Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

giovedì 29 novembre 2012

Favor rei «difficile» per l’indicazione dei costi black list

ilcasodelgiorno

Favor rei «difficile» per l’indicazione dei costi black list

Per la Regionale di Torino, deve essere applicato non dal giudice ma tramite l’emanazione di un nuovo atto

/ Giovedì 29 novembre 2012
Il secondo comma dell’art. 3 del DLgs. 472/97 enuncia un principio fondamentale in tema di sanzioni amministrative, il c.d. favor rei, stabilendo che “se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”.
Detto postulato torna operante altresì nelle ipotesi in cui si passi da una sanzione “impropria” a una sanzione reale, come nel caso dei costi black list, la cui omessa indicazione in dichiarazione era “punita”, prima della Finanziaria 2007, con l’indeducibilità della posta, e dopo con la sanzione pari al 10% dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di 500 euro ed un massimo di 50.000 euro.
Applicando l’art. 3 del DLgs. 472/97, se l’atto di contestazione della sanzione o di accertamento non fosse ancora definitivo, il contribuente risulterebbe soggetto al più mite trattamento sanzionatorio.
La fattispecie è stata analizzata dalla sentenza della Commissione tributaria regionale di Torino n. 12/1/12 del 9 febbraio 2012, che, mediante una pronuncia improntata allo “stretto diritto”, ha statuito che, nella specifica ipotesi, il nuovo trattamento sanzionatorio deve essere disposto dall’Ufficio, e non dal giudice.
In sostanza, era stato impugnato un accertamento relativo al 2003, nelle more del contenzioso era sopravvenuta la Finanziaria 2007 e il contribuente, con un ragionamento accolto dalla Regionale, aveva sollecitato l’applicazione del nuovo art. 8, comma 3-bis del DLgs. 471/97.
Era poi stata notificata la cartella di pagamento emessa in seguito alla sentenza, ove il contribuente lamentava che la “nuova” sanzione andava contestata mediante apposito atto.
Per questo motivo, la Regionale, ribaltando la decisione di primo grado, ha annullato il ruolo.
Dal punto di vista dello “stretto diritto”, la decisione appare conforme al consolidato principio secondo cui il giudice tributario può solo annullare, confermare o ricondurre nella giusta misura la pretesa, ma mai sostituirsi all’ufficio nel proprio potere impositivo.
Il principio danneggia gli uffici finanziari
Così, è ad esempio pacifico che la Commissione non può determinare l’imponibile utilizzando il criterio analitico in luogo di quello induttivo disposto dall’Agenzia delle Entrate.
Nella nostra fattispecie, però, per un disguido del sistema, tale corretto postulato può andare a danno degli uffici finanziari: la necessità di autonoma notifica dell’atto di contestazione della nuova e più mite sanzione presuppone il rispetto dei termini decadenziali di cui all’art. 20 del DLgs. 472/97, il che significa che l’atto non potrà più essere notificato, in quanto i termini sarebbero con ogni probabilità spirati.
Per far fronte a ciò, possono prospettarsi due soluzioni.
La prima è l’introduzione di una norma (tecnicamente ben scritta) in virtù della quale, in casi del genere, i termini per l’atto dovrebbero decorrere dal momento in cui scaturisce il diritto del Fisco di avanzare la diversa pretesa.
Tale norma, che potremmo definire “speculare” all’art. 21 del DLgs. 546/92 in merito al dies a quo del rimborso anomalo, tornerebbe utile in casi del tutto particolari come l’accertamento notificato al socio di società estinta ex art. 2495 c.c. per debiti ante cancellazione della società, per la predetta fattispecie del favor rei (quindi anche per l’analogo caso relativo alla comunicazione delle minusvalenze) e per altre situazioni che il Legislatore, però, dovrebbe elencare nello specifico, con rigetto di una qualsivoglia clausola “aperta”.
La seconda soluzione, invece, è quella adottata dai giudici di prime cure, che hanno ritenuto legittima la cartella di pagamento emessa a seguito della sentenza con cui è stata ritenuta applicabile la sanzione più mite.
 / Alfio CISSELLO fonte:eutekne

termine al 4 febbraio 2013 per la dichiarazione IMU

immobili

Ufficializzato il termine del 4 febbraio 2013 per la dichiarazione IMU

Un comunicato del MEF ha confermato il differimento, per effetto delle modifiche introdotte al DL 174/2012 durante l’iter di conversione in legge

/ Giovedì 29 novembre 2012
Con il comunicato stampa n. 172 di ieri, il Ministero dell’Economia e delle finanze ha “ufficializzato” che l’attuale termine del 30 novembre per la presentazione della dichiarazione IMU relativa all’anno 2012, stabilito dall’art. 13, comma 12-ter del DL n. 201 del 2011 (conv. L. n. 214/2011), è posticipato al 4 febbraio 2013, poiché il 3 febbraio cade di domenica.
La nuova scadenza, come anticipato su Eutekne.info (si veda “Dichiarazione IMU entro il 4 febbraio 2013” del 7 novembre) è frutto della combinazione tra la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto 30 ottobre 2012, con il quale il MEF ha approvato il modello e le istruzioni per la compilazione della dichiarazione, e le modifiche presentate in sede di conversione in legge del DL n. 174/2012.
Infatti, in base al citato art. 13, comma 12-ter del DL n. 201/2011 convertito, i soggetti passivi devono presentare la dichiarazione IMU entro 90 giorni dalla data in cui il possesso degli immobili ha avuto inizio o sono intervenute variazioni rilevanti ai fini della determinazione dell’imposta, utilizzando l’apposito modello. La dichiarazione ha effetto anche per gli anni successivi, sempre che non si verifichino modificazioni dei dati ed elementi dichiarati cui consegua un diverso ammontare dell’imposta dovuta.
Inoltre, per gli immobili per i quali l’obbligo dichiarativo è sorto dal 1° gennaio 2012, la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata entro il 1° ottobre 2012, poiché il 30 settembre cadeva di domenica.
L’art. 9, comma 3, lett. b) del DL n. 174/2012, però, nel modificare quest’ultimo termine, ha fissato al 30 novembre 2012 la scadenza per la presentazione della prima dichiarazione IMU.
Con il comunicato di ieri, il Ministero dell’Economia ha quindi chiarito che l’ulteriore differimento al 4 febbraio 2013 si motiva con il “nuovo” art. 9, comma 3, lett. b) del citato DL, come modificato durante l’iter di conversione, che ha fissato il termine a 90 giorni dalla data di pubblicazione in Gazzetta del decreto che ha approvato il modello di dichiarazione IMU, avvenuta lo scorso 5 novembre.
Infine, si ricorda che il DL n. 174/2012, contenente disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012, dev’essere convertito entro il prossimo 9 dicembre.
Oggi, l’Aula del Senato ha, all’ordine del giorno, l’incardinamento del relativo Ddl. di conversione (A.S. 3570), dopo che, nella seduta di ieri, i relatori delle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali, Carlo Sarro (Pdl) e Carlo Pegorer (Pd), hanno presentato un emendamento che sancisce lo “stop” ai privati nella riscossione dei tributi comunali, stabilendo che, a decorrere dal 1° luglio 2013, la riscossione delle entrate, anche tributarie, dei Comuni, delle loro Unioni, dei consorzi, nonché delle società o degli enti dagli stessi costituiti, dovrà essere svolta in gestione diretta ovvero esclusivamente mediante il Consorzio cui partecipano obbligatoriamente l’ANCI e i Comuni che non optano per la gestione diretta.
Stando alle indiscrezioni, il nuovo Consorzio, per quanto riguarda la riscossione coattiva, si avvarrebbe di Equitalia spa, che comunque opera in nome e per conto dello stesso Consorzio. L’obbligatorietà del Consorzio è però stata presa di mira dai sub-emendamenti degli altri relatori, per cui, ha spiegato Sarro, probabilmente si arriverà oggi in Aula a una formulazione diversa.
  Michela DAMASCO fonte:eutekne

Perdite su crediti alla verifica dei nuovi requisiti di deducibilità

reddito d’impresa

Perdite su crediti alla verifica dei nuovi requisiti di deducibilità

Secondo il Consorzio studi e ricerche fiscali di Intesa Sanpaolo, perdite deducibili anche per i creditori non aderenti all’accordo di ristrutturazione

