la valutazione debba essere effettuata secondo il criterio previsto per il portafoglio di destinazione, secondo la bozza del nuovo OIC 21, il trasferimento delle partecipazioni è rilevato in base al valore risultante dall’applicazione dei criteri valutativi del portafoglio di provenienza.
In merito al trasferimento delle partecipazioni immobilizzate alle attività circolanti (che va quindi rilevato in base al costo, eventualmente rettificato per le perdite durevoli di valore), il documento precisa però che il valore così determinato è oggetto di confronto con il valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, in quanto la partecipazione è destinata alla negoziazione.
Altro punto modificato è quello che attiene alla cessione delle partecipazioni.
Secondo il nuovo OIC 21, gli utili/perdite che derivano dalla negoziazione di partecipazioni immobilizzate devono necessariamente essere considerati componenti straordinari di reddito, da rilevare nelle voci E.20 o E.21 del Conto economico. Tale indicazione pare attribuibile al fatto che il realizzo di titoli o partecipazioni immobilizzati costituisce un evento estraneo all’attività ordinaria dell’impresa, in quanto gli stessi sono normalmente detenuti ai fini dell’investimento duraturo.
Per contro, l’attuale principio contabile 20 prevede la possibilità di rilevare i componenti di reddito in esame, oltre che nel gruppo E – Proventi e oneri straordinari, anche nel gruppo C – Proventi e oneri finanziari del Conto economico, nell’ipotesi in cui gli stessi siano attribuibili alla gestione ordinaria dell’impresa.
La bozza dell’OIC 21 prevede poi che, ai fini del computo della plus/minusvalenza da realizzo, non si deve tener conto delle spese di cessione (le quali si rilevano autonomamente a Conto economico). Tale approccio dovrebbe dare migliore attuazione al principio civilistico che prevede il divieto di compensare tra loro componenti economiche di diversa natura (compenso di partite).
Altri chiarimenti riguardano i criteri per la determinazione del costo degli strumenti finanziari immobilizzati. Come noto, le partecipazioni immobilizzate sono valutate attribuendo a ciascuno strumento il costo specificamente sostenuto per le stesse (costo specifico). Tuttavia, il nuovo OIC ammette, considerate le difficoltà che possono derivare dall’applicazione di tale criterio, il ricorso ai metodi previsti dall’art. 2426 comma 1 n. 10 c.c. (FIFO, LIFO e costo medio ponderato).
Infine, il nuovo OIC 21 modifica il trattamento contabile dei diritti di opzione, eliminando l’obbligo di procedere ad una svalutazione della partecipazione nel caso in cui tali diritti non siano esercitati, e introduce una disciplina specifica per la contabilizzazione dei dividendi attribuiti sotto forma di azioni proprie della partecipata derivanti da un aumento gratuito di capitale, prevedendo che tale operazione non comporta, in capo alla partecipante, la rilevazione di un provento. Su questo aspetto in particolare, l’OIC richiama l’attenzione degli operatori, invitandoli a fornire commenti.
Da ultimo, le disposizioni che richiamano gli obblighi di informativa sono state riformulate per garantire meglio il coordinamento con il dettato dell’art. 2427-bis c.c., ai sensi del quale, per le immobilizzazioni finanziarie (diverse dalle partecipazioni in società controllate e collegate e in joint venture) iscritte in bilancio a un valore superiore al loro fair value, occorre indicare nella Nota integrativa il valore contabile e il fair value delle singole partecipazioni, nonché i motivi per i quali il valore contabile non è stato ridotto.
 / Silvia LATORRACA fonte:eutekne

Prova rigorosa contro gli studi di settore


Prova rigorosa contro gli studi di settore

Le circostanze opposte alla ricostruzione presuntiva devono essere precise e concrete

/ Sabato 29 dicembre 2012
A seguito delle pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009), in linea di massima, la giurisprudenza ha recepito l’assunto secondo cui i risultati degli studi di settore costituiscono mere presunzioni semplici, utilizzabili per l’accertamento a condizione che l’ufficio dimostri l’applicabilità dello studio di settore al caso concreto e l’attendibilità del risultato stimato (anche con il supporto degli elementi indice della capacità di spesa del contribuente).
A sua volta, durante il contraddittorio oppure in sede contenziosa, il contribuente può fornire tutte le argomentazioni atte a dimostrare la sua esclusione dall’applicazione degli studi di settore, oppure la stima non corretta dei ricavi/compensi attraverso prove documentali o anche ricostruzioni presuntive.
Onere della prova ripartito tra Amministrazione e contribuente
A quest’ultimo riguardo, esaminando la giurisprudenza sinora pronunciatasi, si può, in linea generale, sostenere che, per vincere tale ricostruzione presuntiva, non è sufficiente limitarsi alla mera enunciazione dell’inadeguatezza dello studio applicato, oppure portare argomentazioni difensive generiche o un mero elenco di circostanze che potrebbero aver inciso sul buon andamento dell’attività. Al contrario, il contribuente deve addurre elementi certi e convincenti a suo discarico e dare una critica dimostrazione delle concrete implicazioni che tali eventi hanno cagionato in termini di minori ricavi/compensi e minor reddito rispetto ai risultati dello studio di settore. A titolo esemplificativo, di seguito, si richiamano alcune pronunce.
Con la pronuncia 10 novembre 2011 n. 23502, la Cassazione ha respinto il ricorso del contribuente in quanto si faceva generico riferimento alla crisi del settore e alle ridotte dimensioni aziendali, senza esplicazione degli effetti che tali elementi avrebbero prodotto sull’andamento dell’attività. Il richiamo alla crisi economica non ha parimenti valore persuasivo qualora, a fronte del lamentato andamento negativo dell’attività, il contribuente abbia sostenuto spese per autovetture e imbarcazioni (Cass. 4 ottobre 2012 n. 16939). D’altra parte, sempre in tema di crisi del settore, si richiama Cass. 17 giugno 2011 n. 13318, la quale, invece, ha censurato il comportamento dell’ufficio che non aveva esaminato e valutato gli elementi e le ragioni addotte dal contribuente, ma si era limitato a dedurre mere carenze probatorie in ordine alla dedotta crisi del settore orafo.
Ancora in merito alle carenze in punto di prova del contribuente, si consideri Cass. 5 novembre 2010 n. 22555, nella quale è stato ritenuto superficiale il richiamo ad una patologia in quanto la certificazione medica non indicava in quale misura e sulla base di quali parametri la stessa riducesse notevolmente l’attività lavorativa.
Dello stesso tenore anche Cass. 17 settembre 2010 n. 19754, secondo cui l’intervento chirurgico al quale è stato sottoposto il contribuente può costituire motivo di inapplicabilità degli studi di settore, a condizione che il medesimo dimostri l’incidenza che tale evento ha avuto sulla capacità reddituale, non rilevando il fatto in sé, ma la durata delle conseguenze e, eventualmente, l’inabilità al lavoro provocata. Nel caso di specie, è stato ritenuto corretto l’operato del giudice di secondo grado che, condividendo le ragioni dell’ufficio, ha ritenuto che la documentazione prodotta non fosse sufficiente a dimostrare che la prognosi dell’intervento avesse reso impossibile il regolare svolgimento dell’attività.
Anche lo svolgimento di una doppia attività da parte del contribuente non costituisce, di per sé, motivo di inapplicabilità dello studio di settore. Ad esempio, per Cass. 21 settembre 2010 n. 19957, è il contribuente a dover dimostrare che effettivamente il tempo impiegato nello svolgimento dell’attività di lavoro dipendente incide sulla redditività dell’attività soggetta allo studio di settore, con l’indicazione di orari, tempi di esecuzione di ogni singola prestazione, impegno temporale complessivo dell’occupazione alternativa, impegni professionali rifiutati o impossibili per carenza di tempo disponibile (del medesimo tenore anche Cass. 20 maggio 2011 n. 11147 e Cass. 27 maggio 2011 n. 11893).
 / Paola RIVETTI fonte:eutekne

iva Cambia il momento di effettuazione delle operazioni intracomunitarie

iva

Cambia il momento di effettuazione delle operazioni intracomunitarie

Dal 1° gennaio, tale momento coinciderà con l’inizio di trasporto o spedizione dallo Stato membro di partenza senza distinzioni

