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martedì 24 maggio 2011

Bancarotta fraudolenta impropria: anche i vecchi fatti devono cagionare il dissesto

Penale fallimentare

Bancarotta fraudolenta impropria: anche i vecchi fatti devono cagionare il dissesto

In mancanza della prova del nesso di causalità scatta l’«abolitio criminis»

/ Venerdì 20 maggio 2011
A fronte della modifica che l’art. 4 comma 1 del DLgs. 61/2002 ha apportato all’art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42 – precisando che la punibilità per bancarotta fraudolenta impropria è subordinata alla circostanza che i fatti indicati abbiano “cagionato o concorso a cagionare” il dissesto della società – ove dalla formulazione del capo di imputazione ovvero dalla motivazione della sentenza di condanna intervenuta prima della riforma non risulti che la condotta addebitata (nel caso di specie, di falsificazione del bilancio) sia stata configurata dal giudice come capace di avere cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, il reato di bancarotta fraudolenta impropria è destinato a cadere per l’operatività dell’abolitio criminis.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 9 marzo 2011 n. 9651.
Nel caso di specie, un consigliere di amministrazione di una spa fallita patteggiava, in data 15 maggio 2001, una pena, tra l’altro, per bancarotta fraudolenta impropria ex art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42, avendo fraudolentemente esposto in precedenti bilanci della società poi fallita fatti non rispondenti al vero ex art. 2621 c.c. previgente.
La disposizione penale fallimentare applicata, nella sua versione previgente, comminava la reclusione da tre a dieci anni agli amministratori di società dichiarate fallite che avevano commesso alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2623, 2628, 2630 primo comma c.c. (anch’essi previgenti). Il DLgs. 61/2002 ha riformato la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali. Si ricordano, in particolare, le modifiche alla fattispecie di false comunicazioni sociali. L’art. 4 comma 1 del DLgs. 61/2002 ha, inoltre, sostituito l’art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42, sancendo che la reclusione da tre a dieci anni si applica agli amministratori di società dichiarate fallite se questi hanno cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società commettendo “fatti” costituenti taluni reati societari (tra i quali figurano anche le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c.).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 16 giugno 2003 n. 25887, hanno stabilito che la nuova bancarotta fraudolenta impropria si pone in rapporto di continuità normativa con la precedente fattispecie. Tale continuità, tuttavia, non è assoluta; i fatti commessi nel vigore della precedente legge, infatti, restano punibili nei limiti in cui rientrano anche nella fattispecie descritta dalla nuova disciplina. In particolare, l’esistenza di un rapporto di continuità normativa è configurabile per quei fatti che, seppure commessi nel vigore della precedente disciplina, presentano puntualmente gli elementi richiesti dalla nuova norma, vale a dire: continuità tra vecchi e nuovi reati societari e nesso causale tra reato societario e dissesto della società. Quest’ultimo elemento, in particolare, pur non essendo specificamente richiesto, non era escluso e spesso costituiva oggetto di accertamento. La continuità normativa è, invece, da escludere per i fatti precedentemente commessi che non integrano le nuove fattispecie e, comunque, per quelli che, pur presentando tali caratteristiche, non hanno cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società.
In ragione di ciò, l’amministratore che aveva patteggiato la pena, ottenuta la rimessione in termini per la presentazione del ricorso per Cassazione con ordinanza del giudice dell’esecuzione, eccepiva la mancanza della contestazione e della prova del requisito del nesso di causalità tra condotta di falso e dissesto, come desumibile da altra sentenza che aveva assolto il “concorrente” (per la non sussistenza del fatto). La Suprema Corte – ricordando precedenti interventi dei Giudici di Legittimità – osserva che: l’abolitio criminis deve essere rilevata indipendentemente dall’oggetto del gravame e anche nel caso di ricorso inammissibile; nella fase dell’esecuzione, la revoca della sentenza a seguito di abolitio criminis opera anche con riguardo alla sentenza di patteggiamento, rispetto alla quale il giudice dell’esecuzione non deve compiere accertamenti di merito, ma solo valutare in astratto la fattispecie che ne costituisce l’oggetto; se nelle more tra la pronuncia della decisione impugnata e la trattazione del ricorso in Cassazione è intervenuta abolizione parziale, è alla decisione impugnata che la Suprema Corte deve fare riferimento per stabilire se gli elementi richiesti dalla nuova legge avevano o meno formato oggetto di accertamento giudiziale, provvedendo, in caso di esito positivo, a esercitare il suo giudizio e, in caso di esito negativo, ad annullare senza rinvio la decisione.
Nel caso di specie, né dalla formulazione del capo d’imputazione né dalla motivazione della sentenza emerge che il falso in bilancio sia stato inteso come capace di cagionare o concorrere a cagionare il dissesto della società. Opera, quindi, l’abolitio criminis. È fatta salva, peraltro, l’eventuale rilevazione di reati di minore gravità e in rapporto di continenza; in particolare, le fattispecie di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. Queste, peraltro, ove mai fossero da reputare sussistenti per il superamento delle soglie di punibilità in esse previste, sarebbero comunque prescritte.

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