/ Giovedì 29 novembre 2012
Con la circolare n. 4/2012, diffusa ieri, 28 novembre 2012, il Consorzio studi e ricerche fiscali del Gruppo Intesa Sanpaolo affronta, tra l’altro, le questioni controverse della nuova disciplina delle perdite su crediti.
Si ricorda che, per effetto delle modifiche introdotte dal DL 83/2012 (conv. L. 134/2012), per i crediti vantati verso debitori assoggettati a procedure concorsuali, viene consentita la deducibilità immediata delle perdite generatesi per effetto dell’omologazione, da parte del Tribunale, di un accordo di ristrutturazione dei debiti. Relativamente ai crediti vantati nei confronti degli altri debitori, la perdita è automaticamente deducibile quando il credito è di modesta entità ed è decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza del pagamento o, in alternativa, il diritto alla riscossione è prescritto.
Una fattispecie specifica è stata infine prevista per i soggetti IAS compliant.
Sinora, i maggiori dubbi degli operatori si sono concentrati sulle perdite relative a crediti di esiguo ammontare, intendendosi per tali quelli di importo non superiore a 5.000 euro, per le imprese con volume d’affari o ricavi non inferiore a 100.000.000 di euro, e a 2.500 euro, per le altre imprese.
Un primo problema attiene alla quantificazione del credito da confrontare con le suddette soglie: ci si chiede, in particolare, se occorra riferirsi al valore legale (nominale), a quello contabile oppure a quello fiscale. Secondo la circolare in esame, sembra ragionevole considerare quello nominale, posto che si tratta dell’importo da confrontare idealmente col costo delle azioni di recupero per stabilirne la convenienza o meno. Per i crediti coperti da garanzia assicurativa, il raffronto con le citate soglie andrebbe limitato alla quota non assicurata.
Ai fini della verifica del limite quantitativo, non appare poi chiaro se occorra fare riferimento, in alternativa:
- alle singole posizioni creditorie individualmente considerate;
- a tutti i crediti vantati nei confronti di uno stesso debitore;
- all’insieme dei crediti originati dal medesimo rapporto negoziale.
Ad avviso del Consorzio studi e ricerche fiscali del Gruppo Intesa Sanpaolo, la rilevanza della singola posizione creditoria sembrerebbe la soluzione più coerente con la formulazione della norma e sarebbe altresì compatibile con la verifica della scadenza del termine di pagamento. Peraltro, la valenza autonoma dei singoli crediti può risultare poco allineata alla ratio della disposizione, vale a dire all’esigenza di stabilire per legge una soglia di antieconomicità delle azioni di recupero, posto che tali azioni, specie se inserite in una procedura concorsuale, possono avere ad oggetto l’intero saldo creditorio nei confronti del medesimo soggetto.
Così, secondo la circolare in esame, la soluzione più soddisfacente pare essere quella di dare autonoma rilevanza non al singolo credito, ma all’insieme dei crediti derivanti dal medesimo rapporto giuridico (es. un mutuo, un’apertura di credito; qualche dubbio in più si pone rispetto ai crediti derivanti da contratti a esecuzione continuativa o periodica, ecc.).
Il momento in cui verificare la sussistenza delle due condizioni (temporale e quantitativa) andrebbe invece individuato nella chiusura del periodo d’imposta, data alla quale si richiede la sussistenza degli elementi certi e precisi previsti dal dato normativo.
Relativamente all’ipotesi di deducibilità automatica a seguito dell’omologazione, da parte del Tribunale, di un accordo di ristrutturazione dei debiti, il Consorzio si domanda se la norma si applichi anche nei confronti dei soggetti che non hanno aderito all’accordo, essendo la partecipazione dei creditori necessaria solo per il 60% della complessiva esposizione debitoria dell’impresa.
In proposito, si osserva che la formulazione letterale della norma sembra valorizzare la condizione oggettiva della conclusione di un accordo omologato dal Tribunale (che consentirebbe di considerare il debitore ufficialmente in crisi) piuttosto che quella soggettiva connessa alla partecipazione (o meno) all’accordo.
Considerato, tuttavia, che l’idoneità dell’accordo ad assicurare il pagamento dei creditori estranei non comporta l’attribuzione di alcuna forma di prelazione, né di altri strumenti che possano agevolare la riscossione del credito (tipo fidejussioni o altre garanzie), è possibile ritenere che la relativa stipulazione concretizzi un sintomo qualificato della difficoltà finanziaria del debitore, comunque idoneo a configurare i requisiti di certezza e precisione di eventuali perdite valutative imputate a Conto economico, anche nei confronti dei creditori non aderenti. Pertanto, anche questi ultimi dovrebbero poter dedurre “automaticamente” le perdite eventualmente iscritte in bilancio nelle more della procedura, senza dover altrimenti provare l’esistenza degli elementi certi e precisi.
 / Luca FORNERO

Nelle ristrutturazioni, sopravvenienze «legate» a perdite pregresse compensabili

reddito d’impresa

Nelle ristrutturazioni, sopravvenienze «legate» a perdite pregresse compensabili

Le perdite pregresse vanno assunte solo per l’ammontare utilizzabile in compensazione nel periodo d’imposta, pari all’80% del reddito imponibile

/ Giovedì 29 novembre 2012
La circolare informativa n. 4 del 28 novembre 2012 del Consorzio studi e ricerche fiscali del Gruppo Intesa Sanpaolo si sofferma, tra l’altro, sugli interventi operati dal DL n. 83/2012 (conv. L. n. 134/2012) sulla disciplina delle sopravvenienze attive realizzate dall’impresa debitrice a seguito di accordi di ristrutturazione dei debiti e piani attestati di risanamento.
Come si ricorderà, l’art. 33, comma 4 del decreto in esame ha sostituito l’art. 88, comma 4 del TUIR, ampliando il novero delle riduzioni dei debiti che non sono suscettibili di generare sopravvenienze attive imponibili e ricomprendendovi, oltre a quelle realizzate dai debitori in sede di concordato fallimentare o preventivo, anche quelle realizzate per effetto di accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell’art. 182-bis del RD 267/42 e piani attestati di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. d) del RD 267/42, pubblicati nel Registro delle imprese. Il Consorzio esprime un parere non del tutto positivo sulle novità legislative, stante il fatto che il trattamento fiscale degli accordi e piani in questione non è stato completamente equiparato a quello riservato alla riduzione dei debiti in sede di concordato fallimentare o preventivo, che continua ad essere più favorevole. La norma, infatti, circoscrive la non imponibilità alle sopravvenienze attive eccedenti le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’art. 84 del TUIR.
La circolare effettua, poi, un’analisi compiuta delle principali problematiche applicative, in parte già affrontate su Eutekne.info (si veda “Nelle ristrutturazioni dei debiti, perdita di periodo senza sopravvenienze” del 12 ottobre 2012), fornendo anche alcuni esempi.
In primo luogo, in relazione al confronto tra la sopravvenienza attiva e le perdite di periodo, secondo il Consorzio studi la ratio della norma induce a ritenere che le perdite di periodo debbano essere assunte al lordo della sopravvenienza stessa, ossia senza tenerne conto, come se questa fosse esclusa dal risultato di bilancio. Il reddito d’impresa dovrebbe, quindi, essere determinato dapprima considerando la sopravvenienza interamente esclusa dalla formazione del reddito (reddito potenziale) e, successivamente, quantificando la variazione in diminuzione in modo che la quota non imponibile della sopravvenienza non ecceda la perdita fiscale di periodo determinata senza tener conto di tale provento (perdita potenziale).
In sostanza, l’integrale detassazione della sopravvenienza si realizza solo nel caso in cui il reddito d’impresa potenziale sia positivo o pari a zero, mentre, quando sussiste una perdita fiscale potenziale (situazione che si realizza con maggior frequenza, tenuto conto che si tratta di imprese in crisi), la detassazione della sopravvenienza attiva non è integrale, ma limitata all’importo eccedente, fino ad annullarsi nel caso in cui la perdita potenziale risulti pari a zero o superiore alla sopravvenienza.
Più problematico risulta, invece, stante la mancanza di una precisa indicazione da parte della norma, il confronto tra la sopravvenienza attiva e le perdite pregresse: è infatti dubbio se tali perdite vadano assunte per l’ammontare complessivo oppure soltanto per l’ammontare utilizzabile in compensazione nel periodo d’imposta (pari all’80% del reddito imponibile, per effetto delle disposizioni introdotte dall’art. 23, comma 9 del DL n. 98/2011, conv. L. n. 111/2011, salvo per le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta, per le quali è possibile l’utilizzo in compensazione in misura piena). La circolare propende per la seconda soluzione.
Altra questione evidenziata dal Consorzio studi è quella che attiene alle società di persone, le quali, in generale, non dispongono di perdite fiscali pregresse riportabili, in quanto le perdite sono imputate per trasparenza ai soci. Secondo la circolare, in base al tenore letterale della norma, l’assenza di perdite pregresse disponibili consentirebbe di beneficiare dell’integrale detassazione delle sopravvenienze attive originate dalla riduzione dei debiti, in difetto di perdite di periodo, fermo restando il diritto dei soci allo scomputo delle perdite imputate per trasparenza dalla società di persone.
Da ultimo, la circolare fornisce alcune indicazioni per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali IAS/IFRS. Secondo l’IFRIC 19 (che sotto questo aspetto si differenzia dalla prassi contabile nazionale), nelle ipotesi di conversione di crediti in capitale attuate nell’ambito di ristrutturazioni del debito, il debitore deve rilevare al fair value le azioni emesse per estinguere le passività, imputando la differenza a Conto economico.
Ad avviso del Consorzio studi (che non tralascia di sottolineare come la questione sia alquanto delicata), le differenze imputate a Conto economico dovrebbero essere fiscalmente rilevanti, in virtù del principio di derivazione rafforzata previsto dall’art. 83 del TUIR. Inoltre, verificandosi la conversione sulla base di una ristrutturazione del debito o di un piano di risanamento disciplinati dagli artt. 182-bis o 67 del RD 267/42, dovrebbero realizzarsi i presupposti di non imponibilità stabiliti dal comma 4 dell’art. 88 del TUIR.
 / Silvia LATORRACA

fiscalità internazionale e stabile organizzazione

fiscalità internazionale

Google di nuovo nel mirino della Guardia di Finanza

Il Sottosegretario Vieri Ceriani, in risposta ad un’interrogazione, ha evidenziato la carenza delle logiche tradizionali di controllo