/ Sabato 29 dicembre 2012
L’art. 1 del DL n. 216/2012, successivamente trasfuso nella legge di stabilità 2013, prevede, con decorrenza dalle operazioni effettuate dal 1° gennaio 2013, importanti modifiche alla disciplina degli scambi intracomunitari di beni, contenuta negli artt. 39 e seguenti del DL 331/93.
Le novità riguardano due aspetti: il momento di effettuazione dell’operazione e gli adempimenti connessi, soprattutto per quanto riguarda la tempistica per l’integrazione della fattura di acquisto, ovvero l’emissione della fattura di vendita. Nel presente intervento, l’attenzione è focalizzata sul primo dei due aspetti citati, ossia il momento di effettuazione dell’operazione (c.d. “fatto generatore” dell’imposta), che assume particolare rilevanza poiché, una volta verificato, decorrono i termini per tutti gli adempimenti correlati (integrazione, fatturazione, registrazione, ecc.).
Prima delle modifiche, l’art. 39 del DL 331/93 conteneva le regole per l’individuazione del momento di effettuazione solamente per gli acquisti intracomunitari mentre, per le cessioni, ci si doveva rifare alle regole generali contenute nell’art. 6 del DPR 633/72. Più in particolare, per gli acquisti effettuati fino al 31 dicembre 2012, il comma 1 dell’art. 39 dispone che “gli acquisti intracomunitari di beni si considerano effettuati nel momento della consegna nel territorio dello Stato al cessionario o a terzi per suo conto ovvero, in caso di trasporto con mezzi del cessionario, nel momento di arrivo nel luogo di destinazione nel territorio stesso”.
Tuttavia, al fine di armonizzare la legislazione interna con quella comunitaria, la legge di stabilità 2013 riscrive per intero l’art. 39 del DL 331/93, prevedendo una disciplina omogenea per l’individuazione del momento di effettuazione delle operazioni intracomunitarie afferenti i beni (acquisti e cessioni). In particolare, dal 1° gennaio 2013, “le cessioni intracomunitarie e gli acquisti intracomunitari di beni si considerano effettuati all’atto dell’inizio del trasporto o della spedizione al cessionario o a terzi per suo conto, rispettivamente, dal territorio dello Stato o dal territorio dello Stato membro di provenienza”.
In buona sostanza, il momento di effettuazione delle cessioni e degli acquisti intracomunitari coincide con l’inizio del trasporto o della spedizione dallo Stato membro di partenza (Italia per le cessioni, altro Stato UE per gli acquisti), senza distinguere, a differenza del passato per gli acquisti, se il trasporto avviene come mezzi del cedente o del cessionario.
Ulteriore aspetto di particolare rilievo che è stato oggetto di modifiche riguarda l’eventuale anticipazione del momento di effettuazione dell’operazione rispetto alla data di consegna o spedizione. Rispetto alla disciplina vigente fino al 31 dicembre 2012, che prevede l’anticipazione del momento di effettuazione, sia in presenza di fatturazione anticipata, sia di pagamento del corrispettivo anteriore alla consegna, nella versione in vigore dal 1° gennaio, il comma 2 dell’art. 39 elimina, quale fatto generatore dell’imposta anticipato, l’eventuale pagamento (totale o parziale) del corrispettivo. Resta invece efficace l’eventuale emissione anticipata della fattura rispetto alla data di consegna o spedizione.
Altra rilevante novità è contenuta nell’art. 39, comma 3 del DL 331/93, e si riferisce agli acquisti e cessioni intracomunitarie effettuate in modo continuativo nell’arco di un periodo di tempo superiore ad un mese, nel qual caso le operazioni si considerano effettuate al termine di ciascun mese solare. In tale fattispecie, rientrano tipicamente i contratti di somministrazione di beni, caratterizzati da consegne continuative conformemente agli accordi sottoscritti tra le parti.
Limite massimo di differimento di un anno da consegna o spedizione
Infine, anche dopo le modifiche apportate dalla legge di stabilità, restano confermate alcune disposizioni già presenti, ed in particolare il differimento del momento di effettuazione dell’operazione in presenza di clausole che differiscono il trasferimento della proprietà, ovvero in presenza di contratti estimatori, per i quali l’effettuazione coincide con la rivendita a terzi dei beni o con il loro prelievo da parte del ricevente.
Resta in ogni caso fermo il limite massimo temporale di differimento di un anno dalla consegna o spedizione, e l’osservanza dell’obbligo di annotazione dei beni trasferiti in apposito registro di carico e scarico, di cui all’art. 50 del DL 331/93.
 / Sandro CERATO fonte:eutekne

imposta di bollo Dalla legge di stabilità nuova soglia per il bollo applicato alle persone giuridiche

imposta di bollo

Dalla legge di stabilità nuova soglia per il bollo applicato alle persone giuridiche

A partire dal 2013, limite massimo di 4.500 euro per i clienti diversi dalle persone fisiche

/ Sabato 29 dicembre 2012
La legge di stabilità 2013 ha introdotto a regime, a decorrere dal 2013, un limite massimo all’imposta di bollo applicabile alle comunicazioni inviate alla clientela relative a prodotti finanziari.
In assenza di tale intervento, in base alla nota 3-ter dell’art. 13 della Tariffa allegata al DPR n. 642 del 1972, l’imposta sarebbe risultata dovuta nella misura minima di 34,20 euro ma senza alcun limite massimo, poiché l’art. 19 del DL n. 201/2011 aveva fissato un tetto di 1.200 euro, ma limitatamente all’anno 2012. Il rischio era, pertanto, quello di rendere oltremodo gravoso il prelievo in caso di consistenti investimenti in prodotti finanziari, dovendosi applicare sul valore degli stessi l’imposta proporzionale, dal 2013, nella misura dell’1,5 per mille annuo.
Il limite massimo introdotto dalla legge di stabilità è pari a 4.500 euro e si applica ai soli clienti diversi dalle persone fisiche; per queste ultime, invece, il prelievo sarà quello dell’1,5 per mille senza alcun limite massimo.
Il limite massimo introdotto, ancorché quasi triplicato rispetto a quello di 1.200 euro rilevante per il solo 2012, riporta l’imposizione in questione a livelli di maggiore tolleranza, evitando veri e propri “espropri” che si sarebbero verificati in assenza di questo intervento quanto mai opportuno.
La circolare n. 48/2012 dell’Agenzia delle Entrate, a commento dell’imposta di bollo applicabile agli estratti di conto corrente, ai rendiconti dei libretti di risparmio ed alle comunicazioni relative ai prodotti finanziari, ricorda che il decreto di attuazione della norma (art. 3, comma 7 del DM 24 maggio 2012) ha riservato una previsione ad hoc per i prodotti finanziari non depositati in custodia ed amministrazione o in relazione ai quali non sussista un rapporto stabile presso un intermediario finanziario; si tratta delle polizze assicurative dei rami vita III – index/unit linked – e V – capitalizzazione, dei buoni postali fruttiferi e dei prodotti diversi da quelli dematerializzati. Esempio di questi ultimi sono i certificati di deposito cartolari e talune obbligazioni emesse da soggetti non quotati.
Per tutti i prodotti indicati nel citato art. 3, comma 7 del provvedimento di attuazione, l’imposta di bollo in questione è dovuta, per ciascun anno, all’atto del rimborso o del riscatto. In sostanza, il prelievo è applicato dall’ente gestore solo al termine del rapporto con il cliente, allorquando sia previsto il rimborso o il riscatto del titolo.
Nella circolare dell’Agenzia, a tale riguardo, è stato chiarito che, per i buoni postali fruttiferi, ai sensi dell’art. 3, comma 3 del citato DM 24 maggio 2012, ai fini della determinazione dell’imposta da parte di Poste italiane spa, si tiene conto del valore dei buoni postali fruttiferi al 31 dicembre di ogni anno. Ciò sta a significare, ad esempio, che per i buoni rimborsati nel corso del 2012 l’imposta di bollo non è dovuta, mentre per quelli acquistati nel medesimo anno l’imposta deve essere calcolata al 31 dicembre 2012 nella misura annua prevista dalla legge, senza effettuare alcun ragguaglio al periodo di detenzione. Al momento del rimborso del titolo, inoltre, non deve essere applicata l’imposta relativa alla frazione dell’anno in cui il prodotto viene rimborsato, ma esclusivamente la misura del tributo memorizzata negli anni precedenti a quello del rimborso.
Resta qualche dubbio in riferimento alla tassazione dei conti correnti e dei conti deposito. La norma è chiara nello stabilire che l’imposta di bollo sugli estratti di conto corrente è prevista in misura fissa su base annua e in misura proporzionale per i depositi bancari (1 per mille annuo per il 2012 e 1,5 dal 2013) che, quindi, risultano assimilati ex lege ai prodotti finanziari.
Dubbi sulla tassazione di conti correnti e conti deposito
Ma ciò che nella pratica risulta a volte difficile è distinguere il contratto di conto corrente bancario/postale dal contratto di deposito bancario/postale, in quanto le clausole dei diversi contratti esistenti sul mercato possono determinare la qualificazione in un senso o nell’altro dei contratti in questione, a seconda dell’interpretazione che si vorrà assumere. Basti pensare, ad esempio, alla circostanza che taluni contratti di conto corrente, caratterizzati normalmente dall’assenza di vincoli sulla liquidità, prevedono la possibilità di vincolare le somme per un periodo di tempo prefissato assicurando una determinata remunerazione; tratto caratteristico, quest’ultimo, dei contratti di deposito bancario.
 / Luca MIELE fonte:eutekne

