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martedì 24 maggio 2011

Bancarotta fraudolenta impropria: anche i vecchi fatti devono cagionare il dissesto

Penale fallimentare

Bancarotta fraudolenta impropria: anche i vecchi fatti devono cagionare il dissesto

In mancanza della prova del nesso di causalità scatta l’«abolitio criminis»

/ Venerdì 20 maggio 2011
A fronte della modifica che l’art. 4 comma 1 del DLgs. 61/2002 ha apportato all’art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42 – precisando che la punibilità per bancarotta fraudolenta impropria è subordinata alla circostanza che i fatti indicati abbiano “cagionato o concorso a cagionare” il dissesto della società – ove dalla formulazione del capo di imputazione ovvero dalla motivazione della sentenza di condanna intervenuta prima della riforma non risulti che la condotta addebitata (nel caso di specie, di falsificazione del bilancio) sia stata configurata dal giudice come capace di avere cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, il reato di bancarotta fraudolenta impropria è destinato a cadere per l’operatività dell’abolitio criminis.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 9 marzo 2011 n. 9651.
Nel caso di specie, un consigliere di amministrazione di una spa fallita patteggiava, in data 15 maggio 2001, una pena, tra l’altro, per bancarotta fraudolenta impropria ex art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42, avendo fraudolentemente esposto in precedenti bilanci della società poi fallita fatti non rispondenti al vero ex art. 2621 c.c. previgente.
La disposizione penale fallimentare applicata, nella sua versione previgente, comminava la reclusione da tre a dieci anni agli amministratori di società dichiarate fallite che avevano commesso alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2623, 2628, 2630 primo comma c.c. (anch’essi previgenti). Il DLgs. 61/2002 ha riformato la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali. Si ricordano, in particolare, le modifiche alla fattispecie di false comunicazioni sociali. L’art. 4 comma 1 del DLgs. 61/2002 ha, inoltre, sostituito l’art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42, sancendo che la reclusione da tre a dieci anni si applica agli amministratori di società dichiarate fallite se questi hanno cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società commettendo “fatti” costituenti taluni reati societari (tra i quali figurano anche le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c.).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 16 giugno 2003 n. 25887, hanno stabilito che la nuova bancarotta fraudolenta impropria si pone in rapporto di continuità normativa con la precedente fattispecie. Tale continuità, tuttavia, non è assoluta; i fatti commessi nel vigore della precedente legge, infatti, restano punibili nei limiti in cui rientrano anche nella fattispecie descritta dalla nuova disciplina. In particolare, l’esistenza di un rapporto di continuità normativa è configurabile per quei fatti che, seppure commessi nel vigore della precedente disciplina, presentano puntualmente gli elementi richiesti dalla nuova norma, vale a dire: continuità tra vecchi e nuovi reati societari e nesso causale tra reato societario e dissesto della società. Quest’ultimo elemento, in particolare, pur non essendo specificamente richiesto, non era escluso e spesso costituiva oggetto di accertamento. La continuità normativa è, invece, da escludere per i fatti precedentemente commessi che non integrano le nuove fattispecie e, comunque, per quelli che, pur presentando tali caratteristiche, non hanno cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società.
In ragione di ciò, l’amministratore che aveva patteggiato la pena, ottenuta la rimessione in termini per la presentazione del ricorso per Cassazione con ordinanza del giudice dell’esecuzione, eccepiva la mancanza della contestazione e della prova del requisito del nesso di causalità tra condotta di falso e dissesto, come desumibile da altra sentenza che aveva assolto il “concorrente” (per la non sussistenza del fatto). La Suprema Corte – ricordando precedenti interventi dei Giudici di Legittimità – osserva che: l’abolitio criminis deve essere rilevata indipendentemente dall’oggetto del gravame e anche nel caso di ricorso inammissibile; nella fase dell’esecuzione, la revoca della sentenza a seguito di abolitio criminis opera anche con riguardo alla sentenza di patteggiamento, rispetto alla quale il giudice dell’esecuzione non deve compiere accertamenti di merito, ma solo valutare in astratto la fattispecie che ne costituisce l’oggetto; se nelle more tra la pronuncia della decisione impugnata e la trattazione del ricorso in Cassazione è intervenuta abolizione parziale, è alla decisione impugnata che la Suprema Corte deve fare riferimento per stabilire se gli elementi richiesti dalla nuova legge avevano o meno formato oggetto di accertamento giudiziale, provvedendo, in caso di esito positivo, a esercitare il suo giudizio e, in caso di esito negativo, ad annullare senza rinvio la decisione.
Nel caso di specie, né dalla formulazione del capo d’imputazione né dalla motivazione della sentenza emerge che il falso in bilancio sia stato inteso come capace di cagionare o concorrere a cagionare il dissesto della società. Opera, quindi, l’abolitio criminis. È fatta salva, peraltro, l’eventuale rilevazione di reati di minore gravità e in rapporto di continenza; in particolare, le fattispecie di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. Queste, peraltro, ove mai fossero da reputare sussistenti per il superamento delle soglie di punibilità in esse previste, sarebbero comunque prescritte.

Perdite su crediti: indeducibilità IRAP circoscritta

IRAP

Perdite su crediti: indeducibilità IRAP circoscritta

Per la Cassazione, il termine deve essere inteso in senso tecnico

/ Sabato 21 maggio 2011
Le perdite su crediti indeducibili ai fini IRAP sono soltanto quelle che si verificano quando il credito, già determinato nell’importo, è stato successivamente scontato o ridotto, ad esempio perché non incassato.
Non sono invece qualificabili come tali gli eventuali minori introiti che, nelle ipotesi in cui discendono dalla determinazione del credito, sono il risultato “di una definizione pattizia nella quale, pur eventualmente risultando il credito così definito inferiore a quanto unilateralmente preventivato dal creditore, è da escludere qualsivoglia connotato abdicativo”. Pertanto, tali oneri restano deducibili ai fini del tributo regionale.
È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11217 di ieri, 20 maggio 2011.
In particolare, l’art. 5, comma 3 del DLgs. 446/97 (per le società di capitali) e l’art. 5-bis comma 1 del medesimo DLgs. (per le società di persone e gli imprenditori individuali che non hanno optato per la determinazione del valore della produzione netta in base al bilancio) stabiliscono l’indeducibilità, ai fini IRAP, delle perdite su crediti, senza peraltro precisarne la nozione. Uguale disposizione era prevista nell’impianto normativo in vigore fino al 2007.
Intervenendo a giustificazione dell’indeducibilità, l’Amministrazione finanziaria (CM 26 luglio 2000 n. 148/E, § 2.1.2) ha osservato che tali componenti reddituali “riflettono il disallineamento tra il valore nominale e quello di realizzo dei crediti” e, come tali, “trovano origine e causa in momenti e fattori diversi da quelli che esprimono direttamente la gestione «caratteristica», «tipica» dell’impresa e, per ciò stesso, non incidono sulla formazione del valore della produzione”.
In altre parole, si tratta di oneri che non si manifestano nella fase genetica della produzione e dello scambio (il valore della produzione è stato già prodotto nel momento in cui i beni o i servizi sono stati ceduti), ma nell’eventuale e successiva fase della riscossione.
Deducibili i minori introiti derivanti da consensuale riduzione di prezzi
Analogo principio sembra rinvenirsi nella pronuncia in commento.
In particolare, secondo i supremi giudici, non è possibile ritenere che, in ambito IRAP, l’indeducibilità stabilita dalle suddette norme si riferisca alle perdite su crediti “intese genericamente, senza alcuna precisazione che consenta di attribuire al legislatore l’intento di differenziarne la disciplina in ragione della causa o della funzione economica di essa, ovvero per il fatto che il creditore presti il proprio consenso ad una riduzione del prezzo del bene o del servizio”.
Sussiste dunque, sia sul piano giuridico sia su quello economico, una differenza ontologica tra i predetti minori introiti e le perdite su crediti, essendo queste ultime configurabili soltanto quando già sussiste un credito in senso economico e giuridico.
Per questo, deve ritenersi che, all’interno degli artt. 5, comma 3, e 5-bis, comma 1, del DLgs. 446/97, il termine “perdite su crediti” non sia stato utilizzato in senso atecnico. Ne deriva che i minori introiti scaturenti da un accordo in base al quale le parti determinano il prezzo definitivo del bene o del servizio non rientrano nell’ambito applicativo di tali disposizioni, con la conseguente relativa deducibilità.