/ Giovedì 29 novembre 2012
La notizia non è nuova, ma, a seguito della risposta ad un’interrogazione parlamentare fornita ieri dal Sottosegretario Vieri Ceriani, è rimbalzata su tutte le agenzie stampa.
Stiamo parlando dell’indagine avviata dalla Guardia di Finanza nel 2007, su incarico della Procura di Milano, diretta ad evidenziare eventuali illeciti di natura fiscale da parte di Google Italy.
Secondo la Guardia di Finanza, nel quinquennio 2002-2006 la società americana non avrebbe dichiarato ricavi per 240 milioni di euro e IVA per 96 milioni di euro.
I predetti rilievi sono ancora all’esame dell’Agenzia delle Entrate per verificarne la sostenibilità; nel frattempo, la Guardia di Finanza ha avviato lo scorso 26 novembre una verifica extraprogramma su Google Italy srl, sempre con il fine di riscontrare il corretto adempimento degli obblighi fiscali.
È noto che il più utilizzato motore di ricerca al mondo si sostiene in via principale con la pubblicità (Adwords).
Meno noto è che, secondo Google Inc., la società italiana Google Italy srl svolgerebbe attività meramente ausiliaria e preparatoria a favore di Google Ireland Ltd.
Per queste ragioni Google Italy assoggetta ad imposizione nel territorio nazionale le sole provvigioni per le prestazioni rese da Google Ireland Ltd.
La questione ruota tutta attorno alla possibilità di considerare Google Italy la stabile organizzazione di Google Ireland, alla luce dell’art. 162 del TUIR, del modello di convenzione OCSE e della giurisprudenza.
A tal proposito, ancora di recente, la Corte di Cassazione (sentenza 20678 del 29 maggio 2012) ha affermato che è stabile organizzazione una struttura dotata di risorse materiali e umane, dotata o no di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato, anche di fatto, la cura di affari, con la sola esclusione delle attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, quali la prestazione di consulenze o la fornitura di “know how”.
Il Ministero, nella risposta all’interrogazione, ha poi evidenziato che l’Agenzia sta procedendo “a una selezione di posizioni che possano dar luogo a una mirata attività di controllo fiscale nei confronti dei gruppi multinazionali attivi nel settore dell’elettronica e dell’e-commerce e le cui strategie fiscali sono oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica italiana e internazionale”.
Da parte sua, la società di Mountain View ha affermato che “Google rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera e siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana”. Pertanto la società continuerà “a collaborare con le autorità locali – ha affermato il portavoce della società – per rispondere alle loro domande relative a Google Italy e ai nostri servizi”.
 / REDAZIONE fonte:eutekne

Imposta di registro all’1% salva dal giudizio di incostituzionalità

Imposta di registro

Imposta di registro all’1% salva dal giudizio di incostituzionalità

La Consulta ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale
/ Giovedì 29 novembre 2012
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla norma del Testo Unico dell’imposta di registro che dispone l’applicazione dell’imposta di registro nella misura ridotta dell’1% alle cessioni di fabbricati abitativi esenti da IVA a favore di imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale l’attività di rivendita immobiliare.
Questo è il contenuto dell’ordinanza n. 268/2012 della Corte Costituzionale, depositata ieri, 28 novembre 2012.
Si ricorda che, come segnalato in un precedente articolo (si veda “Registro all’1% a rischio di illegittimità costituzionale” del 20 luglio 2012”), la C.T. Prov. Trapani, con l’ordinanza 9 marzo 2012 n. 138, aveva sollevato di fronte alla Consulta questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 1, sesto periodo, della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86, per violazione dell’art. 3 della Costituzione.
La norma citata prevede l’applicazione dell’aliquota dell’1% per la cessione di fabbricati o porzioni di fabbricati abitativi, esenti da IVA ex art. 10 comma 1 n. 8-bis del DPR 633/72, a condizione che il trasferimento sia effettuato nei confronti di imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività la rivendita di beni immobili e che nell’atto l’acquirente dichiari che intende trasferirli entro tre anni.
Per espressa disposizione normativa, l’agevolazione si applica limitatamente ai trasferimenti esenti da IVA ex art. 10 comma 1 n. 8-bis del DPR 633/72. Pertanto, come chiarito dal Ministero delle Finanze, nella risposta all’interrogazione parlamentare 17 giugno 2009 n. 5-01457, l’aliquota dell’1% non può trovare applicazione nel caso in cui il cedente sia un soggetto non IVA, atteso che, in tale ipotesi, la cessione sarebbe fuori campo IVA e non rientrerebbe nell’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 10 comma 1 n. 8-bis del DPR 633/72.
Proprio tale limitazione nell’applicazione dell’aliquota agevolata aveva fatto sorgere il dubbio di legittimità costituzionale nel giudice remittente. Infatti, secondo la C.T. Prov. Trapani, la mancata applicabilità dell’aliquota ridotta alle cessioni operate da parte di soggetti non IVA violerebbe l’art. 3 della Costituzione, discriminando due situazioni assimilabili.
Infatti – rilevava la Commissione – la cessione di un immobile abitativo operata a favore di un’impresa immobiliare che intenda rivendere nei tre anni:
- se operata da soggetti IVA, sconta il registro all’1%;
- se operata da soggetti non IVA, sconta l’imposta di registro al 7%.
La Corte di Costituzionale, tuttavia, chiamata a pronunciarsi sulla presunta illegittimità costituzionale della norma in oggetto, non scende nel merito della questione, ma la dichiara manifestamente inammissibile per carente descrizione della fattispecie.
La fattispecie non è sufficientemente descritta
Si ricorda, infatti, che uno dei requisiti preliminari, indispensabili perché il ricorso alla Corte Costituzionale possa essere ritenuto “ammissibile”, è che la questione proposta sia “rilevante” ai fini della definizione della causa esaminata dal giudice remittente. Pertanto, perché la Corte possa valutare la “rilevanza”, è necessario che il giudice remittente descriva la fattispecie oggetto di causa, in modo che la Corte Costituzionale possa accertare l’effettiva applicabilità ad essa della norma impugnata per violazione della Costituzione.
Nel caso di specie, quindi, la Corte Costituzionale non esamina neppure la lamentata incostituzionalità, ma dichiara inammissibile la questione per un vizio preliminare del ricorso: l’insufficiente descrizione della fattispecie si traduce in un’insufficiente motivazione della rilevanza della questione. Infatti, non avendo la Commissione precisato se l’immobile oggetto di trasferimento effettivamente fosse esente da IVA ex art. 10 comma 1 n. 8-bis del DPR 633/72, né se nel caso di specie la società acquirente avesse effettivamente dichiarato la volontà di rivendere il bene nei tre anni dall’acquisto, la Corte non è in grado di stabilire se la pronuncia sulla questione di legittimità effettivamente possa incidere sulla causa instaurata davanti alla Commissione di Trapani.
 Anita MAURO FONTE:EUTEKNE

mercoledì 28 novembre 2012

Con l’adozione di modelli 231, aumenta il rating di legalità

responsabilità amministrativa degli enti

Con l’adozione di modelli 231, aumenta il rating di legalità

Il regolamento dell’AGCM in materia prevede un aumento del punteggio, che favorirà l’accesso al credito e ai finanziamenti pubblici per le imprese