Contenzioso Ufficiale il reclamo per gli atti di competenza del «vecchio» Territorio

Contenzioso

Ufficiale il reclamo per gli atti di competenza del «vecchio» Territorio

Lo precisa la circolare 49 dell’Agenzia: l’istituto non opera negli avvisi di classamento, poiché si tratta di provvedimenti con valore indeterminabile

/ Sabato 29 dicembre 2012
Confermata la linea di Eutekne.info sull’assoggettabilità a reclamo degli atti contenenti una pretesa a titolo di maggiore imposta sino a 20.000 euro, anche se inerenti a materie che, prima di dicembre 2012, erano di competenza dell’Agenzia del Territorio (si veda “Reclamo necessario anche per gli atti del «vecchio» Territorio” del 7 dicembre 2012).
Si rammenta che il DL 95/2012 ha disposto, con decorrenza dallo scorso 1° dicembre 2012, l’incorporazione dell’Agenzia del Territorio nell’Agenzia delle Entrate.
Tale incorporazione, nella maggior parte dei casi, non ha alcun effetto, siccome l’Agenzia delle Entrate, per espressa disposizione normativa, subentra automaticamente nei rapporti giuridici attivi e passivi anche processuali che facevano capo all’Agenzia del Territorio.
Però, come ricordato dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 49 pubblicata ieri, occorre tenere nella dovuta considerazione l’art. 17-bis del DLgs. 546/1992, introdotto dal decreto 98 del 2011: in base alla suddetta norma, per tutti gli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate di valore sino a 20.000 euro, il contribuente deve, pena l’inammissibilità del ricorso, notificare l’atto di reclamo e, di conseguenza, tentare di definire la vertenza in via stragiudiziale.
Adesso gli atti che erano di competenza degli uffici del Territorio sono di competenza delle Entrate, pertanto, se con essi viene avanzata una maggiore imposta del valore sino a 20.000 euro, il reclamo è necessario: se non lo si propone, il contribuente rischia l’inammissibilità del ricorso, che in diritto tributario è sinonimo di perdita del diritto di azione.
Il reclamo non è necessario, tuttavia, per i provvedimenti di valore indeterminabile, quali possono essere gli avvisi di classamento: in tal caso, infatti, non vi è nessuna pretesa impositiva, che, semmai, potrà esservi quando e se, sulla base della rendita attribuita ora dall’Agenzia delle Entrate, verranno quantificate le imposte sui redditi o l’IMU.
Mediazione obbligatoria per gli atti emessi dallo scorso 1° dicembre
La preventiva fase di mediazione è obbligatoria, però, nella fattispecie in cui l’atto, oltre alla rendita, contenga altesì un tributo, come nel caso del ricorso avverso il provvedimento di attribuzione della rendita presunta ai sensi dell’art. 19, comma 10 del DL 78/2010.
Per ciò che riguarda la fase transitoria, nella circolare si specifica che per gli atti emessi sino al 30 novembre 2012 non trova applicazione il reclamo, ancorché la notifica sia stata disposta in una data successiva.
Invece, per gli atti emessi dal 1° dicembre 2012, il reclamo trova applicazione.
Se, invece, si verte in ipotesi di silenzio-rifiuto, il reclamo è necessario se alla data del 1° dicembre 2012 non fossero ancora decorsi i novanta giorni entro cui, ai sensi dell’art. 21 del DLgs. 546/92, il silenzio-rifiuto si intende formato.
 / Alfio CISSELLO fonte:eutekne