Controlli 2011 su tre «fronti» per le persone fisiche

accertamento

Controlli 2011 su tre «fronti» per le persone fisiche

L’attività di controllo, che punta in misura considerevole sul redditometro, si snoderà lungo tre direttrici

/ Sabato 21 maggio 2011
Anche per le persone fisiche, così come per le medie imprese, la circolare n. 21/2011 dell’Agenzia delle Entrate, diramata in materia di controlli per l’anno in corso, conferma i percorsi metodologici che hanno caratterizzato le analoghe attività svolte lo scorso anno.
Per questa categoria di soggetti, la “triade” dei controlli che farà la parte del leone sarà composta:
- dal piano di controlli “formali” delle dichiarazioni dei redditi, ex art. 36-ter del DPR n. 600/1973, fondato essenzialmente sui più rilevanti rischi di esposizione di deduzioni dal reddito complessivo e/o di crediti o detrazioni d’imposta non spettanti;
- dal piano di accertamenti parziali cosiddetti “automatizzati”, in materia di imposte sui redditi, ad alta potenzialità di recupero della cosiddetta “micro-evasione”;
- dal piano straordinario di controlli finalizzati alla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche, previsto dal DL n. 112/2008.
Analizziamoli distintamente al fine di evidenziare gli aspetti di maggiore interesse per professionisti e contribuenti.
Per i controlli delle dichiarazioni dei redditi, quindi aspetti legati essenzialmente alla corrispondenza di ritenute, deduzioni e detrazioni con la documentazione probante, continueranno a giungere agli Uffici periferici le segnalazioni effettuate a livello centrale, che comportano, come noto, la richiesta di documentazione al contribuente ai sensi dell’art. 36-ter del DPR n. 600/1973.
In proposito, vale la pena ricordare che, anche per questa attività di controllo “formale”, il DL n. 78/2010 ha previsto la predisposizione di un’analisi di rischio, grazie alla quale la circolare non fa mistero di attendersi un incremento delle maggiori imposte effettivamente recuperate.
Passando agli avvisi di accertamento parziale “automatizzato”, fermo restando che si prospetta un incremento del loro numero rispetto al 2010, l’Agenzia tiene la barra ferma a dritta nei confronti dei redditi di lavoro dipendente, a fronte dell’assenza di dichiarazione ovvero con dichiarazione presentata, e dei redditi di fabbricati, la cui attribuzione è passata di recente al Centro operativo di Pescara.
Non solo: il raggio di azione si amplierà anche con riferimento ai redditi “diversi”, da quadro RL, e ai redditi “di partecipazione”, da quadro RH, per il biennio 2006 e 2007 grazie agli elenchi che, elaborati a livello centrale, saranno recapitati alle Direzioni provinciali.
Nuove campagne di accessi per migliorare la conoscenza del territorio
Infine, gli accertamenti sintetici, in ragione della necessità di completare entro il 2011 il piano straordinario triennale contemplato dal DL n. 112/2008: la circolare, in proposito, fermo restando il raggiungimento dell’obiettivo di almeno 35.000 controlli, richiama gli Uffici a una migliore attività di analisi e selezione volta ad incrementare i risultati rispetto a quanto è stato fatto nel corso del 2010.
In merito, la circolare invita gli Uffici periferici a rivolgere lo sguardo sul territorio ricadente sotto la propria competenza, in ragione del fatto che un focus a livello locale non può che essere maggiormente puntuale delle elaborazioni effettuate a livello centrale sulla sola scorta delle risultanze dell’Anagrafe tributaria.
Il documento prospetta, addirittura, l’avvio di apposite campagne di accessi finalizzate all’acquisizione di dati ed elementi propedeutici alla maggiore conoscenza del territorio e, conseguentemente, all’utilizzo nella fase accertativa sintetica: una sorta di controllo economico del territorio che la Guardia di Finanza, per analoghe finalità ma con impiego di risorse decisamente più rilevanti, svolge già da un triennio.
Il tutto anche con la finalità di evitare l’avvio di “controlli che portino alla contestazione di un maggior reddito di ammontare esiguo (poche migliaia di euro), anche nel presupposto che in quest’ultimo caso la ricostruzione può risentire di una insufficiente qualità probatoria delle presunzioni utilizzate”.

Credito IVA detraibile anche se non riportato nella dichiarazione successiva

Iva

Credito IVA detraibile anche se non riportato nella dichiarazione successiva

Le operazioni passive da cui il credito è sorto devono essere registrate o risultare dalle liquidazioni periodiche effettuate

/ Lunedì 23 maggio 2011
Il credito IVA non indicato nella dichiarazione dell’anno successivo, ma in quello che segue, può essere detratto, ovvero chiesto a rimborso. È il principio sostenuto dalla C.T. Prov. di Frosinone con la sentenza n. 222 del 13 dicembre 2010, che ha accolto il ricorso proposto dal contribuente contro la cartella di pagamento emessa a seguito del controllo automatizzato, ex art. 54-bis del DPR n. 633/72, della dichiarazione relativa all’anno 2006.
Nel caso esaminato, l’Ufficio ha contestato l’omesso versamento IVA derivante dal mancato riconoscimento dell’eccedenza d’imposta maturata nel 2004, utilizzata in compensazione nel 2006 dopo che era stata riportata “a nuovo” dapprima nel 2005 e poi, per la parte residua, corrispondente al credito IVA non detratto né compensato, nell’anno oggetto della pretesa erariale (2006). Dai fatti in causa si evince che, per le annualità 2004 e 2005, le dichiarazioni presentate erano errate, per cui le stesse sono state rettificate, a favore dell’Amministrazione finanziaria, nel rispetto del termine quadriennale previsto dal combinato disposto dell’art. 2, comma 8 del DPR n. 322/98 e dell’art. 57, comma 1 del DPR n. 633/72. Inoltre, nella dichiarazione relativa al 2004 è stata espressa la volontà di rinviare il credito maturato all’anno successivo, mentre nella dichiarazione relativa al 2005 è stata omessa l’indicazione del trasferimento dell’eccedenza detraibile residua al 2006, senza presentare, successivamente, una dichiarazione rettificativa a proprio favore, ex art. 2, comma 8-bis del DPR n. 322/98.
La sentenza dà ragione al contribuente, posto che – in base al consolidato orientamento della Cassazione – il credito IVA, se correttamente maturato ed indicato nella prima dichiarazione utile, non viene perduto. In altri termini, “ove il contribuente fruisca di un credito d’imposta per un determinato anno e lo esponga nella dichiarazione annuale, se omette di riportarlo nella dichiarazione relativa all’anno successivo non perde il diritto alla detrazione” (Cass. n. 12012/2006). Tale principio, avallato dall’Amministrazione finanziaria, è stato dalla stessa esteso all’ipotesi in cui la dichiarazione dell’annualità successiva risulti omessa (cfr. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 74/2007). D’altra parte, in tema di accertamento induttivo conseguente all’omessa presentazione della dichiarazione IVA, la Suprema Corte, in aderenza all’art. 55, comma 1 del DPR n. 633/72, ha stabilito che dall’imposta dovuta vanno scomputati non solo i versamenti effettuati, ma anche il credito maturato nell’anno precedente che sia stato portato in detrazione nell’anno successivo, previa annotazione nel registro degli acquisti (Cass. n. 8602/96).
In definitiva, il credito IVA emergente dalla dichiarazione annuale può essere detratto/rimborsato anche se non indicato nella dichiarazione in cui è stato riportato “a nuovo” (compresa l’ipotesi in cui la dichiarazione stessa risulti omessa), purché le operazioni passive da cui esso è scaturito siano state registrate o risultino dalle liquidazione periodiche effettuate e non sia decorso il termine biennale di decadenza previsto, per l’esercizio della detrazione, dall’art. 19, comma 1, ultimo periodo del DPR n. 633/72 (si veda la sentenza della Cassazione n. 7472 del 31 marzo 2011). La ratio su cui si fonda la giurisprudenza richiamata va ritrovata nel riconoscimento del rimborso quale espressione del diritto di detrazione, cioè, di un principio posto alla base della neutralità dell’imposta: sicché negare o rendere eccessivamente difficile la procedura di recupero dell’IVA attraverso il rimborso equivale, in definitiva, a negare il diritto stesso della detrazione.
Questa conclusione è avvalorata dalla recente giurisprudenza comunitaria (causa C-107/10, Enel Maritsa Iztok 3), secondo cui le modalità stabilite dal singolo Stato membro per il riporto dell’eccedenza detraibile ad un periodo successivo o per il suo rimborso devono rispettare il principio di neutralità fiscale. Il soggetto passivo, infatti, deve essere in grado di recuperare, in condizioni adeguate, cioè, nel rispetto del principio di effettività, l’intero credito IVA, fermo restando l’obbligo degli Stati membri di verificare le dichiarazioni, i documenti e le scritture contabili, oltre a calcolare e a riscuotere l’imposta dovuta.
Da ultimo, merita richiamo la ris. n. 74/2007, secondo cui, una volta scaduto il termine entro cui poter esercitare il diritto alla detrazione (ossia con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto), è possibile recuperare il credito IVA solo attraverso il procedimento di rimborso di cui all’art. 21 del DLgs. n. 546/92. Dunque, se la dichiarazione è stata omessa e, quindi, il credito non è stato detratto, il dies a quo per la presentazione della relativa istanza – che la richiamata norma identifica con il “pagamento” dell’imposta – non è la data di versamento dell’imposta al fornitore ma quella (successiva) in cui il contribuente ha definitivamente scelto di non recuperare il credito spettante: si tratta, per l’appunto, del termine di presentazione della dichiarazione del secondo anno successivo a quello che ha dato origine alla detrazione.

