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giovedì 19 maggio 2011

L’indeducibilità degli interessi passivi non contrasta con il diritto comunitario

diritto comunitario

L’indeducibilità degli interessi passivi non contrasta con il diritto comunitario

Per l’Avvocato della Corte UE, i limiti alla deducibilità sono compatibili con il regime di esenzione da ritenuta previsto dalla Direttiva 2003/49/CE
/ Venerdì 13 maggio 2011
Direttiva 2003/49/CE per la prima volta sotto l’esame della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
A sollevare la questione, nella causa C-397/09, è stata una società tedesca, interamente controllata dalla capogruppo olandese, che ha lamentato la presunta incompatibilità della propria normativa nazionale, che consente la deducibilità del solo 50% degli interessi passivi corrisposti, con la Direttiva stessa, la quale ha tra i suoi obiettivi quello di eliminare la doppia imposizione sugli interessi e sulle royalties infragruppo.
In data di ieri, 12 maggio 2011, l’Avvocato Generale Eleanor Sharpston ha depositato le proprie conclusioni sulla controversia, avallando la posizione dello Stato tedesco e confermando, quindi, la piena legittimità delle legislazioni fiscali degli Stati membri che pongono limiti alla deducibilità degli interessi passivi, prevedendo al contempo regimi di esenzione dagli obblighi di ritenute in uscita sugli interessi e sulle royalties in presenza dei requisiti previsti dalla Direttiva (tra cui, naturalmente, quello della partecipazione minima del 25%).
L’Avvocato Generale ha, in primo luogo, precisato che la Direttiva 2003/49/CE prevede l’esclusione dal prelievo di ritenute (quindi, di imposte) nello Stato di residenza del soggetto che paga gli interessi o le royalties, mentre la normativa nazionale oggetto della controversia pone limiti alla determinazione della base imponibile, che non costituisce oggetto della Direttiva stessa.
In secondo luogo, non sarebbero estensibili al caso in esame le conclusioni della stessa Corte di Giustizia (sentenza del 4 ottobre 2001 riguardante la causa C-294/99, Athinaïki Zithopoiia) relative alla Direttiva “madre-figlia”, che in taluni casi equiparano l’aumento del carico fiscale derivante dalla preclusione alla deducibilità di talune spese al prelievo di una ritenuta; nel caso in esame, infatti, il soggetto sottoposto ad accertamento è la società tedesca, mentre quello che beneficia dell’esenzione da ritenuta (mai messa in discussione dalla Corte di Giustizia, è bene ribadire) è un soggetto diverso, vale a dire la capogruppo olandese.
Infine, secondo l’Avvocato Generale la Direttiva 2003/49/CE è unicamente finalizzata all’eliminazione della doppia imposizione giuridica, escludendo proprio la doppia tassazione dello stesso soggetto in due Stati diversi; la pretesa di dedurre integralmente gli interessi passivi pagati alla capogruppo non rientrerebbe, quindi, nei diritti garantiti dalla Direttiva, avendo ad oggetto le modalità di calcolo dell’imposta sulle società di un soggetto (la società tedesca) differente rispetto a quello nei cui confronti il Legislatore comunitario ha previsto i benefici (la propria capogruppo).
Importanti conseguenze sul regime previsto dall’art. 96 del TUIR
Nonostante la causa in questione non sia ancora approdata a sentenza, essa presenta importanti conseguenze anche sulla situazione delle imprese italiane che corrispondono interessi a società del gruppo non residenti e che, in virtù dell’art. 26-quater del DPR 600/73 (attuativo della Direttiva 2003/49/CE), non applicano alcun prelievo in uscita; se, infatti, le conclusioni dell’Avvocato Generale fossero confermate, esse non avrebbero alcun titolo ad avanzare pretese nei confronti dell’Erario italiano per sostenere una deducibilità integrale degli interessi, senza – per fare l’esempio più lampante – le limitazioni previste dall’art. 96 del TUIR per incapienza del ROL. Significativa, al riguardo, è la posizione espressa nella controversia dallo Stato italiano, che ha presentato osservazioni scritte in linea con quelle avanzate dalla Germania a difesa della propria normativa.

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