Dal 1° gennaio, bollo sui prodotti finanziari senza limite massimo

Imposta di bollo

Dal 1° gennaio, bollo sui prodotti finanziari senza limite massimo

Lo precisa la circ. 48/2012 dell’Agenzia, che illustra la disciplina della nuova imposta
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/ Venerdì 28 dicembre 2012
A norma dell’art. 13, comma 2-ter della Tariffa, Parte I, allegata al DPR 642/72, come modificato dal DL 201/2011 (conv. L. 214/2011), sulle comunicazioni periodiche alla clientela relative a prodotti finanziari, anche non soggetti ad obbligo di deposito, ivi compresi i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati, è dovuta l’imposta di bollo:
- dell’1 per mille annuo, per il 2012;
- dell’1,5 per mille annuo, a partire dal 2013.
Con la circ. n. 48/2012 (si veda “«In chiaro» l’imposta di bollo sui conti correnti” del 22 dicembre 2012), l’Agenzia delle Entrate illustra la nuova imposta di bollo, ricordando, tra le altre cose, che l’imposta, nel 2012, era dovuta con la misura massima di 1.200 euro, limite che non opererà più dal 2013 in poi. Invece, operava nel 2012 e continuerà ad operare anche in seguito la misura minima dell’imposta, pari a 34,20 euro.
L’Agenzia ricorda che l’imposta recata dal comma 2-ter dell’art. 13 della Tariffa, Parte I, allegata al Testo Unico sul Bollo, ha natura sostitutiva, in quanto sostituisce l’imposta di bollo ordinaria dovuta per gli atti e documenti formati, emessi e ricevuti nell’ambito dei rapporti di conto corrente, libretti di risparmio ovvero relativi a prodotti finanziari intrattenuti tra l’ente gestore e la propria clientela.
L’imposta non è dovuta per le comunicazioni ricevute ed emesse dai fondi pensione e dai fondi sanitari, sicché sono escluse le comunicazioni relative a prodotti finanziari ricevute ed emesse da fondi di previdenza complementare e da istituti, sia pubblici che privati, di previdenza obbligatoria.
L’ambito di applicazione dell’imposta di bollo si definisce in relazione alla nozione di “prodotti finanziari”, come individuata dall’art. 1 del TUF (DLgs. 58/98). Pertanto, essa si applica a “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”, tenendo conto, però, del fatto che non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da certificati. A titolo esemplificativo, l’Agenzia delle Entrate ricorda che sono soggette all’imposta di bollo in commento le comunicazioni relative a valori mobiliari, a quote di organismi di investimento collettivo di risparmio, a strumenti finanziari derivati ecc.
Inoltre, ai fini dell’applicazione dell’imposta di bollo, rilevano i prodotti finanziari detenuti all’estero che siano oggetto di un contratto di amministrazione con una società fiduciaria residente o che siano custodite, amministrate o gestite da intermediari residenti: in relazione a tali prodotti non trova applicazione l’imposta sulle attività finanziarie detenute all’estero, in quanto esse non si considerano tali.
L’imposta trova applicazione per i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati e per i buoni fruttiferi postali di valore superiore a 5.000 euro. Sono esenti dall’imposta, invece, i buoni fruttiferi postali il cui valore complessivo di rimborso non superi 5.000 euro. Ai fini della verifica del superamento di tale limite – precisa l’Agenzia – deve assumersi il valore effettivo di rimborso, al netto degli oneri fiscali, riconosciuto al cliente alla scadenza del titolo. Nel computo non devono essere considerati i buoni fruttiferi postali emessi in forma cartacea prima del 1° gennaio 2009.
Per quanto concerne la determinazione dell’imposta, la circolare chiarisce che le aliquote dell’1 per mille (applicabile nel 2012) e dell’1,5 per mille (applicabile dal 2013 in poi), trovano applicazione sul valore di mercato dei prodotti finanziari o, in mancanza, sul valore nominale o di rimborso, come risultante dalla comunicazione inviata alla clientela. L’imposta trova applicazione anche per i prodotti che non presentino un valore di mercato, nominale o di rimborso: in tal caso si fa riferimento al valore di acquisto.
In assenza di rendicontazioni (ed ogni caso, per i buoni fruttiferi postali), l’imposta deve essere determinata sulla base del valore dei prodotti finanziari rilevata al 31 dicembre di ciascun anno. Pertanto, per i buoni postali che scadono, ad esempio, nel corso del 2012, non deve essere applicata alcuna imposta, mentre per i buoni scaduti al 31 dicembre 2012 e acquistati in corso dello stesso anno di imposta, l’imposta è dovuta in misura piena.
In presenza di rendicontazioni periodiche, o di rapporti che iniziano o terminano in corso d’anno, l’imposta proporzionale deve essere rapportata ai giorni del periodo rendicontato.
L’imposta deve essere arrotondata a 0,10 euro per difetto o per eccesso a seconda che sia di importo superiore o inferiore a 0,05 euro. Inoltre, qualora l’imposta sulla singola rendicontazione sia di importo inferiore a 1 euro, l’imposta da applicare è comunque pari a tale importo.
Per quanto concerne le misure minima (34,20 euro) e massima (1.200 euro, applicazione solo nel 2012), la circolare ricorda che esse sono applicate prendendo in considerazione l’ammontare complessivo dei prodotti finanziari detenuti dal cliente presso il medesimo gestore, ragguagliandole al periodo di durata del rapporto intrattenuto con il cliente (pertanto, per un rapporto di 6 mesi, l’imposta dovuta nell’anno non potrà esser inferiore a 17,10 euro).
  Anita MAURO fonte:eutekne

immobili Beneficio «prima casa», rinuncia senza sanzione entro un anno dalla vendita

immobili

Beneficio «prima casa», rinuncia senza sanzione entro un anno dalla vendita

Il contribuente che, entro tale termine, comunica all’Agenzia la volontà di non acquistare un altro immobile, evita la sanzione del 30%

/ Venerdì 28 dicembre 2012
Nel caso di vendita infraquinquennale dell’immobile acquistato con l’agevolazione “prima casa”, il contribuente che, entro un anno, non intenda riacquistare un’unità immobiliare da adibire a propria abitazione principale, può comunicare tale intendimento all’Amministrazione finanziaria, dovendo così versare le imposte in misura piena e i relativi interessi, ma evitando l’applicazione della sanzione del 30%.
È quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 112 di ieri.
La nota II-bis) all’art. 1 della Tariffa, parte prima, del DPR 131/1986, nel disciplinare il beneficio fiscale in oggetto, ne dispone, tra l’altro, al comma 4, la decadenza nell’ipotesi in cui il contribuente effettui la cessione dell’immobile oggetto di acquisto agevolato prima del decorso di cinque anni. La decadenza, però, non si verifica se, entro un anno dalla predetta cessione immobiliare, il contribuente riacquista un altro immobile da adibire a propria abitazione principale. La perdita del beneficio fiscale comporta il pagamento delle imposte di registro ed ipocatastali in misura piena, oltre l’applicazione di una sovrattassa pari al 30% delle stesse imposte.
Con la risoluzione in commento, l’Agenzia delle Entrate si è occupata del caso in cui il contribuente, a seguito di trasferimento dell’immobile prima del decorso dell’anzidetto quinquennio, decida di non riacquistare entro un anno una nuova unità immobiliare, come prescritto dalla norma al fine di evitare la decadenza dall’agevolazione.
Il Fisco aveva già esaminato un caso analogo nel 2011: con la risoluzione 105, infatti, era stata considerata la situazione di un contribuente che voleva rinunciare all’agevolazione prima casa perché impossibilitato a trasferire la residenza entro diciotto mesi nel Comune di ubicazione dell’immobile oggetto di acquisto agevolato, condizione richiesta dalla summenzionata nota II-bis) ai fini della fruizione del beneficio fiscale.
Come in quell’occasione, anche con la risoluzione n. 112, la Direzione Centrale Normativa ha richiamato, innanzitutto, la sentenza della Cassazione n. 8784/2000, in base alla quale la dichiarazione resa dal contribuente, nell’atto di acquisto immobiliare, di voler usufruire dell’agevolazione “prima casa” non è revocabile per definizione, tanto meno in vista di un successivo atto di acquisto. Pertanto, una volta che il contribuente abbia dichiarato nell’atto notarile di possedere i requisiti previsti per fruire del beneficio fiscale in oggetto, questi non può successivamente rinunciare all’agevolazione già utilizzata.
A diverse conclusioni si perviene, invece, nell’ipotesi in cui l’adempimento richiesto al contribuente non attenga ai presupposti per fruire del beneficio fiscale di cui trattasi, ma ad impegni che questi è tenuto ad assolvere in epoca successiva. Ed è tanto il caso dell’impegno a trasferire la propria residenza entro diciotto mesi dalla data di acquisto dell’immobile per cui è stata richiesta l’agevolazione (affrontato con la predetta risoluzione 105/2011), quanto l’impegno di riacquistare un altro immobile da adibire a propria abitazione principale entro un anno dalla cessione infraquinquennale di quello per cui era già stata utilizzata l’agevolazione (esaminato con la ris. 112).
L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che, in entrambe le ipotesi, laddove il contribuente non possa o non voglia ottemperare a tali impegni, può comunicare tale circostanza all’Ufficio competente affinché provveda alla riliquidazione delle imposte dovute.
Scaduto il termine di un anno, si può usufruire del ravvedimento operoso
In sostanza, per addivenire specificamente alla risoluzione in commento, se il termine di un anno dalla data di cessione dell’immobile oggetto di acquisto agevolato non è ancora spirato, il contribuente può comunicare il proprio intendimento di non voler riacquistare un nuovo immobile all’Ufficio presso il quale è stato registrato l’atto di vendita dell’immobile acquistato con l’agevolazione prima casa. Tale Ufficio, successivamente, riliquiderà le imposte dovute in misura piena e gli interessi decorrenti dalla data dell’atto di acquisto dell’immobile; non troverà, invece, applicazione la sanzione del 30% “poiché entro il predetto termine non può essere imputato al contribuente il mancato acquisto di altro immobile”.
Una volta decorso il predetto termine di un anno senza il riacquisto di altro immobile, invece, il contribuente incorrerà nella decadenza dall’agevolazione, con le relative conseguenze sanzionatorie. Questi, tuttavia, potrà avvalersi, sussistendone i presupposti, dell’istituto del ravvedimento operoso di cui all’art. 13 del DLgs. 472/1997, dietro specifica richiesta da presentare all’Ufficio, come già indicato con la risoluzione 105/2011.
 / Alessandro BORGOGLIO fonte:eutekne