Tutela inadeguata negli accertamenti esecutivi, nonostante il DL sviluppo

Accertamento

Tutela inadeguata negli accertamenti esecutivi, nonostante il DL sviluppo

Il contribuente rimane passibile di fermi e ipoteche decorsi 90 giorni dalla notifica dell’accertamento

/ Martedì 24 maggio 2011
È ormai noto che il Legislatore, con il recentissimo DL 70/2011 (c.d. “Decreto Sviluppo”), ha modificato in parte il sistema degli accertamenti esecutivi, intendendosi per tali gli accertamenti imposte sui redditi/IVA/IRAP emessi a partire dal prossimo 1° luglio.
Il contribuente, ricevuto un accertamento esecutivo, deve versare, se fa ricorso, la metà degli importi entro il termine per l’impugnazione, quindi entro i sessanta giorni; in caso di inadempienza, le somme verranno date in carico ad Equitalia decorsi trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, quindi decorsi 90 giorni dalla notifica dell’accertamento, salvo cause di sospensione del termine per il ricorso, ad esempio derivanti dall’istanza di adesione.
Chiaramente, essendo l’accertamento a questo punto un atto esecutivo, il contribuente potrà chiedere la sospensiva unitamente al ricorso, senza obbligo di attendere che il credito venga dato “in carico” ad Equitalia.
Da più parti era stata evidenziata la necessità di una modifica del sistema, siccome i tempi procedimentali per l’inizio della riscossione sono più ristretti se comparati con quelli relativi alla concessione della sospensiva.
Infatti, se, potenzialmente, il pignoramento e le misure cautelari possono essere disposti decorsi 90 giorni dalla notifica dell’atto, è raro che il contribuente riesca ad ottenere, in tempi così brevi, la sospensiva, anche se sussistessero i presupposti per la sospensiva d’urgenza.
A tali inconvenienti ha inteso rimediare il DL sviluppo, e così è stato previsto che la presentazione della sospensiva inibisce l’esecuzione forzata (quindi il pignoramento, non le misure cautelari quali ipoteche e fermi) sino all’emanazione dell’ordinanza sulla sospensiva stessa, ma, in ogni caso, non oltre 120 giorni dalla notifica della sospensiva (pertanto, dalla notifica del ricorso, siccome la sospensiva sarà nella maggior parte dei casi ivi inserita).
È chiaro che l’Ufficio, nel momento in cui dà il credito “in carico” ad Equitalia, dovrà informarla del fatto che è stata proposta la sospensiva, per evitare (come è successo spesso in passato, almeno sino alla direttiva Equitalia 10/2010) che l’esecuzione prosegua perché l’Agente della Riscossione “non ne sa nulla”.
Ora, non è certo che la Commissione tributaria riesca a pronunciarsi entro 120 giorni dalla notifica della sospensiva, specie alla luce del fatto che, nel sistema che verrà, i contribuenti chiederanno la sospensione, come detto, unitamente all’accertamento, il che implementerà sensibilmente il carico di lavoro delle Commissioni.
In sede di conversione il Parlamento può intervenire
Urge un ulteriore intervento del Legislatore, che ben potrà pronunciarsi in sede di conversione del decreto, agente sia sul sistema delle misure cautelari sia sul termine per la sospensione dell’esecuzione.
Appare evidente l’impossibilità di una modifica che stabilisca la sospensione dell’esecuzione sino alla sentenza che decide sul ricorso, come era stato anticipato da taluni prima del DL 70 del 2011, visto che ciò è incompatibile con la ratio del sistema degli accertamenti esecutivi.
Si potrebbe però accogliere, per ciò che concerne l’esecuzione, la proposta del CNDCEC (circolare 7 marzo 2011 n. 22), nel senso di inibirla sino alla decisione in merito alla sospensiva, senza alcuna limitazione temporale, e, in subordine, prevedere un limite temporale più ampio, conciliabile con i carichi di lavoro anche delle Commissioni più intasate del Paese.
In merito alle misure cautelari, è assurdo che, decorsi i 90 giorni, Equitalia possa fermare l’auto di un contribuente per un credito di 200 euro, quindi si prospetta di prevedere, un po’ come è già stato fatto per l’ipoteca, che il fermo, nel sistema degli accertamenti esecutivi, non può essere disposto per crediti inferiori a un certo limite, limite che eventualmente può essere individuato vagliando la tipologia di contribuente in questione.
Alla stessa conclusione si deve giungere per l’ipoteca (già non adottabile per crediti inferiori agli ottomila euro), specie alla luce del fatto che essa è idonea a compromettere i rapporti con le banche in merito alla concessione del credito, a volte indispensabile per l’impresa.

Torna la sospensione «amministrativa» & AUTOTUTELA

Torna la sospensione «amministrativa»

L’Agenzia delle Entrate obbliga i proprio Uffici, con la recente circolare 21, ad esaminare sistematicamente istanze di sospensione e di autotutela
/ Martedì 24 maggio 2011
Saranno i venti contrari che soffiano sulla riscossione, sarà il monito del Direttore Befera ai propri dipendenti, ma stando almeno a quanto scritto nella circolare n. 21/2011 sembra che nell’anno in corso assisteremo alla resurrezione dell’istanza di sospensione “amministrativa” e di autotutela, o meglio, alla restituzione a queste istanze di una qual certa efficacia per il contribuente che le produce.
Cominciamo con l’istanza di sospensione, da avanzare ai sensi dell’art. 39 del DPR n. 602/1973, strumento ormai caduto nel dimenticatoio in ragione della posizione, di pressoché sistematico rigetto, assunta negli anni dagli Uffici finanziari.
Questa disposizione, che premette come il ricorso contro il ruolo non sospenda la riscossione, contempla che, tuttavia, l’Ufficio abbia facoltà di disporla in tutto o in parte fino alla data di pubblicazione della sentenza della Commissione tributaria provinciale, con provvedimento motivato notificato all’agente della riscossione e al contribuente. Detto provvedimento, però, può essere revocato ove l’Ufficio riscontri la sopravvenienza di un fondato pericolo per la riscossione.
La circolare diramata la scorsa settimana evidenzia che le istanze di sospensione presentate a seguito di ricorso contro il ruolo per vizi propri dello stesso dovranno essere tutte puntualmente esaminate: tanto per fare qualche esempio, potrebbe essere il caso della notifica di una cartella di pagamento notificata in assenza della precedente notifica dell’avviso di accertamento dal quale discenderebbe o, ancora, di una cartella relativa a un avviso di accertamento che, anziché recare l’iscrizione provvisoria – ossia il 50% delle maggiori imposte e dei relativi interessi come da atto impositivo notificato in precedenza – contempla un ruolo “straordinario” e, quindi, l’iscrizione di tutte le somme richieste nel precedente atto originario (per i profili di illegittimità del ruolo che l’ha originata).
Si tratta, però, di casi numericamente minoritari rispetto alla platea delle sospensioni che possono riguardare le cartelle di pagamento derivanti dalla consueta attività di accertamento: ebbene, la circolare non tralascia questa tipologia di atti, contemplando la possibilità di sospendere l’avviso nell’ambito del più ampio potere di autotutela.
È qui opportuno ricordare che nell’art. 2-quater del DL n. 564/1994, rubricato “Autotutela”, il comma 1-bis stabilisce che nel potere di annullamento o di revoca proprio dell’istituto giuridico dell’autotutela deve intendersi compreso anche quello di disporre la sospensione degli effetti dell’atto che appaia illegittimo o infondato.
Questo passo della circolare, decisamente garantista se alle intenzioni – e sussistendone i presupposti – seguiranno poi i fatti concreti a cura dei competenti Uffici, impone al professionista la sistematica implementazione dei propri step difensivi: laddove ci siano ragioni di ritenere infondato, anche soltanto in parte, l’atto impositivo, è indispensabile anteporre a tutte le azioni esperibili post notifica dello stesso l’istanza di autotutela/sospensione.
Infatti, visto che la circolare sottolinea sin d’ora l’obbligo per i dipendenti uffici di istruire “la totalità delle istanze di sospensione presentate nel caso in cui il contribuente contesti, anche parzialmente, il fondamento dell’avviso di accertamento o rettifica emesso nei suoi confronti, chiedendone l’annullamento in sede di autotutela”, l’opportunità in esame può prospettare tutta la sua proficuità non soltanto per i nuovi accertamenti esecutivi, ma anche per gli atti impositivi che continueranno ad innescare l’attuale regime frazionato tra atto impositivo e cartella di pagamento (si tratta di atti aventi per oggetto periodi d’imposta precedenti al 2007 ovvero avvisi che, pur avendo per oggetto annualità d’imposta dal 2007 in avanti saranno emessi dagli Uffici anteriormente al prossimo 1° luglio).
La concessione cessa con la notificazione di un nuovo atto
È quasi superfluo sottolineare, a questo punto, che istanze del genere preludono al necessario corredo in termini di controdeduzioni e documenti, idonei a convincere l’Ufficio riguardo l’opportunità di procedere con la sospensione, nelle more di una decisione avente per oggetto il medesimo atto nei cui confronti è stata avanzata l’istanza di autotutela.
Non va dimenticato, infatti, che l’eventuale concessione della sospensione degli effetti dell’atto, disposta prima della proposizione del ricorso giurisdizionale, cessa con la notificazione, da parte dell’Ufficio competente, di un nuovo atto, modificativo o confermativo di quello sospeso: fermo restando che il contribuente, a questo punto, può impugnare, insieme all’atto “originario” anche quello “modificato” o “confermato”.