/ Lunedì 26 novembre 2012
In attuazione di quanto previsto dall’art. 5-ter del DL n. 1/2012 (conv. L. n. 27/2012), rubricato “Rating di legalità delle imprese”, lo scorso 14 novembre l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha approvato il regolamento che stabilisce i criteri e le modalità per l’attribuzione, su istanza di parte, di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale che raggiungano un fatturato minimo di due milioni di euro, riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza. Di tale rating, alla cui elaborazione si dovrà procedere in raccordo con i Ministeri della Giustizia e dell’Interno, dovrà tenersi conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario, secondo modalità da stabilirsi con decreto dei Ministri dell’Economia e dello Sviluppo economico.
Al fine di rafforzarne l’efficacia, la norma primaria prevede, inoltre, che gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta.
Quanto ai contenuti del regolamento attuativo, quest’ultimo dispone in primo luogo che nella domanda di attribuzione del rating, da inviarsi telematicamente all’Autorità, le imprese dovranno dichiarare l’assenza di sentenze di condanna o di adozione di misure cautelari in relazione sia al compimento degli illeciti di cui al DLgs. 231/2001, sia per i reati tributari di cui al DLgs. 74/2000; se si tratta di imprese collettive, detta dichiarazione dovrà riguardare anche gli amministratori, il direttore generale, il direttore tecnico, il rappresentante legale, nonché i soci-persone fisiche titolari di una partecipazione di maggioranza, anche relativa.
Le imprese dovranno dichiarare, altresì, l’assenza, nel biennio antecedente alla richiesta di rating, di provvedimenti di condanna nei loro confronti per illeciti antitrust gravi, per l’accertamento di un maggior reddito imponibile rispetto a quello dichiarato, per il mancato rispetto della legge sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché per le violazioni in materia di obblighi retributivi, contributivi e assicurativi e di obblighi concernenti il pagamento delle ritenute fiscali sui dipendenti e collaboratori. Ancora, ai fini dell’ottenimento del rating, è necessario che tutti i pagamenti di importo superiore a 1.000 euro siano stati effettuati mediante strumenti tracciabili e che l’impresa non sia stata destinataria né di provvedimenti di revoca di finanziamenti pubblici, né di comunicazioni o informazioni antimafia interdittive in corso di validità.
La domanda di attribuzione del rating dovrà essere redatta mediante compilazione del format pubblicato sul sito dell’AGCM.
Al possesso dei suddetti requisiti, attestato per lo più mediante autocertificazione del rappresentante legale dell’impresa, corrisponderà l’attribuzione, da parte dell’Autorità, di un punteggio base pari ad una stella; tale punteggio potrà incrementarsi con l’attribuzione di un segno “+”, laddove l’impresa richiedente soddisfi una ulteriore serie di requisiti, tra i quali: la adesione a codici etici di autoregolamentazione adottati dalle associazioni di categoria; l’iscrizione in uno degli elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa (white list); e ancora l’adozione di una funzione o struttura organizzativa, anche in outsourcing, che espleti il controllo di conformità delle attività aziendali a disposizioni normative applicabili all’impresa, ovvero di un modello organizzativo ai sensi del DLgs. 231/2001.
Il conseguimento di tre segni “+” comporterà l’attribuzione di una stella aggiuntiva, fino ad un massimo di tre stelle.
Ai fini dell’attribuzione del rating, l’Autorità potrà compiere tutte le verifiche ritenute opportune presso le pubbliche amministrazioni. In caso di esito positivo, l’impresa richiedente verrà iscritta in un apposito elenco detenuto in una apposita sezione del sito dell’AGCM.
Il rating ha durata biennale e può essere rinnovato su richiesta; può altresì essere revocato nel caso in cui si accerti la falsità delle dichiarazioni rilasciate dall’impresa, così come può essere sospeso in caso di rinvio a giudizio di quest’ultima o di adozione di misure cautelari personali o patrimoniali nei suoi confronti. Infine, la perdita di uno o più requisiti può comportare una riduzione del punteggio attribuito. Di tutti i provvedimenti adottati – attribuzione, sospensione, revoca – e della loro decorrenza verrà data notizia nel suddetto elenco.
Il regolamento dovrebbe essere operativo entro fine anno
Il regolamento, del quale si attende la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dovrebbe essere operativo entro la fine dell’anno. A questo punto, per completare il quadro normativo di riferimento manca solo il decreto dei Ministri dell’Economia e dello Sviluppo economico, che stabilisca le modalità di accesso al credito bancario, nonché di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni.
In tal modo il parametro della legalità è destinato a divenire un elemento centrale nella vita delle imprese che, ai fini dell’ottenimento del rating, dovranno giocoforza riformulare le valutazioni connesse alla adozione di modelli organizzativi e di gestione, fino ad oggi fortemente condizionate dalla non obbligatorietà degli stessi e dalla non esiguità dei costi connessi all’adeguamento.
 / Annalisa DE VIVO fonte eutekne

Da coordinare le norme su beni ai soci e beni immobili «patrimonio»

accertamento

Da coordinare le norme su beni ai soci e beni immobili «patrimonio»

Irrisolta la questione relativa ai costi già del tutto indeducibili per legge

/ Mercoledì 28 novembre 2012
Pubblichiamo l’intervento di Marco Cramarossa, Presidente dell’UGDCEC di Bari e Trani.
Siamo ormai vicinissimi alla scadenza per il versamento degli acconti di fine mese e rimane ancora aperta una questione non di poca importanza, peraltro già sollevata il mese scorso proprio sulle colonne di Eutekne.info. Desta più di qualche perplessità, infatti, la mancanza di coordinamento della novella normativa sull’utilizzo dei beni ai soci (art. 2, commi da 36-terdecies a 36-duodevicies, del DL n. 138/2011, convertito con modifiche dalla L. n. 148/2011) con la specifica e peculiare determinazione del reddito relativo ai beni immobili “patrimonio” detenuti dalle imprese di gestione immobiliare. Il fine, legittimo e condivisibile, di questa nuova e penalizzante disciplina è quello di contrastare il fenomeno della concessione in godimento di beni relativi all’impresa a soci, ovvero a familiari di essi, per fini privati. La fittizia intestazione a società di beni, mobili o immobili che siano, comporta generalmente l’evidente possibilità di dedurre costi che diversamente andrebbero ad incidere il privato fruitore di essi. Tale fittizietà rileva anche ai fini della determinazione perimetrale redditometrica.
Preme evidenziare, in tale contesto, l’ipotesi, peraltro non di mero studio, di una società di pura gestione immobiliare che concede ai propri soci immobili “patrimonio”, ovvero fabbricati destinati ad abitazione di tipo civile classificati nella categoria catastale A (con esclusione dell’A10). Ebbene, in tale caso sappiamo che l’impresa per tali immobili determina le imposte dovute in base alle disposizioni in materia di redditi fondiari, ovvero costituisce reddito il maggiore importo fra rendita catastale rivalutata del 5% e canone di locazione conteggiato per l’intero importo. Non si applica, pertanto, la deduzione forfetaria del 15%, ma il canone potrà essere abbattuto con le sole spese di manutenzione ordinaria effettivamente sostenute e, comunque, fino ad un tetto massimo del 15% del canone di locazione pattuito in contratto. Rappresentano, invece, in tale specifica fattispecie, diversamente dalla determinazione del reddito per i beni immobili strumentali, costi integralmente indeducibili, oltre l’eccedenza rispetto all’eventuale 15% delle spese per manutenzione ordinaria, sia le spese di manutenzione straordinaria, sia i costi di gestione e tutti i restanti componenti negativi, ammortamenti compresi. Qualora quegli stessi canoni di locazione fossero dichiarati da una persona fisica, il sistema riconoscerebbe, invece, una deduzione forfetaria del 15%, ovvero del 5% a decorrere dal periodo d’imposta 2013: senza contare la possibilità, ove più conveniente, di optare per la cedolare secca.
La criticità qui lamentata è rappresentata dal fatto che, trattandosi di unità immobiliari non locate, ma concesse – nella “peggiore” delle ipotesi – gratuitamente ai soci, l’impresa tassa gli immobili prendendo a riferimento la rendita catastale rivalutata, rendendo indeducibili tutti gli eventuali costi sostenuti per esse, al pari di quanto accadrebbe se l’immobile fosse intestato alla persona fisica effettiva utilizzatrice del bene: unica differenza è forse l’aumento di un terzo della rendita per gli immobili tenuti a disposizione, aspetto sul quale si può eventualmente ragionare per motivi di simmetria del sistema.
Se la disciplina punta ad evitare risparmi illegittimi d’imposta, atteso l’utilizzo non imprenditoriale dei beni a fronte, invece, di un utilizzo privato degli stessi, è dimostrabile, attingendo ad alcune realistiche casistiche, che tale convenienza non è affatto pacifica, anzi. La novella disciplina prevede, altresì, l’indeducibilità da parte del soggetto concedente dei costi relativi ai beni in parola, oltre alla configurabilità di un reddito diverso in capo all’utilizzatore, rappresentato dal differenziale tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo pattuito per il godimento. Nel caso del reddito prodotto dagli immobili “patrimonio” non locati di una immobiliare di gestione, tutti i componenti negativi di reddito, secondo quanto sopra, sono già completamente indeducibili.
La circolare n. 23/2012 dell’Agenzia ha specificato esistere, in riferimento a questa nuova disciplina, un “criterio di specialità” e, pertanto, la presenza di norme che già forfetizzano i criteri di inerenza dei costi neutralizzano le disposizioni del DL 138/2011 in merito alla deducibilità dei costi in capo al concedente, fermi restando comunque gli altri obblighi, vale a dire l’obbligo della comunicazione e la tassazione del reddito diverso in capo all’utilizzatore. Questo passaggio risolve le problematiche legate al limitato riconoscimento di costi da parte del TUIR, esempio tipico l’art. 164, ma lascia ancora aperta la questione relativa al caso qui rappresentato, ovvero di costi già totalmente indeducibili per legge.
Sembra davvero curiosa la sovrapposizione delle disposizioni predette, con contorni che, quand’anche non riconducibili ad incostituzionalità, dovrebbero consentire di poter attingere all’istituto dell’interpello preventivo, per disapplicare la normativa nei casi in cui non si realizzi nessun illegittimo e dimostrabile risparmio d’imposta. Per l’acconto di novembre, navigazione a vista.
 / Marco CRAMAROSSA FONTE EUTEKNE