Uscita dai «minimi» semplificata

imposte sostitutive

Uscita dai «minimi» semplificata

Decorso il periodo di fruibilità del regime di vantaggio, è ancora possibile beneficiare di alcune semplificazioni contabili e fiscali

/ Venerdì 28 dicembre 2012
La decorrenza del periodo massimo di fruizione del regime di vantaggio per l’imprenditoria giovanile oppure il venir meno dei requisiti previsti comporta la fuoriuscita dal regime e il conseguente assoggettamento all’ordinaria disciplina ai fini IVA e ai fini delle imposte dirette. Al riguardo, tuttavia, occorre fare una distinzione:
- il soggetto escluso per decorrenza dei termini (fine del quinquennio o compimento del trentacinquesimo anno di età) che, però, continua a mantenere i requisiti “originari” dei minimi (art. 1 commi 96 e 99 della L. 244/2007) ricade naturalmente nel regime agevolato per gli “ex minimi”, regolato dall’art. 27 commi 3-5 del DL 98/2011 e dal provvedimento attuativo 185825/2011;
- invece, il soggetto escluso per carenza dei requisiti (ad esempio, superamento dei 15.000 euro di ricavi/compensi) accede direttamente al regime ordinario, in contabilità ordinaria o semplificata.
I contribuenti che si avvalgono del regime contabile agevolato per gli “ex minimi” beneficiano di alcune semplificazioni negli adempimenti contabili e fiscali. In particolare, tali soggetti sono esonerati dai seguenti obblighi:
- registrazione e tenuta delle scritture contabili rilevanti ai fini delle imposte sui redditi, IRAP e IVA;
- tenuta del registro dei beni ammortizzabili qualora, a seguito di richiesta dell’Amministrazione finanziaria, si forniscano, ordinati in forma sistematica, gli stessi dati previsti dall’art. 16 del DPR 600/73;
- liquidazioni e versamenti periodici ai fini IVA, nonché versamento dell’acconto annuale IVA;
- presentazione della dichiarazione IRAP e versamento della relativa imposta.
Invece, dal punto di vista reddituale, non sono contemplate particolari agevolazioni. Conseguentemente, non potranno più essere applicati i criteri “semplificati” per la determinazione del reddito previsti per i contribuenti minimi, né la tassazione sostitutiva, ma troveranno applicazione, ai fini del calcolo dell’IRPEF, le consuete regole di determinazione del reddito d’impresa e di lavoro autonomo previste dal TUIR (artt. 54 e 66 ss.), nonché le aliquote d’imposta ordinarie.
I contribuenti che applicano il regime contabile agevolato sono soggetti agli studi di settore e ai parametri contabili, con conseguente obbligo di compilazione del modello per la comunicazione dei relativi dati. Tuttavia, con la circolare n. 8 del 2012 (§ 6.6), l’Agenzia delle Entrate ha precisato che, nonostante l’assoggettamento agli studi di settore, “la sussistenza dei requisiti di cui ai commi 96 e 99 dell’articolo 1 della legge n. 244 del 2007 potrebbe configurare anche una situazione di marginalità economica, secondo le caratteristiche esplicitate nelle circolari n. 31/E e n. 38/E del 2007 (scarsi beni strumentali, volumi d’affari ridotti, etc.)”, con conseguente esclusione dell’applicazione dello strumento presuntivo.
Opzione comunicata con la dichiarazione IVA 2014
Si segnala, infine, che è consentita l’opzione per l’applicazione del regime ordinario (artt. 14, 18 e 19 del DPR 600/73). L’opzione rimane valida per almeno un triennio e dovrà essere comunicata con la dichiarazione annuale IVA relativa al periodo d’imposta 2013 - IVA 2014 (se si considerano le bozze della dichiarazione IVA 2013, il riferimento è al rigo VO34). Trascorso il periodo minimo di permanenza nel regime contabile ordinario, l’opzione resta valida per ciascun anno successivo, fino a quando permane la concreta applicazione della scelta operata.
 / Paola RIVETTI FONTE:eutekne

Accertamento Se ci sono violazioni penali, a fine anno si chiude il 2003

Accertamento

Se ci sono violazioni penali, a fine anno si chiude il 2003

L’Ufficio deve, però, allegare gli elementi specifici da cui si desume la rilevanza penale della condotta

/ Venerdì 28 dicembre 2012
I provvedimenti impositivi vanno notificati entro termini decadenziali: precisamente, per gli accertamenti, il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, o quinto anno successivo a quello in cui avrebbe dovuto essere inviata la dichiarazione.
Entro il 31 dicembre 2012 devono, quindi, essere notificati gli accertamenti sull’anno 2007, 2006 se si tratta di omesse dichiarazioni.
Possono però sussistere cause di proroga contemplate dal Legislatore, che, allo stato attuale, riguardano solo gli avvisi di accertamento (per le cartelle di pagamento, quindi, rimangono fermi i termini di cui all’art. 25 del DPR 602/73).
La più importante è il raddoppio dei termini per violazioni penali, in virtù della quale, sussistendone i presupposti di applicabilità, entro il 31 dicembre decadono le annualità 2003, UNICO 2004, e 2001, UNICO 2002 (in quest’ultimo caso, solo se si tratta di omesse dichiarazioni). Infatti, i termini divengono, rispettivamente, di otto e di dieci anni.
Innanzitutto, occorre ricordare che la Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 2011) ha sancito che il raddoppio opera anche se gli elementi penalmente rilevanti sono stati rinvenuti in un momento in cui gli ordinari termini decadenziali erano già spirati.
Oltre a ciò, deve trattarsi di un reato rientrante nel DLgs. 74/2000, con esclusione, perciò, di ogni altra fattispecie criminosa (delitti valutari, societari, fallimentari), ancorché fiscale (non cagionano il raddoppio né i reati di contrabbando né il recente delitto susseguente alla mancata collaborazione del contribuente nella fase di verifica, introdotto dal DL 201 del 2011).
Sull’ambito operativo della proroga illustrata si è ormai formata una copiosa giurisprudenza, la quale ha consacrato, sebbene con alcune oscillazioni, due importanti principi:
- il raddoppio opera solo se ci sono seri indizi di reato, posto che solo in presenza di tale aspetto è rinvenibile l’obbligo di denuncia del contribuente ad opera dell’Agenzia delle Entrate;
- al fine di poter consentire alla Commissione di appurare se la denuncia è stata inviata in presenza effettiva di un serio indizio di reato, la denuncia medesima deve essere allegata all’accertamento, o almeno prodotta in giudizio.
Necessaria l’allegazione della denuncia
Per l’esame della vasta giurisprudenza che si è pronunciata su detti aspetti si rinvia alla recentissima Scheda Eutekne.
Invece, con riferimento all’esito del processo penale, vi è da dire, come premessa, che esso non condiziona il contenzioso tributario. Pertanto, se il procedimento è stato archiviato dal GIP o il contribuente è stato assolto, questo non è un motivo sufficiente per sostenere l’inapplicabilità della proroga, specie se tale circostanza è dovuta a fattori solo penalistici come il decorso della prescrizione.
Diversa è la fattispecie in cui, ad esempio, l’archiviazione è scaturita dall’infondatezza nel merito della denuncia. La giurisprudenza tributaria, sul punto, ha affermato che ciò comporta l’inapplicabilità della proroga, posto che se la denuncia è infondata viene meno alla radice la causa giustificatrice del raddoppio dei termini.
 / Alfio CISSELLO FONTE.EUTEKNE

imposte dirette Per le auto aziendali, deducibilità a forfait non disapplicabile

imposte dirette

Per le auto aziendali, deducibilità a forfait non disapplicabile

Secondo l’Agenzia, tali norme non hanno funzione antielusiva ma di sistema, volta a forfetizzare il requisito dell’inerenza relativamente a questi costi