giovedì 19 maggio 2011

Piccoli imprenditori al test dell’autonoma organizzazione

ilcasodelgiorno

Piccoli imprenditori al test dell’autonoma organizzazione

L’esclusione da IRAP va valutata in base agli stessi criteri utilizzati per i professionisti

/ Giovedì 19 maggio 2011
Quest’anno, anche i “piccoli” imprenditori (es. tassisti, idraulici, elettricisti, ecc.), prima di procedere alla redazione della dichiarazione IRAP 2011 e all’effettuazione dei relativi versamenti, devono chiedersi se, con riferimento al periodo d’imposta 2010, possano ritenersi privi di “autonoma organizzazione” e, come tali, considerarsi esclusi dall’obbligo di corresponsione del tributo.
È questo l’effetto delle pronunce della Suprema Corte intervenute nella seconda parte del 2010, che hanno esteso anche a tali soggetti i principi in base ai quali verificare la sussistenza di un’autonoma organizzazione, in precedenza ritenuti applicabili soltanto agli artisti e ai professionisti, agli agenti di commercio e ai promotori finanziari, nonché agli altri ausiliari del commercio (con specifico riferimento agli agenti assicurativi, il principio è stato ribadito, recentemente, dall’ordinanza n. 10851 del 17 maggio 2011).
In particolare, con l’ordinanza 24 giugno 2010 n. 15249, è stato considerato non soggetto ad IRAP un artigiano elettricista che svolge la sua attività avvalendosi di limitati beni strumentali e senza dipendenti o collaboratori.
Successivamente, sempre la Suprema Corte, con tre sentenze depositate in data 13 ottobre 2010 (nn. 21122, 21123 e 21124), ha affermato che non sono soggetti ad IRAP i piccoli imprenditori (nel caso di specie, un tassista, un coltivatore diretto e un artigiano) che svolgono la propria attività senza l’ausilio di un’autonoma organizzazione.
Infatti, secondo la Corte di Cassazione, i principi in base ai quali verificare la sussistenza del presupposto impositivo in capo agli esercenti arti e professioni sono estensibili anche ai soggetti di cui all’art. 2083 c.c., vale a dire:
- ai coltivatori diretti del fondo;
- agli artigiani;
- ai piccoli commercianti;
- a coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia.
In particolare, secondo le sentenze in commento, può accadere che un piccolo imprenditore:
- sia dotato di un’organizzazione minimale di beni strumentali;
- non si avvalga di lavoro altrui (se non occasionalmente).
Tale circostanza è sufficiente a far riconoscere l’esigenza, ai fini dell’assoggettamento ad IRAP, di una piena assimilazione dei piccoli imprenditori ai lavoratori autonomi, per garantire una parità di trattamento imposta dalla ratio del tributo.
In passato, “aperture” in questo senso erano già giunte da alcune Commissioni tributarie, anche se la questione sembrava essere stata risolta in senso negativo dalla Corte di Cassazione. In particolare, facendo proprio l’assunto della Consulta (sentenza 21 maggio 2001 n. 156), secondo cui “l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa d’impresa”, la sentenza della Suprema Corte 16 febbraio 2007 n. 3678 aveva sostenuto che “per le imprese (nelle quali vanno fiscalmente inquadrati anche i soggetti che operano in contabilità semplificata redigendo il Quadro G della dichiarazione dei redditi) il requisito dell’autonoma organizzazione è intrinseco alla natura stessa dell’attività svolta (art. 2082 del codice civile) e dunque sussiste sempre il presupposto impositivo idoneo a produrre VAP tassabile”. In altre sentenze, peraltro, tale aspetto non emergeva se non implicitamente (si veda, ad esempio, Cass. 2 aprile 2007 n. 8177). Ribadendo tale orientamento, la circ. Agenzia delle Entrate 13 giugno 2008 n. 45 (§ 7) aveva poi affermato che la produzione di reddito d’impresa implica sempre l’assoggettamento ad IRAP.
Tuttavia, alla luce dei principi sanciti dall’ordinanza n. 15249/2010 e dalle sentenze nn. 21122/2010, 21123/2010 e 21124/2010, tale impostazione deve essere rivista.
Contribuenti minimi esclusi per legge
Un discorso a parte meritano i contribuenti che si avvalgono del c.d. regime dei minimi, previsto dall’art. 1, commi 96-117 della L. 244/2007 (Finanziaria 2008), per i quali è prevista l’esclusione “ex lege” dal tributo. Sul punto, la circolare dell’Agenzia delle Entrate 13 giugno 2008 n. 45 (§ 5.4.2) aveva precisato che il presupposto dell’autonoma organizzazione può considerarsi insussistente anche per quegli artisti e quei professionisti che soddisfano i requisiti di accesso al regime, anche se concretamente non se ne avvalgono.
Nella circ. 28 maggio 2010 n. 28, l’Amministrazione finanziaria non è tornata sull’argomento. Tuttavia, le considerazioni formulate in precedenza inducono a ritenere che anche gli agenti di commercio, i promotori finanziari e gli altri “ausiliari” del commercio, nonché i “piccoli” imprenditori, la cui attività sia basata principalmente sul lavoro del titolare, possano ritenersi esclusi da IRAP qualora risultino in possesso dei requisiti per accedere al regime dei contribuenti minimi, anche se concretamente determinano il reddito d’impresa secondo i metodi ordinari.

La crisi della srl impedisce la restituzione dei finanziamenti ai soci

Diritto societario

La crisi della srl impedisce la restituzione dei finanziamenti ai soci

Finanziamenti inesigibili se «concessi» e «richiesti a rimborso» in presenza di rischio insolvenza

/ Lunedì 16 maggio 2011
La condizione di inesigibilità del credito del socio verso la società, ai sensi dell’art. 2467 c.c., può essere eccepita dagli amministratori della srl nei confronti del socio finanziatore solo quando il finanziamento sia stato disposto e il rimborso richiesto in presenza di una situazione di specifica crisi della società.
È questo l’interessante principio affermato dal Tribunale di Milano nella sentenza del 10 gennaio 2011, in relazione a una tra le più dibattute novità introdotte dalla riforma del diritto societario.
Il socio di una srl aveva concesso alla società un “finanziamento infruttifero immediatamente esigibile” del quale chiedeva la restituzione; otteneva dal Tribunale, quindi, un decreto ingiuntivo. La società si opponeva ritenendo non esigibile il credito in base a quanto sancito dall’art. 2467 c.c. Ai sensi di tale disposizione, infatti, il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito. Ai fini di cui sopra s’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento. Il socio chiedeva il rigetto dell’opposizione dal momento che la norma in questione avrebbe potuto trovare applicazione soltanto in ipotesi di liquidazione volontaria o concorsuale (inesistenti nel caso di specie) e non anche per tutta la durata dalla vita della società.
Il Tribunale di Milano osserva come la scarsa giurisprudenza intervenuta fino ad oggi in materia opti per l’applicazione della postergazione di cui all’art. 2467 c.c. solo nella fase di liquidazione volontaria e/o concorsuale (cfr. Trib. Milano 29 settembre 2005 e Trib. Milano 24 aprile 2007), senza, peraltro, fornire una specifica ricostruzione interpretativa. La dottrina è, invece, divisa. Secondo taluni, in presenza dei presupposti di cui all’art. 2467 comma 2 c.c., sia al momento del finanziamento che al momento della richiesta di rimborso, l’applicazione della postergazione anche durante societate si fonderebbe sul tenore letterale della disposizione, che non pone alcuna limitazione, e sulla ratio della stessa, volta a sanzionare i soci che hanno eluso il rischio del conferimento a capitale quando il loro soddisfacimento altera gli interessi degli altri creditori. Secondo altri, invece, la nozione stessa di postergazione, destinata ad operare in riferimento a un concorso tra creditori, e la previsione dell’obbligo di restituzione in capo al socio finanziatore solo se il rimborso sia avvenuto “nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento”, sarebbero chiari indici della necessità di un’applicazione della norma limitata all’ambito delle procedure esecutive individuali o concorsuali.
Il Tribunale di Milano ritiene necessario superare questa contrapposizione attraverso la formulazione di una nozione unitaria dei presupposti di cui all’art. 2467 comma 2 c.c.; nozione definibile come rischio di insolvenza che dà luogo a una sorta di concorso potenziale tra tutti i creditori della società. Cosicché, in sostanza, la condizione di inesigibilità del credito può essere eccepita dagli amministratori della srl nei confronti del socio finanziatore solo quando il finanziamento sia stato disposto e il rimborso richiesto in presenza di una situazione di specifica crisi della società. Questa soluzione interpretativa assicurerebbe oggettività sia al parametro dell’“eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto”, di opinabile lettura anche alla luce delle scienze economiche, sia al parametro della “situazione finanziaria che avrebbe reso ragionevole un conferimento”, dal momento che, in una situazione di crisi, sarebbe condotta “ragionevole”, appunto, non tanto del socio quanto del terzo, quella di non finanziare la società.
Essa, inoltre, sarebbe conforme alle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione nella sentenza 24 luglio 2007 n. 16393, che, in motivazione, con valore di mero obiter dictum (essendo la questione affrontata solo incidentalmente), ha stabilito che l’art. 2467 c.c. è destinato ad operare in “una fase in cui la società, in relazione all’attività in concreto esercitata, abbia la necessità delle risorse messe a disposizione dai soci (finanziatori) e non sia in grado di rimborsarli”, ovvero – sottolinea il Tribunale di Milano – in presenza di un concreto rischio di insolvenza. Tale conformità, tuttavia, sfuma ove si consideri un altro passaggio motivazionale della sentenza della Suprema Corte dove si afferma che l’art. 2467 c.c. è stato introdotto per le imprese che siano entrate “o stiano per entrare” in una situazione di crisi.