Illegittima la chiusura dei locali per omessa verifica del misuratore fiscale

Sanzioni amministrative

Illegittima la chiusura dei locali per omessa verifica del misuratore fiscale

La C.T. Reg. di Torino ricorda che la sanzione accessoria va applicata solo nei casi previsti dalla Legge

/ Mercoledì 28 novembre 2012
L’art. 12, comma 3, del DLgs. 471/97 stabilisce che, nel caso di omessa installazione dei misuratori fiscali, può essere applicata la sanzione accessoria consistente nella sospensione della licenza o dell’autorizzazione commerciale per un periodo da quindici giorni a due mesi. Alla luce del principio di legalità, si ritiene che la sanzione accessoria richiamata possa operare solo nel caso espressamente previsto, quindi nell’omessa installazione del misuratore fiscale, e non nella diversa fattispecie relativa all’omessa verifica periodica.
Del resto, la mancata tempestiva richiesta di manutenzione è sanzionata dal terzo comma dell’art. 6 del DLgs. 471/97, con una pena da 258 a 2.065 euro.
La disciplina fiscale dei registratori di cassa è contenuta in provvedimenti normativi secondari, i quali, oltre a considerare la tempistica nonché la modalità della manutenzione, di fatto assimilano l’omessa installazione all’omessa verifica periodica.
In particolare, l’art. 8 del provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 28 luglio 2003 prevede che i contribuenti non possono utilizzare misuratori fiscali che non siano stati sottoposti alla manutenzione periodica, effettuando, mediante una finzione giuridica, una sorta di equiparazione tra omessa installazione e omessa verifica.
Talvolta, gli uffici ritengono di applicare, sulla base di ciò, anche al caso dell’omessa verifica periodica la sanzione accessoria relativa alla chiusura del locale commerciale per un periodo da quindici giorni a due mesi.
La C.T. Prov. di Alessandria, sezione 6 sentenza n. 69 del 30 agosto 2010 ha censurato tale condotta, in base al principio, come anticipato, di legalità.
Più di recente, la stessa interpretazione è stata fatta propria dalla Regionale di Torino (sentenza dello scorso 24 maggio n. 29/24/12).
Vale solo l’omessa installazione del misuratore
I giudici affermano che, in base al provvedimento direttoriale richiamato, è chiaro che l’omessa verifica è, agli occhi del Fisco, pari all’omessa installazione, ma non può essere revocato in dubbio che una previsione sanzionatoria deve avere una copertura legislativa: in altri termini, la condotta sanzionabile non può mai essere ampliata per effetto di un provvedimento amministrativo.
Una simile interpretazione è “in contrasto con il principio della precisione della norma punitiva e della legalità delle sanzioni tributarie in quanto in violazione del principio del divieto di rinvio della norma sanzionatoria ad un regolamento dell’esecutivo”.
Concludendo, le sanzioni possono essere irrogate solo se hanno la loro base in una fonte primaria, e non secondaria, “che necessariamente definisce in modo preciso le condotte rimproverabili e di conseguenza commina la pena per la loro violazione”.
 / Alfio CISSELLO

Rettifica del prezzo senza autonoma rilevanza impositiva

reddito d'impresa

Rettifica del prezzo senza autonoma rilevanza impositiva

In caso di acquisto di partecipazioni sociali o di un’azienda, la rettifica non determina alcuna novazione del contratto originario di compravendita

/ Mercoledì 28 novembre 2012
Il trattamento fiscale delle rettifiche del prezzo di acquisto di partecipazioni sociali o di un’azienda in capo all’acquirente non IAS adopter è di non sempre facile interpretazione (per gli effetti in capo al venditore, si veda “La rettifica del prezzo «impatta» sul venditore di azienda o di partecipazioni” del 26 novembre). Il principio che deve guidare la ricerca delle soluzioni più coerenti è quello secondo cui la revisione del prezzo prevista dalle clausole contrattuali non determina alcuna novazione del contratto originario di compravendita; pertanto, la rettifica in aumento o in diminuzione del corrispettivo non deve assumere autonoma rilevanza impositiva, ma deve risultare, in linea di principio, inscindibilmente legata agli effetti derivanti dal pagamento del corrispettivo originario.
Se il contratto di compravendita riguarda partecipazioni sociali, un incremento del prezzo rispetto a quello originario determina un aumento del costo della partecipazione, mentre se il prezzo definitivo è inferiore al prezzo originario, ne deriva un decremento del costo della partecipazione. In tal senso si esprime la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 154/2004.
Può accadere che, intanto, tra la data di acquisto delle partecipazioni e quella in cui si verifica la revisione del prezzo, sia avvenuta una fusione per incorporazione della società target nella società acquirente. In tal caso, non è possibile rettificare il costo di acquisto della partecipazione nella società target in quanto, a seguito della fusione, la partecipazione è stata sostituita dai beni della target. La rettifica, quindi, andrebbe riferita all’eventuale disavanzo di fusione (non fiscalmente riconosciuto); in particolare, l’aumento del prezzo avrebbe determinato un maggior disavanzo e, quindi, un aumento del valore dei beni su cui lo stesso è stato allocato. Al riguardo, va osservato che, poiché l’integrazione del prezzo dovrebbe seguire la sorte fiscale del bene cui si riferisce ed essendo la partecipazione annullata e trasformata in un bene con valore fiscalmente non riconosciuto, anche la revisione prezzo non dovrebbe assumere alcuna rilevanza fiscale. Sul punto, non risultano chiarimenti degli organi competenti.
Laddove oggetto della compravendita sia, invece, un’azienda, il corrispettivo originario rappresenta il valore fiscalmente riconosciuto di quest’ultima; la rettifica del prezzo comporta, quindi, una variazione di tale valore ammortizzabile e la conseguente rimodulazione delle quote future di ammortamento. Nella gran parte dei casi, l’incremento di prezzo viene portato in aumento dell’avviamento iscritto in bilancio per effetto dell’acquisizione stessa.
Un esempio può chiarire meglio la fattispecie. In ipotesi di acquisto di azienda che ha originato un’iscrizione dell’avviamento per 700, e di revisione in aumento del prezzo per un importo pari a 100, il “nuovo” valore di iscrizione in bilancio dell’avviamento è pari a 800 e il maggior valore iscritto assume rilievo anche ai fini fiscali. Gli ammortamenti dedotti in passato non subiscono alcuna rettifica, ma ciò che varia sono soltanto le quote di ammortamento future, fermo restando che la conclusione dell’ammortamento fiscale del valore dell’avviamento rettificato deve avvenire nel periodo minimo previsto dall’art. 103 del TUIR (18 periodi di imposta). Nel nostro esempio, diamo per presupposto che nei primi tre esercizi siano stati dedotti ammortamenti complessivi dell’avviamento per 116,67 (700/18= 38,89*3) e che, quindi, il valore residuo sia pari a 583,33; la variazione del prezzo di 100 interviene nel quarto esercizio ed è allocabile sull’avviamento, determinando quote di ammortamento future pari al rapporto tra il valore rettificato (dato dalla somma del valore residuo di 583,33 e di 100 di maggior prezzo) e il numero dei periodi di imposta che mancano per la conclusione del periodo di ammortamento (18-3=15). Tali quote future sono quindi pari a 45,56 (683,33/15).
L’Agenzia delle Entrate ha anche chiarito che tale criterio va applicato anche nel caso inverso in cui la revisione del prezzo comporti una diminuzione del corrispettivo dovuto.
In conclusione, va osservato che, dal punto di vista contabile, la revisione del prezzo originario genera effetti meramente patrimoniali; infatti, all’incremento/riduzione del costo della partecipazione o dell’azienda corrisponde l’incremento/riduzione del debito aperto nei confronti del cedente o della liquidità.
 / Luca MIELE
FONTE:EUTEKNE