/ Giovedì 27 dicembre 2012
I nuovi limiti di deducibilità dei costi relativi all’utilizzo dei veicoli, fissati dalla legge di Stabilità a decorrere dal 2013, rendono ancora più attuale il tema della possibilità o meno per il contribuente di provare un utilizzo aziendale dell’auto più intenso di quello forfetariamente previsto dal TUIR che, lo ricordiamo, consentirà una deduzione delle spese sostenute nei soli limiti del 20%.
Il dubbio è quello della possibile disapplicazione delle norme previste dall’art. 164 del TUIR. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate si è pronunciata in modo chiaro con due risoluzioni del 2007, la n. 190 e la successiva n. 231, negando tale possibilità.
Nella prima delle due pronunce, viene ricordato che il comma 8 dell’articolo 37-bis del DPR n. 600/73 prevede che le “norme tributarie le quali, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi”.
Con riferimento alle disposizioni di cui all’art. 164 del TUIR, l’Agenzia ritiene che le stesse non possano essere suscettibili di disapplicazione in quanto tali previsioni assumono la funzione di norme di “sistema” e non di norme antielusive specifiche.
La valutazione dell’Agenzia parte dall’analisi delle disposizioni che hanno limitato la deducibilità dei costi a determinate fattispecie espressamente previste dalla norma. Con particolare riferimento al comparto professionale, oggetto della domanda posta all’Amministrazione finanziaria, la risoluzione osserva come la ratio sottostante alla previsione di una deducibilità a forfait dei suddetti costi non sia antielusiva, bensì riconducibile alla volontà del Legislatore di evitare un “evasivo” utilizzo privatistico del bene.
Considerata la difficoltà, sul piano operativo, di verificare l’eventuale “uso promiscuo” e di quantificare il reale utilizzo delle autovetture per lo svolgimento della professione, il Legislatore ha, ab origine, operato la scelta, più pragmatica, di “forfetizzare” l’inerenza relativamente ai costi connessi all’acquisto e alla gestione di tali beni. Una volta operata la scelta “forfetaria”, con cui si contrappone, ad un eventuale “uso promiscuo” del bene nella realtà, l’effetto, sul piano fiscale, di una limitata deducibilità del costo, il Legislatore prescinde dalla circostanza dell’effettiva destinazione, e in quale misura, del bene per finalità strettamente connesse con l’esercizio dell’attività professionale. In tale ottica non è compatibile, pertanto, la “prova contraria”, ossia la possibilità per il contribuente di dimostrare, nel caso specifico, l’esclusiva destinazione del bene allo svolgimento della professione.
Nella seconda risoluzione, l’Agenzia delle Entrate ha confermato il proprio orientamento; anche in tal caso, infatti, è stato affermato che le norme in questione, in quanto finalizzate alla forfetizzazione nella deduzione di costi, non possono costituire oggetto di richiesta di disapplicazione. Ciò in quanto la norma assume la funzione di norma di “sistema” e non di norma antielusiva, diretta a “forfetizzare” il requisito dell’inerenza relativamente ai costi connessi all’acquisto ed alla gestione di detti beni.
La posizione dell’Agenzia delle Entrate è, pertanto, assolutamente chiara: la deducibilità in misura parziale, prevista forfetariamente dal testo unico, rappresenta una quantificazione predeterminata dell’inerenza del costo e, quindi, non è possibile dimostrare il contrario da parte del contribuente che utilizza il veicolo per uso aziendale con intensità maggiore rispetto a quella prevista fiscalmente.
Ciò premesso, non può non osservarsi che, a seguito del continuo decremento della quota di rilevanza fiscale dei costi (20% dal 2013), la misura a forfait di inerenza appare del tutto inadeguata e, quindi, risulta sempre più anacronistica la prassi amministrativa sopra ricordata. Ma sembra poco verosimile prevedere un cambio di rotta degli organi competenti.
Si tratta dell’ennesima dimostrazione di quelle distorsioni del sistema che hanno origine a seguito di norme emanate per mere esigenze di cassa.
 / Luca MIELE FONTE:EUTEKNE

dichiarazioni Crediti d’imposta «semplificati» nel quadro RU di UNICO 2013 SC

dichiarazioni

Crediti d’imposta «semplificati» nel quadro RU di UNICO 2013 SC

Le bozze del modello introducono profonde modifiche alla struttura del quadro

/ Giovedì 27 dicembre 2012
Stando alle bozze di UNICO 2013 SC, il quadro RU del modello presenta notevoli novità riguardanti sia la struttura del modello che i crediti d’imposta ivi previsti.
Ciò che salta immediatamente all’occhio è la nuova struttura semplificata del quadro RU 2013. Tale quadro è infatti ora composto, secondo la bozza del modello, da 6 sezioni, in luogo delle 25 presenti nel modello 2012.
In particolare, la sezione I è riservata all’indicazione di tutti i crediti d’imposta da riportare nella dichiarazione dei redditi, escluso il credito d’imposta “Caro petrolio” (da indicare nella sezione II), il credito d’imposta “Finanziamenti agevolati sisma Abruzzo/Banche” (da esporre nella sezione III) e il credito d’imposta “Nuovi investimenti nelle aree svantaggiate ex art. 1, comma 271, L. 296/2006” (da esporre nella sezione IV).
La sezione I viene definita dalle stesse istruzioni ̀ “multi modulo” e va compilata tante volte quanti sono i crediti di cui il contribuente ha beneficiato nel periodo d’imposta cui si riferisce la dichiarazione dei redditi. In buona sostanza, per ciascuna agevolazione fruita devono essere indicati nella sezione I il codice identificativo del credito (desumibile dalla tabella riportata in calce alle istruzioni del quadro RU) ed i relativi dati. Inoltre, nella casella “Mod. N.” posta in alto a destra del quadro, va indicato il numero del modulo compilato.
Si evidenzia che la sezione contiene le informazioni relative a tutti i crediti d’imposta da indicare nella medesima, con la conseguenza che alcuni righi e/o colonne possono essere compilati solamente con riferimento a taluni crediti d’imposta. Per ciascun credito d’imposta, poi, le relative istruzioni contengono indicazioni sui campi da compilare.
Come sopra anticipato, la sezione II è destinata al credito d’imposta a favore degli autotrasportatori per il consumo di gasolio (Caro petrolio), la sezione III è riservata al credito d’imposta a favore delle Banche per il recupero del finanziamento agevolato concesso per la ricostruzione degli immobili danneggiati dal sisma in Abruzzo, la sezione IV è destinata al credito d’imposta per nuovi investimenti nelle aree svantaggiate di cui alla L. n. 296/2006.
La sezione V è dedicata all’indicazione dei crediti d’imposta residui non più riportati specificatamente nel quadro RU (Altri crediti d’imposta).
Infine, la sezione VI è suddivisa in tre sotto sezioni e contiene le informazioni relative ai crediti d’imposta ricevuti (VI-A) e trasferiti (VI-B) nonché ai crediti eccedenti il limite annuale di utilizzo (VI-C).
Modifiche per i soggetti aderenti al consolidato
Si evidenzia, inoltre, che è stata modificata la modalità di compilazione del quadro da parte dei soggetti aderenti al consolidato e alla tassazione per trasparenza nonché da parte dei Trust. Nelle sezioni del quadro RU 2013 riservate alla esposizione dei crediti d’imposta, sono stati inseriti appositi righi per l’indicazione degli importi ricevuti e trasferiti.
I soggetti aderenti alla tassazione di gruppo ai sensi degli artt. da 117 a 142 del TUIR devono indicare, con riferimento a ciascuna agevolazione fruita, l’ammontare del credito residuo da riportare nella successiva dichiarazione al netto della quota trasferita al gruppo consolidato e indicata nel quadro GN, sezione V, ovvero nel quadro GC sezione V. Si ricorda che l’importo ceduto al consolidato non può superare l’importo dell’IRES dovuta dal gruppo consolidato.
Del pari, i soggetti che hanno optato, in qualità di partecipata, per la tassazione per trasparenza ai sensi dell’art. 115 del TUIR, devono indicare l’ammontare del credito residuo al netto della quota imputata ai soci e indicata nel quadro TN, sezione IV. Ugualmente, i Trust con beneficiari individuati (“Trust trasparenti” e “Trust misti”) devono indicare l’ammontare del credito residuo al netto della quota imputata ai beneficiari e riportata nel quadro PN, sezione IV.
 / Pamela ALBERTI FONTE:EUTEKNE