Mero gradimento: recesso sospeso anche per il trasferimento di quote

Diritto societario

Mero gradimento: recesso sospeso anche per il trasferimento di quote

La clausola di sospensione può essere introdotta in sede di modificazione dello statuto

/ Martedì 17 maggio 2011
In presenza di una clausola di mero gradimento o di intrasferibilità delle partecipazioni, lo statuto della srl può prevedere che il termine (massimo) di due anni di “sospensione” del diritto di recesso decorra anche dall’acquisto di una partecipazione già esistente. La clausola di sospensione del diritto di recesso, inoltre, può essere introdotta anche in sede di modificazione dell’atto costitutivo, stabilendo in tal caso che il termine (massimo) di due anni decorra dall’introduzione della clausola ovvero dalla sottoscrizione della partecipazione ovvero ancora dall’acquisto di una partecipazione già esistente. È quanto sancito dal Consiglio Notarile di Milano nella massima 5 aprile 2011 n. 119.
Ai sensi dell’art. 2469 comma 1 c.c., le partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo. Il secondo comma della citata disposizione precisa che, qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso. In tali casi l’atto costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non può essere esercitato. In ordine a tale disciplina, la massima in esame del Consiglio Notarile di Milano intende chiarire quale possa essere considerato il “dies a quo” ovvero il momento a partire dal quale decorre il periodo (al massimo biennale) durante il quale il recesso non può essere esercitato.
In primo luogo, quindi, si ritiene che possa costituire data di decorrenza del periodo di sospensione del recesso anche la data di acquisto o, più correttamente, di efficacia dell’acquisto nei confronti della società di una partecipazione già esistente. Depongono in tal senso: le osservazioni di una parte della dottrina secondo cui l’intento del Legislatore, nel formulare l’art. 2469 comma 2 c.c., sarebbe stato quello di impedire che il divieto dell’exit ecceda il termine di due anni dall’acquisizione della partecipazione, a nulla rilevando che tale acquisizione derivi da sottoscrizione di una nuova partecipazione ovvero dall’acquisto di una partecipazione già esistente; il fatto che l’omessa esplicita previsione dell’acquisto derivativo sia ragionevolmente motivabile nella possibile preesistenza, nello statuto della società, di una clausola di intrasferibilità; la configurabilità di esigenze di stabilità finanziaria della società (alla cui salvaguardia questa sospensione è normalmente intesa) anche a decorrere dall’acquisto a titolo derivativo, non apparendo convincenti le tesi secondo cui queste finalità sarebbero meritevoli di tutela solo se correlate a un’operazione di capitalizzazione con sottoscrizione di nuove quote; il testo della Relazione illustrativa del DLgs. 6/2003, dove si fa riferimento al momento dell’adesione del socio alla società (terminologia che appare suscettibile di ricomprendere sia il caso della sottoscrizione della partecipazione, sia quello del suo successivo acquisto).
Come evidenziato, inoltre, la clausola di sospensione del diritto di recesso è ritenuta suscettibile di inserimento anche in sede di modificazione dell’atto costitutivo, contestualmente con l’inserimento della clausola di non trasferibilità o di mero gradimento ovvero in relazione a una clausola di non trasferibilità o mero gradimento già esistente (stabilendo che il termine massimo di due anni decorra dall’introduzione della clausola ovvero dalla sottoscrizione della partecipazione ovvero ancora dall’acquisto di una partecipazione già esistente). A sostegno di tale conclusione sono addotte le seguenti argomentazioni: la dovuta considerazione dell’altra data di decorrenza prevista dal Legislatore, coincidente con la sottoscrizione di una nuova quota (il che può ben avvenire, appunto, in relazione a un aumento di capitale eseguito nel corso della vita dell’ente); il raffronto con la disciplina vigente in tema di spa, che – all’art. 2355-bis c.c. – equipara alla data di costituzione della società, ai fini del computo e del decorso del termine massimo di indisponibilità delle partecipazioni da quella norma consentito, la (successiva) data in cui il vincolo di indisponibilità viene introdotto mediante modificazione statutaria; la possibilità, sostenuta da una parte della dottrina, di interpretare la locuzione “costituzione della società”, utilizzata in questa norma, come riferita anche alle vicende modificative di tale costituzione.
L’inserimento della sospensione non è causa di recesso
Si osserva, infine, che l’inserimento del periodo di sospensione del recesso nel corso della vita della società non integra, in favore dei soci che non abbiano consentito alla relativa delibera, una causa di recesso ai sensi dell’art. 2473 comma 1 c.c. Tale norma, infatti, annovera tra le cause legittimanti l’esercizio del diritto in questione l’eliminazione di una causa di recesso prevista dall’atto costitutivo; nel caso in esame, invece, si è in presenza di una mera sospensione temporanea di una causa di recesso prevista dalla legge.

La responsabilità sociale dell’impresa e il ruolo dei professionisti

deontologia

La responsabilità sociale dell’impresa e il ruolo dei professionisti

Ieri, in un convegno organizzato dalla fondazione Telos, si è parlato di etica, partendo dai principi enunciati nell’Enciclica «Caritas in Veritate»