La cessione totalitaria di quote sociali non è elusiva

Imposta di registro

La cessione totalitaria di quote sociali non è elusiva

Per la Regionale di Milano, quindi, il relativo atto non può essere riqualificato dal Fisco come una cessione d’azienda

/ Mercoledì 28 novembre 2012
Non è elusiva la cessione totalitaria delle quote sociali di una srl e, pertanto, il relativo atto non può essere riqualificato dal Fisco come una cessione d’azienda. Lo ha ribadito la C.T. Reg. di Milano, con la sentenza n. 94/22/12 del 27 settembre 2012.
I due soci di una srl avevano ceduto insieme la totalità delle quote sociali ad un’altra srl, versando l’imposta di registro relativa all’atto di cessione in misura fissa pari a 168 euro ex art. 11 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR 131/1986. Successivamente, però, l’Ufficio, ai sensi dell’art. 20 di quest’ultimo decreto, riqualificava l’atto registrato come cessione d’azienda, applicando l’imposta di registro in misura proporzionale (con aliquote variabili in funzione delle tipologie dei cespiti aziendali, ma generalmente del 3% se non vi sono immobili) e irrogando le relative sanzioni ed interessi.
Mette conto di ricordare brevemente che l’ultima disposizione sopra citata prevede che l’imposta di registro è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente. Pertanto, l’Ufficio aveva riqualificato l’atto in cessione d’azienda, a prescindere dal fatto che il suo titolo fosse quello di una cessione di quote sociali.
Gli ex soci impugnavano gli avvisi di liquidazione, contestando il comportamento del Fisco, che avrebbe illegittimamente utilizzato il predetto art. 20 alla stregua di una norma generale antielusiva, in effetti non prevista ai fini dell’imposta di registro (a differenza, invece, delle imposte dirette), ed inoltre non avrebbe considerato che la società a cui erano state cedute le quote era una holding e, pertanto, la sua attività istituzionale era proprio quella di detenere partecipazioni in altre società.
I giudici di prime cure si pronunciavano a favore dei ricorrenti solo parzialmente, disponendo l’annullamento delle sole sanzioni, atteso che l’operazione era stata ritenuta elusiva, come prospettato dall’Ufficio. Con essa, infatti, secondo il collegio provinciale, i soci avevano di fatto ceduto l’azienda, anche se formalmente si trattava soltanto di un trasferimento di quote sociali, ottenendo così un indebito vantaggio fiscale, costituito dalla minore imposta di registro dovuta in misura fissa, anziché proporzionale, come previsto per le cessioni d’azienda.
Ai fini della riqualificazione, peraltro, l’Ufficio aveva anche stimato il valore dell’azienda e del suo avviamento ai sensi dell’art. 51 del DPR 131/1986, attribuendole il valore venale in comune commercio dei beni che la costituivano, compreso l’avviamento, al netto delle passività risultanti dai libri contabili. Tali valori, a cui l’Ufficio aveva applicato l’imposta di registro in misura proporzionale, erano stati ritenuti congrui dai giudici di prime cure.
I soci si rivolgevano, allora, alla C.T. Reg., che si è pronunciata completamente a loro favore. Il collegio d’appello ha stabilito, infatti, che l’Ufficio aveva artatamente invocato il summenzionato art. 20 per riqualificare una cessione di quote sociali, che aveva soltanto la specifica finalità di trasferire le quote e non quella ulteriore di porre in essere una cessione indiretta d’azienda, come erroneamente asserito dal Fisco.
I contribuenti non hanno raggirato alcuna norma fiscale
Secondo il collegio del riesame, i contribuenti non avevano raggirato alcuna norma fiscale e, quindi, l’Ufficio non era legittimato a riqualificare l’operazione in cessione d’azienda, giungendo persino a quantificarne il suo valore ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale. Tanto più che si verteva in ipotesi di imposte d’atto, che devono essere applicate sulla base del contenuto di quest’ultimo.
La C.T. Reg., così, riformando la pronuncia di primo grado, ha integralmente accolto l’appello degli ex soci, annullando totalmente gli avvisi di liquidazione.
Si evidenzia, in proposito, che appena qualche mese fa sulla questione era intervenuto anche il Consiglio Nazionale del Notariato, che, con lo studio 170-2011/T del 1° marzo 2012, aveva stabilito che non può essere riqualificata dall’Ufficio in cessione d’azienda la cessione totalitaria di quote sociali di una srl ad una persona fisica, che ne diviene così l’unico socio. Secondo il Notariato, benché le due operazioni siano sostanzialmente analoghe sotto il profilo economico, esse divergono profondamente dal punto di vista giuridico. La scelta dell’una o dell’altra opzione dipende dalla volontà dei contraenti, e l’Ufficio non può riqualificare l’operazione posta in essere né alla luce dell’art. 20 del DPR 131/1986, né in base a qualsivoglia ulteriore principio giurisprudenziale in materia di abuso di diritto.
 / Alessandro BORGOGLIO

iva Nuova IVA per cassa «in chiaro»


iva

Nuova IVA per cassa «in chiaro»

La circ. 44 emanata ieri dall’Agenzia contiene gli ultimi chiarimenti su volume d’affari, differimento della detrazione e operazioni escluse

/ Martedì 27 novembre 2012
Con la circolare n. 44/2012, emanata nella tarda serata di ieri, l’Agenzia delle Entrate completa il mosaico relativo alla nuova IVA per cassa, di cui all’art. 32-bis del DL 83/2012, a pochi giorni dall’entrata in vigore della stessa, prevista al prossimo 1° dicembre. Dopo aver ricordato che l’entrata in vigore del regime in questione comporta l’automatica abrogazione della precedente IVA di cassa, di cui all’art. 7 del DL 185/2008, che si differenzia in quanto applicabile in relazione alla singola operazione, l’Agenzia riassume tutto il quadro normativo concernente la materia (oltre all’art. 32-bis, infatti, è necessario tener conto del decreto attuativo dell’11 ottobre 2012 e del provvedimento direttoriale del 21 novembre che ha fissato modalità e termini per l’esercizio dell’opzione).
Relativamente alle caratteristiche generali del “cash accounting” (termine coniato dalla stessa Agenzia), la circolare n. 44 ricorda che l’opzione esercitata dal soggetto passivo comporta il differimento dell’esigibilità dell’imposta di tutte le operazioni attive effettuate verso cessionari o committenti soggetti passivi all’atto del pagamento del corrispettivo (sia pure entro il limite massimo di un anno, salva l’ipotesi di assoggettamento a procedure concorsuali dell’acquirente o committente), nonché il corrispondente rinvio della detrazione dell’imposta sugli acquisti al medesimo momento di pagamento dell’imposta, fermo restando l’esercizio del diritto alla detrazione nei modi ordinari in capo all’acquirente o committente che non abbia optato per l’IVA di cassa.
Relativamente al limite massimo di volume d’affari, pari a 2 milioni di euro (cui concorrono tutte le operazioni, comprese quelle con IVA per cassa), l’Agenzia ricorda che tale soglia deve essere verificata nell’anno precedente, o per i soggetti che iniziano l’attività si deve aver riguardo a quello presunto, e che in caso di superamento in corso d’anno l’opzione cessa a partire dal mese o trimestre successivo, con la conseguenza che nell’ultima liquidazione deve essere computata sia l’imposta a debito, sia quella a credito ancora “sospesa”.
Per quanto riguarda il differimento della detrazione in capo al soggetto che esercita l’opzione, che riguarda tutte le operazioni passive, l’Agenzia ricorda che lo stesso sorge all’atto del pagamento del corrispettivo e comunque decorso un anno dall’effettuazione dell’operazione, e può essere esercitata secondo le condizioni esistenti in tale ultimo momento (effettuazione dell’operazione ex art. 6), così da evitare, precisa l’Agenzia, “che la percentuale di detraibilità spettante possa essere determinata in ragione del momento in cui il prezzo è corrisposto e, quindi, rimessa alla determinazione del cessionario/committente in regime di Iva per cassa”. Relativamente al termine ultimo per l’esercizio della detrazione, la circolare in commento precisa che la stessa può essere effettuata al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui è stato pagato il corrispettivo, in quanto è in tale momento che sorge il diritto alla detrazione.
In merito alle operazioni escluse, dopo aver evidenziato che, nell’ambito delle operazioni effettuate con i privati, non si deve tener conto di quelle effettuate con enti non commerciali, anche se utilizzate in parte per l’attività istituzionale, per le quali si rende quindi applicabile il regime di IVA per cassa, si conferma l’esclusione di tutte le operazioni per le quali si applicano regimi speciali (tra cui non sono ricomprese quelle per le quali è previsto un differimento dei termini di registrazione, come nel caso degli autotrasportatori, di cui all’art. 74, comma 4, del DPR 633772), di quelle “differiteex art. 6, comma 5, del DPR 633/72, in quanto già soggette ad IVA per cassa “a regime”, delle operazioni soggette a reverse charge e di quelle non imponibili (art. 41 del DL 331/93, e artt. 8, 8-bis e 9 del DPR 633772). Dal lato degli acquisti, oltre a quelle espressamente escluse (operazioni in reverse charge, acquisti intracomunitari, importazioni ed estrazioni dai depositi IVA), l’Agenzia ricorda che la detrazione per “cassa” riguarda tutti gli acquisti, sia pure in presenza di operazioni attive escluse dal regime in questione.
Infine, per gli adempimenti si conferma quanto già precisato dal provvedimento direttoriale del 21 novembre e, in particolare, l’obbligo di indicazione in fattura la dicitura “IVA di cassa”, l’opzione per comportamento concludente con vincolo triennale e l’entrata in vigore al prossimo 1° dicembre 2012, che costituisce un anno intero per coloro che opteranno sin dalla predetta data.
 / Sandro CERATO