Accertamento Il tardivo pagamento di 3 giorni non «travolge» la dilazione

Accertamento

Il tardivo pagamento di 3 giorni non «travolge» la dilazione

Deve sempre essere valido il principio di collaborazione tra contribuente e Fisco

/ Giovedì 27 dicembre 2012
Il comportamento del contribuente che ritarda solamente di 3 giorni il pagamento di una rata relativa alla dilazione delle somme risultanti dagli “avvisi bonari”, ai sensi del DLgs. 462/97, non può essere paragonato al comportamento tenuto nel caso di mancato pagamento.
In quel caso, infatti, in base alla normativa vigente all’epoca dei fatti (ex art. 3-bis comma 4 del DLgs. 462/97) al momento dell’emissione della cartella di pagamento (2009) il mancato pagamento di anche una sola rata comportava la decadenza della rateazione e l’importo dovuto per le imposte, interessi e sanzioni in misura piena, dedotto quanto versato, veniva iscritto a ruolo.
Secondo la C.T. Prov. di Torino del 23 febbraio 2012 n. 24/06/12, tale tardività non può essere trattata allo stesso modo del mancato pagamento.
Inoltre, per i Giudici, richiamando la circ. dell’Agenzia delle Entrate del 28 giugno 2001 n. 65 in tema di accertamento con adesione, la lieve carenza e tardività dei versamenti eseguiti, in presenza di valide giustificazioni giunte da parte del contribuente (nel caso di specie, il ritardo dovuto era imputabile a problemi tecnici della banca), devono essere opportunamente prese in considerazione dall’Ufficio al fine di valutare il permanere o meno del concreto ed attuale interesse pubblico al perfezionamento dell’adesione.
Peraltro, la presa di posizione dell’Agenzia delle Entrate è stata ribadita nella circolare n. 9 del 2012 in tema di mediazione.
La Commissione, dunque, giustifica il ritardato versamento quando questo non dipenda da manovre dilatorie, ma da semplici anomalie tecniche. Oltretutto, l’Ufficio ha l’onere di considerare al pari dei principi costituzionali lo Statuto del Contribuente, che sancisce la piena e continua collaborazione tra contribuente e Fisco.
Il medesimo caso è stato più volte oggetto di attenzione da parte di Eutekne.info, in riferimento alla condotta assunta dall’Agenzia delle Entrate relativa al disconoscimento (quasi immediato) del beneficio del termine per violazioni da parte del contribuente di carattere meramente irrisorio (si vedano “Niente decadenza della dilazione per tardivo versamento di appena 4 giorni” del 7 maggio 2012 e “Dilazione degli avvisi bonari: un giorno di ritardo, salta la rateazione” del 31 agosto 2011).
Dello stesso avviso è stata la giurisprudenza. La sentenza emessa dalla C.T. Prov. di Genova n. 35 dello scorso 26 gennaio ne è un esempio.
Nel caso di specie, i Giudici avrebbero discusso al massimo sull’applicazione di un’eventuale sanzione per omesso versamento, peraltro definibile mediante ravvedimento operoso, ma non di certo sul disconoscimento di tutto il piano di dilazione per il tardivo versamento di appena 4 giorni.
Sul punto è intervenuto, di recente, il famoso “Decreto Monti”.
La nuova dilazione degli avvisi bonari dà più tempo
Il (nuovo) art. 3-bis comma 4 del DLgs. 462/97, modificato appunto dall’art. 10 comma 13-decies del DL 201/2011, prevede ora che il mancato pagamento di anche una sola delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, comporta la decadenza della rateazione e l’importo dovuto per imposte, interessi e sanzioni in misura piena, dedotto quanto versato, è iscritto a ruolo.
Dunque, se la rata (tardiva) viene pagata entro il termine della rata successiva, non cessa il beneficio della dilazione, ma viene irrogata la sanzione prevista dall’art. 13 del DLgs. 471/97, commisurata all’importo della rata versata in ritardo.
Si rileva che il DL 201/2011 stabilisce espressamente che le nuove norme “si applicano altresì alle rateazioni in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, quindi le conclusioni a cui è pervenuta la Commissione sono, di fatto, una soluzione “obbligata”, almeno per la dilazione degli avvisi bonari.
 / Alfio CISSELLO e Elena SCRIBONI fonte:EUTEKNE

Attività marginali «compatibili» con l’esercizio delle attività agricole

società agricole

Attività marginali «compatibili» con l’esercizio delle attività agricole

È una delle precisazioni contenute nel «Decreto crescita 2.0»

/ Giovedì 27 dicembre 2012
Il comma 8 dell’art. 36 del DL n. 179/2012 convertito dalla L. n. 221/2012 (“Decreto crescita 2.0”) introduce una modifica al DLgs. n. 99/2004 che definisce la figura della società agricola professionale.
Ai sensi dell’art. 2 comma 1 del DLgs. n. 99/2004 sono società agricole quelle che:
- hanno quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività di cui all’art. 2135 c.c.;
- contengono nella propria ragione o denominazione sociale l’indicazione di “società agricola”.
Si ricorda che le attività di cui all’art. 2135 c.c. sono quelle il cui esercizio connota e definisce la figura dell’imprenditore agricolo. Ai sensi del primo comma della citata disposizione, è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività:
- coltivazione del fondo;
- selvicoltura;
- allevamento di animali;
- attività connesse.
Ai sensi dell’art. 2135 comma 2 c.c., per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.
Quanto alle attività connesse, l’art. 2135 comma 3 c.c. definisce come connesse le attività esercitate dal medesimo imprenditore agricolo che siano dirette:
- alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali;
- alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge (a titolo esemplificativo, vi rientra l’attività agrituristica, definita dalla L. 20 febbraio 2006 n. 96 e dalla legislazione regionale).
La qualifica di società agricola, quindi, non viene persa
In sostanza, il riferimento all’esercizio “esclusivo delle attività di cui all’art. 2135 c.c.” è stato definito in modo più puntuale.
L’art. 36 comma 8 del DL n. 179/2012 statuisce che le attività di carattere occasionale o marginale, ancorché di natura economica, siano compatibili con l’esercizio delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c. da parte delle società agricole.
Con la modifica normativa in oggetto, viene stabilito, quindi, che sono compatibili con l’esercizio “esclusivo” delle attività di cui all’art. 2135 c.c., la locazione, il comodato e l’affitto di fabbricati ad uso abitativo; terreni; fabbricati ad uso strumentale alle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., a condizione che i ricavi derivanti dalle suddette attività siano marginali rispetto a quelli derivanti dall’esercizio dell’attività agricola esercitata.
Per essere “marginali” i ricavi non devono superare il 10% dell’ammontare dei ricavi complessivi e rimangono assoggettati alla tassazione in base alle regole sul reddito d’impresa di cui al TUIR.
Pertanto, la qualifica di società agricola non viene persa quando vengono esercitate marginalmente le attività summenzionate.
Per completezza, si segnala che l’Agenzia delle Entrate, già con la circolare 1° ottobre 2010 n. 50 (par. 2), aveva precisato che l’esclusività dell’esercizio delle attività di cui all’art. 2135 c.c. non era pregiudicato dallo svolgimento di attività che risultassero strumentali a quelle agricole, quali l’acquisto o l’affitto di terreni o fondi rustici effettuati per ampliare l’attività agricola, la sottoscrizione di finanziamenti per acquistare macchinari (ad esempio, trattori) necessari per la coltivazione del fondo.
 / Arianna ZENI

Per i voli dei passeggeri di aerotaxi, imposta fuori dalla base imponibile IVA

IVA

Per i voli dei passeggeri di aerotaxi, imposta fuori dalla base imponibile IVA

Con la risoluzione 111, l’Agenzia ha chiarito che l’imposta è a carico del passeggero, nonostante venga versata dal vettore