/ Mercoledì 18 maggio 2011
ROMA - Etica e responsabilità sociale d’impresa. Lo sviluppo dell’azienda orientato alla massimizzazione del profitto contro quello volto alla redistribuzione, quantomeno parziale, del guadagno ottenuto. Sono stati questi i temi trattati nel corso del convegno Etica professionale e d’impresa nell’Enciclica Caritas in Veritate, organizzato dalla Fondazione Telos e tenutosi nella sede dell’Ordine dei dottori commercialisti ed esperti contabili di Roma. Una location voluta fortemente dalla fondazione, nella convinzione che i professionisti siano una parte importante dello sviluppo economico, con la loro capacità di assistere e orientare le scelte degli imprenditori.
Si è tornati, dunque, a parlare di responsabilità sociale, di tecnica e sviluppo, mercato e speculazione, grazie allo spunto offerto dall’ultima Enciclica scritta da Papa Benedetto XVI, un vero e proprio saggio di “etica economica”. “In realtà – ha spiegato il presidente della Fondazione Telos, Giovanni Castellani, che ha introdotto i lavori –, sono anni che si alimenta il dibattito tra i sostenitori della “stockholder view”, per i quali gli amministratori hanno il solo dovere etico di massimizzare il profitto, e quelli della “stakeholder view”, convinti che il dovere etico è rivolto a rispettare i diritti di tutti coloro che hanno interesse nell’impresa”. Due visioni contrapposte che, per il Santo Padre, non sembrano più incompatibili.
“Nell’Enciclica – ha continuato Castellani –, il Papa spiega che la distinzione tra imprese finalizzate al profitto e organizzazioni non profit non sia più in grado di dare conto completo della realtà. In questi ultimi decenni è andata emergendo un’ampia area intermedia”. È il “terzo settore”, una realtà composita che coinvolge pubblico e privato, che “non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali”.
Secondo Castellani, dunque, si tratta di una contrapposizione superata, almeno dal punto di vista ideologico, nella speranza che lo diventi anche da quello giuridico: “Le informazioni contenute nei bilanci delle imprese, così come ora strutturati, non sono più in grado di rispondere alle aumentate aspettative della collettività”. Il Legislatore, con la modifica dell’art. 2428 c.c., ha tentato di imporre l’obbligo di fornire informazioni “non finanziarie” all’interno dei bilanci d’esercizio. “Ma lo ha fatto con l’inciso “se del caso”, terminologia ambigua che ha attenuato la cogenza dell’informativa non finanziaria. Recentemente, però, la Commissione Europea sembra orientata ad una revisione della IV Direttiva, imponendo, non più su base discrezionale, alle società di includere nei loro bilanci sezioni dedicate a fornire informazioni non finanziarie”.
Il terzo settore come pilastro dello sviluppo economico
Sul terzo settore ha incentrato parte del suo intervento anche Enrico Laghi, ordinario di Economia aziendale all’Università La Sapienza di Roma: “Per ampliare questo cosiddetto terzo settore, sarebbe opportuno che lo Stato intervenisse tramite una regolamentazione, incoraggiandolo e mettendolo al centro della realizzazione del welfare. Dando cioè al non profit dignità di terzo pilastro nel processo di sviluppo economico”. Per farlo, secondo Laghi, ci sarebbe bisogno di un complesso di norme che “definiscano un modello tipo di azienda non profit, così da disporre di regole chiare sulla loro amministrazione, sulla modalità di produzione, gestione e distribuzione delle risorse”. Perché sono proprio questi modelli d’azienda, quelli in cui “l’agire imprenditoriale e l’etica d’impresa trovano una naturale fusione”.
Etica e umanizzazione del mercato. Parole che il Pontefice ha voluto mettere al centro della sua Enciclica. “Il Papa – ha sottolineato padre Gian Paolo Salvini, direttore de La Civiltà Cattolica – ha indicato la strada per trasformare la depressione in una ripresa animata da principi etici. Ma proprio negli ultimi giorni, ha ribadito come, finora, sia stata un’occasione persa. Perché i presupposti che hanno dato luogo alla crisi, come la speculazione finanziaria, ci sono ancora tutti. Caritas in Veritate indica la strada per un’azione guidata dall’etica contro le tentazioni liberistiche”.
Il punto di rottura fatto segnare dall’Enciclica, secondo Salvini, sta proprio nell’aver affrontato, per la prima volta, anche il meccanismo dell’impresa: “Il Papa – ha concluso – non demonizza il mercato, che può offrire vantaggi a patto che non diventi il luogo delle sopraffazioni. Non demonizza lo sviluppo, però ricorda che non si tratta di fini, ma di mezzi per raggiungere il benessere comune. Chiede, inoltre, di recuperare la dimensione del gratuito, che già esiste, ma va valorizzata. Un cliente che, ad esempio, affida le proprie pratiche ad un professionista lo fa sulla scorta di una fiducia che non è vendibile. Ecco, la fiducia ha dentro di sé un elemento del gratuito, concetto che andrebbe recuperato ben oltre la dimensione della beneficenza”.

Le evidenti anormalità «inchiodano» gli amministratori

Diritto penale

Le evidenti anormalità «inchiodano» gli amministratori

La responsabilità consegue sia alla consapevolezza che dall’omissione possa scaturire reato che all’accettazione del rischio che esso si verifichi

/ Mercoledì 18 maggio 2011
L’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, assume doveri di vigilanza e controllo sull’andamento gestorio della società che si sostanziano in una posizione di garanzia ed il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale per l’affermazione della quale sono sufficienti la sola consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) ovvero l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale).
A precisarlo è la Corte di Cassazione nella sentenza 17 maggio 2011 n. 19284.
La società Alfa forniva alla società Beta i servizi di stoccaggio e deposito di prodotti petroliferi. Dopo qualche tempo emergeva un ammanco dai depositi della società Alfa di un ingentissimo quantitativo dei prodotti medesimi, al quale seguiva la ricognizione del debito da parte dell’amministratore della società Alfa. Ciò conduceva, in primo grado, ad una sentenza di condanna, ravvisandosi nella ricordata ricognizione una esplicita confessione di appropriazione indebita. La Corte d’Appello, invece, preso atto di ciò, nonché dell’infondatezza del rilievo difensivo relativo ad un pagamento per compensazione e dell’ambiguo comportamento processuale dell’amministratore, che, rimanendo contumace, si era sottratto alla possibilità di giustificare l’ammanco, concludeva nel senso che la violazione dell’obbligo di custodia non “colora” automaticamente tale condotta del dolo di appropriazione necessario ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 646 c.p., occorrendo la prova positiva di una condotta finalizzata alla “dispersione” dei beni.
La difesa della società Beta, costituitasi parte civile, ricorreva in Cassazione ai soli effetti civili, deducendo l’illogicità e contraddittorietà della motivazione proprio in relazione al mancato riconoscimento dell’elemento psicologico del delitto di appropriazione indebita, soluzione che rendeva privi di senso gli aspetti principali della condotta, ed in primo luogo la ricognizione di debito.
L’amministratore assume doveri di vigilanza e controllo
La Suprema Corte accoglie il ricorso, in quanto la conclusione dei giudici di appello non tiene conto del fatto che l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, assume doveri di vigilanza e controllo sull’andamento gestorio della società, che si sostanziano in una posizione di garanzia ed il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale per l’affermazione della quale sono sufficienti la sola consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) ovvero l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale).
Nessuna considerazione, inoltre, è riservata a due principi fondamentali in ordine ai reati imputati ex art. 40, comma 2 c.p. (ai sensi del quale non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo).
Il primo è che, in tal caso, l’elemento psicologico si configura secondo i principi generali: di conseguenza, è sufficiente che il “garante” abbia conoscenza dei presupposti fattuali del dovere di attivarsi per impedire l’evento e che si astenga, con coscienza e volontà, dall’attivarsi, con ciò volendo o prevedendo l’evento (nei delitto dolosi) o provocandolo per negligenza, imprudenza, imperizia o violazione di norme (nei delitti colposi e nelle contravvenzioni in genere).
Il secondo è che, in tema di personalità della responsabilità penale, in riferimento agli artt. 27 Cost. e 40 c.p. (rapporto di causalità), l’amministratore di una società non può essere automaticamente ritenuto responsabile, a causa della carica ricoperta, di tutte le violazioni penali verificatesi nella gestione della società; responsabilità che va esclusa quando lo stesso abbia preposto ai vari servizi soggetti qualificati ed idonei, forniti, tra l’altro, della necessaria autonomia e dei poteri discrezionali per la conduzione dei relativi affari.
Alla luce di tali principi, la Suprema Corte sottolinea come, diversamente da quanto sostenuto dai giudici di secondo grado, ai fini della responsabilità dell’amministratore per appropriazione indebita non sia affatto necessaria la prova positiva di una condotta finalizzata alla “dispersione” dei beni. Tanto più che la responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento può qualificarsi anche per il solo dolo eventuale, a condizione che sussista e sia percepibile dal soggetto la presenza di segnali perspicui e peculiari dell’evento illecito caratterizzati da un elevato grado di anormalità. Tale carattere è indubitabilmente presente nel caso di specie.
La sentenza, quindi, viene annullata ai soli effetti civili – fermi restando, quindi, quelli penali – con rinvio al competente giudice civile in grado di appello.