Per gli enti non commerciali, esenzione IMU condizionata

immobili

Per gli enti non commerciali, esenzione IMU condizionata

Il DM 19 novembre 2012 n. 200 definisce le caratteristiche che devono avere gli enti non commerciali per godere dell’esenzione
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/ Martedì 27 novembre 2012
Ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. i) del DLgs. 504/92, richiamato dall’art. 9, comma 8 del DLgs. 23/2011, sono esenti da IMU gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lett. c) del TUIR, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’art. 16, lett. a) della L. 222/85.
Mentre il comma 2 dell’art. 91-bis del DL 1/2012 esamina l’ipotesi di utilizzo misto in cui l’attività di natura non commerciale sia svolta in una determinata porzione dell’unità immobiliare, il successivo comma 3 dispone che, nel caso di utilizzazione mista ove non sia possibile identificare gli immobili o le porzioni di immobili adibiti esclusivamente all’attività di natura non commerciale, a partire dal 1° gennaio 2013, occorre applicare l’esenzione in misura proporzionale all’utilizzazione non commerciale dell’immobile come risulta da apposita dichiarazione.
La definizione delle modalità e delle procedure per l’applicazione proporzionale dell’esenzione dall’IMU per quest’ultime unità immobiliari (quelle disciplinate dal comma 3), sono stabilite dal DM 19 novembre 2012 n. 200, che è stato pubblicato nella G.U. n. 274 dello scorso 23 novembre (si veda “In Gazzetta il decreto IMU sugli enti non commerciali” del 24 novembre).
Anzitutto, l’art. 3 del DM n. 200/2012 definisce i requisiti generali che devono avere le attività istituzionali svolte con modalità non commerciali. Infatti, l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente non commerciale deve prevedere:
- il divieto di distribuire utili a meno che la destinazione o la distribuzione non sia imposta per legge oppure sia effettuata a favore di enti con le stesse finalità;
- l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili e avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività solidaristiche;
- l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale, in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga un’analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta dalla legge.
Entro il 31 dicembre 2012 gli enti non commerciali dovranno predisporre o adeguare il proprio statuto ai sopraelencati principi generali.
Inoltre, in relazione alla tipologia di attività esercitata, sono richiesti dall’art. 4 del DM n. 200/2012 altri requisiti speciali. In particolare, è previsto che si considerano effettuate con modalità non commerciali:
- per le attività assistenziali e sanitarie: quelle che, in caso di accreditamento o convenzione con l’ente pubblico, sono svolte in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico e prestano a favore dell’utenza (alle condizioni previste dal diritto dell’Unione europea e nazionale) servizi gratuiti, salvo eventuali importi di partecipazione alla spesa previsti dall’ordinamento per la copertura del servizio universale. Se non accreditate o convenzionate, invece, si considerano tali quelle svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali;
- per le attività didattiche: l’attività deve essere paritaria rispetto a quella statale, la scuola non deve discriminare l’accesso degli alunni, deve accogliere i portatori di handicap, applicare la contrattazione collettiva al personale docente e non docente, nonché svolgere gratuitamente l’attività, oppure dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio;
- per le attività ricettive, culturali, ricreative e sportive: sono svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivo di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale.
Il rapporto proporzionale tra l’utilizzo non commerciale e commerciale dell’immobile è determinato con riferimento alla superficie, al numero dei soggetti nei confronti dei quali le attività sono svolte e ai giorni durante i quali l’immobile è utilizzato per tali attività. Le percentuali determinate in seguito all’applicazione delle disposizioni contenute nel DM n. 200/2012 dovranno essere indicate per ciascun immobile nella dichiarazione IMU approvata dal DM 30 ottobre 2012.
Il nuovo regolamento sull’IMU, che è stato pubblicato in G.U. lo scorso venerdì, è già sotto la lente di Bruxelles, che dovrà verificarne la compatibilità con le norme UE e valutare se chiudere la procedura d’infrazione aperta contro l’Italia per le agevolazioni fiscali previste finora per gli enti non commerciali.
  Arianna ZENI FONTE:EUTEKNE

Quorum più impegnativo per le innovazioni condominiali «comuni»


immobili

Quorum più impegnativo per le innovazioni condominiali «comuni»

La riforma in materia prevede la doppia maggioranza degli intervenuti all’assemblea, oltre ad almeno i due terzi del valore dell’edificio

/ Martedì 27 novembre 2012
L’art. 1120 c.c., nel testo sinora vigente, regola le innovazioni disponendo (comma 1) che i condomini, con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 5 c.c. (maggioranza dei condomini e due terzi del valore dell’edificio), possono disporre tutte quelle dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, sottolineando che (comma 2) esse sono vietate se possano recare pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato, alterazioni al decoro architettonico o rendano talune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.
La riforma del condominio in parte modifica tale assetto, in quanto:
- mantiene i due citati principi generali, ma il nuovo comma 5 dell’art. 1136 c.c. prevede ora la doppia maggioranza degli intervenuti all’assemblea – e non più dei condomini – e, come già sinora, almeno i due terzi del valore dell’edificio;
- integra l’art. 1120 c.c. aggiungendo, tra il primo e l’ultimo comma di cui sopra, due altri commi relativi a innovazioni di particolare valenza sociale, per le quali è richiesta la più agevole maggioranza del nuovo comma 2 dell’art. 1136 per le assemblee in prima convocazione: anche in questi casi maggioranza degli intervenuti, ma sarà sufficiente che rappresenti la metà del valore dell’edificio.
Le innovazioni in questione sono le opere e interventi:
- volti a migliorare sicurezza e salubrità di edifici e impianti;
- per eliminare barriere architettoniche, contenere il consumo energetico dell’edificio, realizzare parcheggi a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio, per la produzione di energia mediante utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari, o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune;
- per l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e di accesso a qualunque genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto. Quest’ultima esclusione fa sì che, se sussistono le condizioni, sarà sufficiente il quorum delle assemblee in seconda convocazione (art. 1136, comma 3 c.c.): maggioranza degli intervenuti e un terzo del valore dell’edificio.
Non toccate le innovazioni che comportano spese molto gravose
Giova ricordare che la riforma del condominio non ha toccato l’art. 1121 c.c., che regola le innovazioni comportanti spese molto gravose o aventi carattere voluttuario e afferma il principio secondo cui, in tali casi e se le relative opere, impianti o manufatti sono suscettibili di utilizzazione separata, i condomini che non intendono trarne vantaggio sono esonerati dal contribuire, potendo peraltro, in ogni momento, partecipare ai vantaggi contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione; se l’utilizzazione separata non è possibile, l’innovazione non è consentita, salvo che la maggioranza che l’ha deliberata sopporti l’intera spesa.
In tutti i casi sopra precisati, elencati nel nuovo comma 2 – numeri da 1 a 3 – dell’art. 1120 c.c., l’amministratore è tenuto a convocare l’assemblea entro trenta giorni dalla richiesta anche di un solo condomino, che indichi contenuto specifico e modalità esecutive, in mancanza delle quali l’amministratore è tenuto a invitare senza indugio il condomino alle necessarie integrazioni.
La doppia maggioranza prevista (maggioranza degli intervenuti, metà del valore dell’edificio), ai fini di una valutazione comparativa, può essere posta a raffronto con i quorum, in qualche caso più blandi, sinora richiesti dalle leggi speciali, per
- la rimozione delle barriere architettoniche (art. 2 della L. 13/89), che richiama l’attuale art. 1136, commi 2 e 3 c.c.: in prima convocazione, maggioranza intervenuti e metà del valore ma, in seconda, un terzo dei condomini e un terzo del valore
- la realizzazione di parcheggi (art. 9 della L. 122/89), che richiama, sia per la prima che per la seconda convocazione, l’art. 1136, comma 2 c.c.: maggioranza degli intervenuti e metà del valore
- l’uso razionale dell’energia (art. 26 della L. n. 10/91), che prescrive la sola maggioranza delle quote millesimali.
 / Stefano BARUZZI FONTE:EUTEKNE