/ Venerdì 28 dicembre 2012
La somma pagata a titolo di imposta erariale sui voli dei passeggeri di aerotaxi è a carico del passeggero, nonostante sia versata dal vettore, e, di conseguenza, non concorre alla determinazione della base imponibile IVA delle prestazioni di trasporto passeggeri di aerotaxi. Lo chiarisce l’Agenzia delle Entrate con la ris. 111, emanata ieri, in risposta ad una società che ha chiesto di sapere se l’imposta erariale sui voli dei passeggeri di aerotaxi, di cui all’art. 16, comma 10-bis del DL 6 dicembre 2011 n. 201, concorra a determinare la base imponibile delle prestazioni di trasporto passeggeri effettuate e, pertanto, debba essere assoggettata ad IVA.
Con riferimento alla citata imposta, il provvedimento Agenzia Entrate 28 giugno 2012 n. 97718 ha precisato che, per voli di aerotaxi, si intendono, ai fini dell’imposta erariale, i voli effettuati per il trasporto di passeggeri in forza di contratti di noleggio, per l’intera capacità dell’aeromobile. Tale imposta è dovuta da ciascun passeggero e all’effettuazione di ciascuna tratta, nella misura di 100 euro, in caso di tragitto non superiore a 1.500 chilometri, e di 200 euro, in caso di tragitto superiore a 1.500 chilometri (si veda “Passeggeri di aerotaxi e aeromobili privati: definite le modalità di pagamento” del 29 giugno).
Il citato provvedimento dispone, altresì, che l’imposta deve essere corrisposta dal passeggero al vettore in relazione a ciascuna tratta con partenza e/o arrivo sul territorio nazionale, dove per “tratta” si intende il tragitto dal luogo di partenza al diverso luogo di destinazione, a prescindere dagli scali tecnici.
Tanto premesso, l’art. 13, comma 1, del DPR n. 633/1972 dispone che “la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti”. In altri termini, la base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto a tal fine, corrispettivo che costituisce un valore soggettivo, esprimibile in denaro, e che si trova in rapporto diretto con la fornitura o la prestazione.
La risoluzione in commento precisa che l’art. 13 del DPR 633/72 trova fondamento nell’art. 73 della Direttiva 2006/112/CE, relativa alla determinazione della base imponibile IVA, secondo cui “Per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli articoli da 74 a 77, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni”.
Tale disposizione “comunitaria” costituisce l’espressione di un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA, secondo cui la base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio è costituita, come anticipato, dal corrispettivo realmente ricevuto a tal fine, corrispettivo che costituisce un valore soggettivo, esprimibile in denaro, e che si trova in rapporto diretto con la fornitura o la prestazione.
Il vettore è mero collettore dell’imposta dovuta dal passeggero
Con riferimento alla fattispecie in esame, l’art. 16, comma 10-bis del DL n. 201/2011, dispone che l’imposta erariale sui voli dei passeggeri di aerotaxi “... è a carico del passeggero ed è versata dal vettore”. In tal senso si è poi espresso anche il provvedimento Agenzia Entrate 28 giugno 2012 n. 97718.
Stando al tenore letterale della predetta disposizione, il documento di prassi in esame sottolinea che il debitore della predetta imposta è il passeggero, soggetto inciso dal tributo. Il vettore, invece, è mero collettore dell’imposta, dovuta dal passeggero.
Di conseguenza, secondo l’Agenzia delle Entrate, la somma pagata dal passeggero a titolo di imposta non è relativa alla prestazione resa dal vettore e, pertanto, non concorre alla determinazione della base imponibile IVA delle prestazioni di trasporto passeggeri “c.d. aerotaxi” effettuate dalla società interpellante.
 / Pamela ALBERTI fonte:eutekne

Per le auto aziendali, deducibilitànei soli limiti del 20% dal 2013

imposte dirette

Per le auto aziendali, deducibilità a forfait non disapplicabile

Secondo l’Agenzia, tali norme non hanno funzione antielusiva ma di sistema, volta a forfetizzare il requisito dell’inerenza relativamente a questi costi

/ Giovedì 27 dicembre 2012
I nuovi limiti di deducibilità dei costi relativi all’utilizzo dei veicoli, fissati dalla legge di Stabilità a decorrere dal 2013, rendono ancora più attuale il tema della possibilità o meno per il contribuente di provare un utilizzo aziendale dell’auto più intenso di quello forfetariamente previsto dal TUIR che, lo ricordiamo, consentirà una deduzione delle spese sostenute nei soli limiti del 20%.
Il dubbio è quello della possibile disapplicazione delle norme previste dall’art. 164 del TUIR. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate si è pronunciata in modo chiaro con due risoluzioni del 2007, la n. 190 e la successiva n. 231, negando tale possibilità.
Nella prima delle due pronunce, viene ricordato che il comma 8 dell’articolo 37-bis del DPR n. 600/73 prevede che le “norme tributarie le quali, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi”.
Con riferimento alle disposizioni di cui all’art. 164 del TUIR, l’Agenzia ritiene che le stesse non possano essere suscettibili di disapplicazione in quanto tali previsioni assumono la funzione di norme di “sistema” e non di norme antielusive specifiche.
La valutazione dell’Agenzia parte dall’analisi delle disposizioni che hanno limitato la deducibilità dei costi a determinate fattispecie espressamente previste dalla norma. Con particolare riferimento al comparto professionale, oggetto della domanda posta all’Amministrazione finanziaria, la risoluzione osserva come la ratio sottostante alla previsione di una deducibilità a forfait dei suddetti costi non sia antielusiva, bensì riconducibile alla volontà del Legislatore di evitare un “evasivo” utilizzo privatistico del bene.
Considerata la difficoltà, sul piano operativo, di verificare l’eventuale “uso promiscuo” e di quantificare il reale utilizzo delle autovetture per lo svolgimento della professione, il Legislatore ha, ab origine, operato la scelta, più pragmatica, di “forfetizzare” l’inerenza relativamente ai costi connessi all’acquisto e alla gestione di tali beni. Una volta operata la scelta “forfetaria”, con cui si contrappone, ad un eventuale “uso promiscuo” del bene nella realtà, l’effetto, sul piano fiscale, di una limitata deducibilità del costo, il Legislatore prescinde dalla circostanza dell’effettiva destinazione, e in quale misura, del bene per finalità strettamente connesse con l’esercizio dell’attività professionale. In tale ottica non è compatibile, pertanto, la “prova contraria”, ossia la possibilità per il contribuente di dimostrare, nel caso specifico, l’esclusiva destinazione del bene allo svolgimento della professione.
Nella seconda risoluzione, l’Agenzia delle Entrate ha confermato il proprio orientamento; anche in tal caso, infatti, è stato affermato che le norme in questione, in quanto finalizzate alla forfetizzazione nella deduzione di costi, non possono costituire oggetto di richiesta di disapplicazione. Ciò in quanto la norma assume la funzione di norma di “sistema” e non di norma antielusiva, diretta a “forfetizzare” il requisito dell’inerenza relativamente ai costi connessi all’acquisto ed alla gestione di detti beni.
La posizione dell’Agenzia delle Entrate è, pertanto, assolutamente chiara: la deducibilità in misura parziale, prevista forfetariamente dal testo unico, rappresenta una quantificazione predeterminata dell’inerenza del costo e, quindi, non è possibile dimostrare il contrario da parte del contribuente che utilizza il veicolo per uso aziendale con intensità maggiore rispetto a quella prevista fiscalmente.
Ciò premesso, non può non osservarsi che, a seguito del continuo decremento della quota di rilevanza fiscale dei costi (20% dal 2013), la misura a forfait di inerenza appare del tutto inadeguata e, quindi, risulta sempre più anacronistica la prassi amministrativa sopra ricordata. Ma sembra poco verosimile prevedere un cambio di rotta degli organi competenti.
Si tratta dell’ennesima dimostrazione di quelle distorsioni del sistema che hanno origine a seguito di norme emanate per mere esigenze di cassa.
 / Luca MIELE fonte:eutekne