Dichiarazione di conformità XBRL al vaglio di Unioncamere

Bilancio

Dichiarazione di conformità XBRL al vaglio di Unioncamere

Si possono utilizzare i software messi a disposizione da Infocamere

/ Sabato 07 maggio 2011
La nuova versione del manuale operativo per il deposito dei bilanci al Registro delle imprese, reso disponibile da Unioncamere in data 27 aprile 2011, descrive le modalità per il deposito telematico dei bilanci da effettuare nel 2011, secondo anno di piena attuazione del formato elettronico elaborabile XBRL (DPCM 10 dicembre 2008).
La novità più rilevante è la nuova tassonomia (versione “2011-01-04”, ufficialmente operativa dal 30 marzo 2011 a seguito della comunicazione in Gazzetta Ufficiale n. 69 del 25 marzo 2011), che consente di eliminare alcune difficoltà riscontrate nel rendere corrispondente il prospetto contabile in formato XBRL al prospetto contabile approvato in assemblea, riducendo così in molti casi la necessità di doppio deposito (XBRL e PDF/A).
In particolare, è ora possibile:
- per il bilancio abbreviato, applicare il dettaglio della voce “A.VII - Altre riserve” del patrimonio netto nella medesima modalità prevista per i bilanci ordinari;
- dettagliare, attraverso una nota testuale a piè di pagina, le riserve non presenti nella tassonomia e raggruppate nella voce “Altre riserve” o “Altri conti d’ordine”;
- compilare il campo testo “Soggetto a direzione e coordinamento” per indicare il soggetto di cui all’art. 2497-bis c.c.;
- aggiornare la scheda anagrafica con tutte le informazioni richieste dall’art. 2250 c.c., così come modificato dall’art. 42 della L. 7 luglio 2009 n. 88 (Legge comunitaria 2008).
Il manuale ricorda che, come per il precedente anno, per la produzione dell’istanza XBRL relativa al prospetto contabile, si possono utilizzare i software disponibili sul mercato oppure gli strumenti gratuiti messi a disposizione da Infocamere sul sito webtelemaco.infocamere.it, sezione Bilanci>Xbrl.
Ai fini dell’invio, Unioncamere consiglia di predisporre una cartella in cui inserire tutti i documenti relativi al deposito. Su ogni documento deve essere presente:
- la denominazione della società;
- la firma digitale dell’amministratore, del professionista incaricato ex art. 31 comma 2-quater della L. 340/2000 (iscritto all’Albo del Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili) oppure del rappresentante cui sia stata conferita apposita procura ai sensi dell’art. 38 comma 3-bis del DPR 445/2000 (così come modificato dal nuovo Codice dell’amministrazione digitale).
Per tutti i documenti, ad eccezione del file XBRL, è necessario apporre il bollo in forma virtuale ed effettuare la trasformazione del file dal formato originario nel formato PDF/A. Il soggetto che firma digitalmente i documenti deve dichiarare la conformità del documento informatico all’originale conservato presso la società, indicando in calce agli stessi la seguente dicitura: “Copia corrispondente ai documenti conservati presso la società”.
Il manuale operativo fornisce, poi, alcune precisazioni in merito alla dichiarazione di conformità dei dati inseriti nel bilancio in formato XBRL, risolvendo così alcuni dubbi sorti tra gli operatori a seguito della circolare dell’Osservatorio istituito tra Unioncamere e CNDCEC (si veda “Bilanci 2010: da Unioncamere le istruzioni per il deposito” del 14 aprile 2011).
Più in particolare, se il prospetto contabile approvato dall’assemblea costituisce la rappresentazione a stampa del file XBRL, colui che firma digitalmente il documento dichiara, in calce alla Nota integrativa in formato PDF/A che “il documento informatico in formato XBRL contenente lo stato patrimoniale e il conto economico e la presente nota integrativa in formato PDF/A sono conformi ai corrispondenti documenti originali depositati presso la società”; in questo caso, il prospetto contabile viene depositato soltanto in formato XBRL.
Se, invece, il file XBRL differisce dal documento cartaceo approvato dall’assemblea, il prospetto contabile deve essere depositato anche in formato PDF/A e colui che firma digitalmente il documento dichiara, in calce alla Nota integrativa in formato PDF/A, che “lo stato patrimoniale e il conto economico sono redatti in modalità non conforme alla tassonomia italiana XBRL in quanto la stessa non è sufficiente a rappresentare la particolare situazione aziendale, nel rispetto dei principi di chiarezza, correttezza e veridicità di cui all’art. 2423 del codice civile”. È comunque necessaria la dichiarazione relativa alla conformità all’originale riferita alla Nota integrativa e agli altri documenti allegati (es. verbale assembleare, relazione del Collegio sindacale, ecc.).
Infine, nel caso in cui il prospetto contabile in formato XBRL firmato digitalmente rappresenti il file informatico originale conservato dalla società e approvato dall’assemblea, non è necessaria la dichiarazione di conformità e il documento è sottoscritto digitalmente dal legale rappresentante della società. Anche in questa ipotesi occorre inserire la dichiarazione relativa alla conformità all’originale riferita alla Nota integrativa e agli altri documenti allegati.

Per il 2011, medie imprese «sorvegliate speciali»

accertamento

Per il 2011, medie imprese «sorvegliate speciali»

Con la circ. 21 di ieri, l’Agenzia ha fornito istruzioni sull’attività di controllo, prevedendo interventi differenziati a seconda del tipo di contribuente

/ Giovedì 19 maggio 2011
Seppure in ritardo rispetto alla consueta emanazione nei primi mesi dell’anno, anche per il 2011 giungono le istruzioni agli Uffici finanziari riguardo all’attività di controllo da svolgere per l’anno in corso: per professionisti e contribuenti, la circolare n. 21 diramata ieri dall’Agenzia delle Entrate è un documento di assoluto rilievo, atteso che rappresenta l’unico atto del genere reso pubblico (le “comunicazioni di servizio” restano, ragionevolmente, riservate).
Il documento presenta diversi aspetti meritevoli di essere affrontati, che saranno oggetto di analitica e distinta trattazione su queste pagine, e prospetta spunti interessanti per quanto riguarda i controlli da effettuare nei confronti delle imprese di medie dimensioni, laddove viene espressa, senza mezzi termini, la necessità di intensificare l’attività di controllo a partire da quelle realtà che, celate da una bassa redditività, possono essere sintomatiche di un sottodimensionamento delle basi imponibili definito “diffuso” dall’estensore.
L’attività operativa in questione, anche in ragione delle recenti innovazioni normative apportate dal DL n. 78/2010, poggerà solidamente sull’analisi del rischio di evasione ed elusione, alla quale certamente contribuisce tanto la classificazione effettuata nell’ambito dell’Anagrafe tributaria – fasce di ricavi e di volume d’affari, natura giuridica, settore economico di appartenenza, redditi e perdite dichiarati, imposte dovute, eccetera – quanto alcune caratteristiche che, pur essendo anche “fisiologiche”, rappresentano un elemento suscettibile di attivare i “sensori” degli Uffici.
Segnatamente, la circolare prospetta la necessità di prestare attenzione a fenomeni di evasione/elusione suscettibili di coinvolgere imprese di medie dimensioni appartenenti a gruppi societari, nonché il fenomeno del turn-over nel comparto delle medie imprese e di “migrazione” di contribuenti fra Direzioni provinciali (quest’ultima condotta può rappresentare un espediente per consentire al contribuente di collocarsi in un’area che, densamente popolata a livello economico, permette la diminuzione del rischio statistico di essere sottoposto al controllo).
Attività concentrata sul periodo d’imposta 2008, con estensione al 2009
Ma un aspetto di grande interesse del documento è ravvisabile nel fatto che vengono impartite istruzioni agli Uffici circa la priorità da attribuire, in caso di elementi di rischio sostanzialmente equivalenti a carico di un contribuente, all’assenza di controlli nell’ultimo quadriennio e alla presenza di “perdite sistemiche” secondo la recente definizione introdotta sempre a cura del DL n. 78/2010.
Per quanto detto sinora, si può dedurre che un “trittico” composto da:
- bassa redditività su “serie storica”;
- assenza di controlli negli ultimi quattro anni;
- presenza di perdita “sistemica”, e quindi protratta per due esercizi consecutivi non determinata da compensi erogati ad amministratori o soci e a seguito della quale non siano stati deliberati e interamente liberati  nello stesso periodo uno o più aumenti di capitale a titolo oneroso di importo almeno pari alle perdite fiscali stesse;
rappresenta un corollario di circostanze che fanno impennare le possibilità di indurre l’Ufficio all’avvio di un controllo.
Laddove ciò si verificasse, l’attività operativa dovrebbe concentrarsi sul periodo d’imposta 2008, con estensione al successivo periodo d’imposta 2009 non appena saranno rese disponibili le procedure informatiche di supporto per l’analisi del rischio e la selezione.
E che il Fisco sia animato, almeno dal suo punto di vista, da buone intenzioni è attestato dal seguente passo, testuale, che chiude il paragrafo dedicato alle medie imprese: “Si rammenta, da ultimo, che dagli specifici piani di intervento, normativamente previsti per la macrotipologia di contribuenti in parola, sono attesi risultati rilevanti quanto all’ammontare di evasione pregressa effettivamente recuperato a seguito dei controlli”.

Sotto tiro IVA, studi di settore e lavoratori autonomi

Accertamento

Sotto tiro IVA, studi di settore e lavoratori autonomi

Anche le anomalie sulle rimanenze di magazzino attirano i verificatori, secondo quanto emerge dalla circolare 21 di ieri