La rettifica del prezzo «impatta» sul venditore di azienda o di partecipazioni

reddito d'impresa

La rettifica del prezzo «impatta» sul venditore di azienda o di partecipazioni

Dovrebbe dar luogo a elementi positivi o negativi di reddito assoggettabili alle norme che hanno regolato l’imposizione del corrispettivo originario
/ Lunedì 26 novembre 2012
Accade sempre più frequentemente che, in caso di cessione di partecipazioni sociali o di aziende, le parti pattuiscano apposite clausole contrattuali per effetto delle quali il prezzo potrà subire una revisione, in aumento o in diminuzione, in dipendenza del conseguimento di certi obiettivi economici e/o finanziari (utile, MOL, fatturato, ecc) o per tenere conto di eventuali passività potenziali che potrebbero trovare manifestazione successivamente all’acquisizione, ma pur sempre aventi la loro origine in eventi riconducibili alla gestione passata.
Sulla base dei chiarimenti intervenuti nel corso degli anni da parte dell’Amministrazione finanziaria, i riflessi fiscali di tali clausole contrattuali, in riferimento a soggetti non IAS/adopter, dovrebbero essere analizzati partendo dal presupposto che gli aggiustamenti del prezzo vadano assoggettati allo stesso regime fiscale delle componenti di reddito che gli stessi vanno ad integrare. In altre parole, la rettifica del prezzo dovrebbe dar luogo a elementi positivi o negativi di reddito assoggettabili alle medesime disposizioni che hanno regolato l’imposizione del corrispettivo originario.
Dal punto di vista del venditore, se guardiamo alla cessione di partecipazioni sociali, ciò sta a significare che l’erogazione allo stesso di una somma andrà considerata come plusvalore che deve seguire il regime della participation exemption (art. 87 del TUIR), laddove la partecipazione è stata ceduta in parziale esenzione (tassazione del 5%), avendone i requisiti. Tale orientamento è confermato dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 13 luglio 2009 n. 184, secondo cui le rettifiche di prezzo vanno trattate in modo omogeneo rispetto alla plusvalenza originaria. Al contrario, se è il venditore a dover erogare una somma, la stessa dovrebbe essere non deducibile ai sensi dell’articolo 101 del TUIR, poiché le minusvalenze relative a partecipazioni che fruiscono della participation exemption sono indeducibili integralmente.
La fattispecie si presenta più complessa laddove la revisione del prezzo genera un componente di reddito che, se incassato in origine, avrebbe dato luogo a un componente di segno contrario rispetto a quello sorto all’epoca della cessione. Si pensi al caso in cui il cedente una partecipazione con valore fiscale pari a 1.000 abbia originariamente incassato un corrispettivo pari a 800 realizzando una minusvalenza di 200, non dedotta, e riceva un indennizzo (rettifica prezzo) pari a 300 che, se incassato in origine, avrebbe dato luogo a una plusvalenza di 100. Se l’indennizzo fosse tassato integralmente come sopravvenienza, si verificherebbe certamente una doppia imposizione relativamente al 5% della plusvalenza; l’effetto distorsivo deriva dalla circostanza che i componenti positivi sono tassati per il 5% e i negativi invece subiscono un’indeducibilità totale. Non vi è, come noto, perfetta simmetria nel regime della participation exemption. La soluzione più coerente dovrebbe invece essere quella di tassare al 5% solo la differenza tra il prezzo di cessione originario, aumentato della rettifica del prezzo, ed il valore fiscale della partecipazione. Nel nostro caso, l’importo da tassare non dovrebbe essere 300, ma solo 100 (800+300-1.000).
In caso di cessione di azienda, le rettifiche del prezzo dovranno partecipare alla determinazione del reddito del venditore secondo le regole dell’art. 86 del TUIR per le plusvalenze e dell’art. 101 per le minusvalenze. Ciò sta a significare che se la cessione dell’azienda ha dato luogo a una plusvalenza imponibile con i requisiti per la rateizzazione ai sensi del comma 4 dell’articolo 86, la rettifica del prezzo determina un aumento del corrispettivo originario al quale deve essere assicurato lo stesso trattamento della plusvalenza originaria. Laddove, invece, la cessione di azienda abbia dato luogo a una minusvalenza dedotta ai sensi dell’art. 101 del TUIR, la rettifica del prezzo determina un componente positivo di reddito che comunque non potrà beneficiare della rateizzazione, se tale rettifica sia di ammontare inferiore all’importo della minusvalenza già dedotta.
 Luca MIELE FONTE:EUTEKNE

Piena retroattività per la notifica incostituzionale della cartella

Riscossione

Piena retroattività per la notifica incostituzionale della cartella

In tal caso, non può valere il limite dei rapporti giuridici «esauriti», ovvero quelli «consumati» dalla decadenza

/ Lunedì 26 novembre 2012
In un recente articolo (si veda “Incostituzionale la notifica della cartella di pagamento all’irreperibile” del 23 novembre 2012), è stata segnalata la sentenza della Corte Costituzionale n. 258 del 2012, ove l’art. 26 del DPR 602/73 è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui prevede che, in ogni ipotesi di irreperibilità del contribuente (quindi sia in quella relativa che in quella assoluta), si sarebbe dovuto applicare l’art. 60, comma 1, lett. e) del DPR 600/73, ovvero la semplice affissione dell’atto presso la casa comunale, e non l’art. 140 c.p.c., che impone, prima del menzionato deposito, l’affissione dell’atto alla porta dell’abitazione del contribuente e l’invio della raccomandata a/r.
Come regola generale, le sentenze della Corte Costituzionale hanno efficacia retroattiva, con il limite dei “rapporti giuridici esauriti”, quindi ha rilievo la formazione della decadenza.
Esemplificando, si ipotizzi che la Consulta dichiari l’incostituzionalità dell’art. 42 del DPR 600/73 nella parte in cui non prevede che un determinato vizio cagioni la nullità dell’accertamento. In questa ipotesi, se la questione relativa al vizio oggetto della pronuncia della Consulta è stata censurata nel ricorso introduttivo, la sentenza può essere fatta valere anche dieci anni dopo il ricorso, ad esempio in Cassazione e salvo la formazione di giudicati “interni”.
Ma se il contribuente avesse lasciato decorrere i sessanta giorni per il ricorso, il tutto sarebbe “esaurito” e l’effetto della pronuncia della Consulta non potrebbe andare a beneficio del contribuente.
Vale quanto detto nel caso della sentenza 258/2012? A nostro avviso, la risposta è no. Applicando l’art. 26 del DPR 602/73, così come formulato prima del “ritocco” della Consulta, accadeva che il messo notificatore, non rinvenendo il contribuente presso la propria abitazione in quanto temporaneamente irreperibile (essendo magari al lavoro), depositava semplicemente l’atto presso il Comune, senza notiziare in maniera minima il notificatario.
Poi arrivavano i fermi, le ipoteche e quant’altro, allora il difensore si recava presso Equitalia, che come di solito avviene è assolutamente “impossibilitata” a rilasciare “nuovamente” la cartella e che, per questo motivo, fa una copia dell’estratto di ruolo, facendo presente che, siccome ai suoi occhi la notifica è legittima, sono imminenti gli atti esecutivi.
Magari sono passati un paio di anni, e la decadenza, dal perfezionamento “legale” della notifica della cartella, è ben formata.
Il contribuente non ha mai visto la cartella
Il contribuente deve impugnare l’estratto di ruolo, o il fermo o la comunicazione di ipoteca (del resto non c’è altra scelta, anche perché la cartella non viene più rilasciata).
Se ammettessimo che si applichi il principio dei “rapporti giuridici esauriti”, si verificherebbe un’enorme deviazione di giustizia, che comprimerebbe a dismisura il normale effetto retroattivo delle sentenze del Giudice delle Leggi. Più semplicemente, il contribuente subirebbe gli effetti di una decadenza dovuta proprio alla formulazione della legge che, per questo motivo, è stata poi dichiarata incostituzionale.
Torna applicabile un principio affermato dalla stessa Corte Costituzionale, nella sua ratio: il limite del “rapporto giuridico esaurito” non opera ove si controverta proprio sulla decadenza.
Allora, il limite della sentenza è individuabile non nel decorso dei sessanta giorni da quando “legalmente” la notifica della cartella si è perfezionata, ma dal decorso di sessanta giorni dalla notifica dell’atto con cui il contribuente è stato reso edotto della previa notifica della cartella, quindi dalla consegna dell’estratto di ruolo, dal preavviso di fermo o dalla comunicazione di ipoteca.
 / Alfio CISSELLO FONTE:EUTEKNE