/ Giovedì 19 maggio 2011
Nel dettare le istruzioni operative per i controlli 2011 (circ. 21/2011), l’Agenzia delle Entrate si sofferma in particolare modo sulle imprese di minori dimensioni e sui lavoratori autonomi.
Viene richiamata la nota del 14 febbraio scorso, ove sono stati illustrati vari esempi in merito a percorsi di analisi del rischio e di selezione, che concernono in particolare la platea di contribuenti soggetti agli studi di settore.
Infatti, il rischio di evasione, e la consequenziale necessità di controllo, viene rinvenuto nelle seguenti situazioni:
- soggetti che hanno presentato il modello per gli studi di settore e sono risultati non congrui, nei confronti dei quali occorre tenere rigorosamente presente l’obbligo di attivazione del contraddittorio preventivo, nonché la motivazione del successivo avviso di accertamento;
- soggetti congrui e “appiattiti” alle risultanze degli studi, e soggetti congrui a seguito di adeguamento significativo alle risultanze degli studi stessi;
- soggetti che, nonostante rientrino nel campo di applicazione degli studi, non hanno presentato il modello;
- soggetti per i quali non sono applicabili gli studi di settore;
- soggetti che hanno evidenziato perdite per più periodi d’imposta consecutivi.
A detto percorso metodologico vengono affiancate talune risultanze derivanti dall’Anagrafe tributaria, tra le quali rientrano i comportamenti anomali nella gestione del magazzino. Inoltre, attenzione viene dedicata altresì ai titolari di partita IVA che hanno omesso di dichiarare in tutto o in parte compensi di lavoro autonomo certificati dai sostituti d’imposta nei modelli 770, sui periodi d’imposta 2006 e 2007, e ai soggetti che, pur essendone obbligati, hanno omesso di presentare la dichiarazione IVA, sempre per i periodi d’imposta 2006 e 2007.
L’Agenzia delle Entrate rammenta espressamente il bisogno di incrementare l’attività di controllo nei confronti degli esercenti arti e professioni, privilegiando le indagini finanziarie quale modalità istruttoria.
Attenzione anche alle perdite per due esercizi consecutivi
Gli accessi “brevi”, poi, saranno finalizzati a verificare la correttezza nonché la veridicità dei dati dichiarati sempre ai fini dell’applicazione degli studi di settore, così come al controllo del rispetto in ordine agli “obblighi strumentali” e della regolarità del personale impiegato.
Viene poi dato spazio alle istruzioni riguardanti i grandi contribuenti, le persone fisiche, gli enti non commerciali, le società cooperative e l’attività di contrasto all’evasione internazionale. Non mancano, infine, istruzioni sull’attività di riscossione e sull’antifrode.
I suddetti argomenti saranno comunque oggetto di successivi interventi.
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La permanenza della GdF presso la sede deve essere per giorni «consecutivi»

Accertamento

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Il Legislatore inserisce nello Statuto dei diritti del Contribuente una norma chiaramente pro Fisco

/ Giovedì 19 maggio 2011
Si modificano costantemente le norme tributarie, ma i problemi rimangono irrisolti. Il riferimento riguarda la disposizione contenuta nell’articolo 7, comma 2, lettera c), del Decreto Sviluppo (DL n. 70/2011).
Viene introdotto un nuovo periodo all’articolo 12, comma 5, della L. n. 212/2000, meglio nota come Statuto del contribuente, per effetto del quale è disposto che il periodo di permanenza presso la sede del contribuente degli operatori civili e militari dell’Amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche, non può superare i quindici giorni, prorogabili di altri quindici giorni, in tutti i casi in cui il controllo riguarda soggetti in regime di contabilità semplificata ovvero lavoratori autonomi. Prosegue la nuova norma, “anche in tali casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili e militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente”.
Dopo la modifica, l’attuale situazione, dunque, è la seguente:
- la verifica nei confronti dei soggetti in contabilità ordinaria presso la sede del contribuente non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili di altri trenta giorni;
- la verifica nei confronti dei soggetti in contabilità semplificata e nei confronti dei lavoratori autonomi presso la sede del contribuente non può superare i quindici giorni lavorativi, prorogabili di altri quindici giorni.
In tutti i punti citati, la proroga deve avvenire solo nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’Ufficio.
Ciò che doveva essere modificato e precisato, per effetto anche dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza, non è stato fatto. Infatti, con le nuove disposizioni è stato chiarito che i quindici giorni devono considerarsi come lavorativi e di effettiva presenza dei menzionati operatori, mentre il Legislatore avrebbe dovuto precisare che i giorni devono considerarsi come consecutivi, il che è anche consono al corpo normativo in cui la norma è inserita, denominato “Statuto dei diritti del contribuente”.
La nuova norma diventa, in questa sede, momento necessario di critica in riferimento alla sua portata ed al suo ambito di applicazione, anche con riguardo alle recenti sentenze della giurisprudenza.
Questa ha assunto una posizione di garanzia per il contribuente. La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, per esempio, con la sentenza n. 12/2008, ha ritenuto che la norma di cui al citato articolo 12 debba interpretarsi in modo restrittivo, ossia calcolando la durata massima della verifica come sommatoria di sessanta giorni (30 + 30) lavorativi e consecutivi.
Sulla stessa scia è la sentenza n. 95/2007 della Commissione Tributaria Provinciale di Cuneo, confermata in Regionale con n. 26/2009, la quale ha ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento perché scaturente da una verifica protratta per trentuno giorni lavorativi senza proroga, anche se consecutivi.
Ancora, la “Provinciale” di Bari, sentenza n. 99/2010, ha annullato l’avviso di accertamento fondato sulle risultanze di una verifica di durata superiore ai trenta giorni lavorativi peraltro non consecutivi. In ultimo, a dar ragione su questa tesi è intervenuta la Suprema Corte con la sentenza n. 26689/2009, la quale conferma la consecutività del termine di trenta giorni, in quanto chiede al giudice del rinvio di misurare un arco temporale di tempo in cui si è sviluppata la verifica, circostanza questa non facilmente compatibile con una permanenza frazionata.
In sede di conversione occorre modificare la norma
Tanto precisato, è facile intuire che, dopo la novella introdotta con il decreto in esame, rimane il problema della consecutività della permanenza nella sede dell’azienda o dello studio professionale da parte dei verificatori, risolta a favore del Fisco. Come evidenziato, la giurisprudenza si è espressa favorendo l’effettuarsi della verifica in giorni lavorativi e consecutivi e nei limiti previsti dal citato articolo 12. Se si opina diversamente, si concede un potere discrezionale agli organi verificatori (che certamente non possiedono), che potrebbero eseguire verifiche fiscali per periodi indefiniti, mediante permanenze frazionate presso la sede del contribuente di certo contrastante con la ratio della norma ora esaminata.
La permanenza frazionata, dunque, è contraria al principio di certezza del diritto e di tutela delle situazioni giuridiche, di cui il contribuente gode a pieno titolo per effetto delle norme contenute nello Statuto del contribuente.
È auspicabile, quindi, che il Legislatore tenga conto di quanto manifestato dalla giurisprudenza, intervenendo, in sede di conversione del decreto, con una modifica della norma verso l’orientamento suddetto.

Imprese minori: spese sotto i 1.000 euro senza competenza

reddito d'impresa

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I costi sono deducibili nell’esercizio in cui è ricevuto il documento probatorio, anziché in base alla maturazione

/ Mercoledì 18 maggio 2011
Il DL 13 maggio 2011 n. 70 (c.d. Decreto Sviluppo) contiene specifiche disposizioni destinate ai contribuenti in regime di contabilità semplificata. Oltre all’innalzamento del limite dei ricavi fino a concorrenza del quale le imprese sono ammesse automaticamente al regime (su cui “Imprese: più facile l’adozione della contabilità semplificata” dello scorso 7 maggio), sono state introdotte, al ricorrere di specifiche condizioni richieste dalla norma, alcune deroghe al criterio di competenza fiscale.
In linea generale, si ricorda che le cosiddette “imprese minori”, vale a dire i soggetti che – secondo le norme del DPR 600/73 – sono ammessi al regime di contabilità semplificata e non hanno optato per la tenuta della contabilità in forma ordinaria, determinano il reddito d’impresa secondo le modalità stabilite dall’art. 66 del TUIR.
Il comma 3 della citata disposizione stabilisce che, per le imprese minori, si applicano, tra le altre, le disposizioni di cui all’art. 109 commi 1 e 2 del TUIR.
Riguardo ai criteri di imputazione temporale dei componenti positivi e negativi di reddito trova quindi applicazione, anche per le imprese in esame, il principio della competenza economica. Inoltre, i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti (e le spese di acquisizione dei medesimi si considerano sostenute):
- alla data in cui le prestazioni sono ultimate;
- ovvero, per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi.
Ora, all’art. 7 comma 1 lett. d) del DL 70/2011 viene previsto che, per singole spese non superiori a 1.000 euro, i contribuenti in regime di contabilità semplificata possono dedurre fiscalmente l’intero costo nel periodo d’imposta in cui ricevono la fattura.
Il successivo comma 2 lett. s) modifica, quindi, l’art. 66 del TUIR, stabilendo che i costi concernenti contratti da cui derivano corrispettivi periodici (quali, per esempio, i contratti di somministrazione di gas, luce, ecc.), relativi a spese di competenza di due periodi d’imposta e di importo (indicato dal documento di spesa) non superiore a 1.000 euro, sono deducibili nell’esercizio in cui è ricevuto il documento probatorio, anziché alla data di maturazione dei corrispettivi, come previsto ordinariamente dall’art. 109 comma 2 lett. b) del TUIR.
Le disposizioni non sono perfettamente coincidenti
La relazione al DL non contiene ulteriori precisazioni, salvo evidenziare come la disposizione introduca una deroga al generale principio di competenza economica, in favore del principio della registrazione ai fini IVA.
In merito, occorre tuttavia sottolineare, come già fatto in relazione ad altre disposizioni contenute nel DL (si veda “Accessi troppo lunghi senza bussola” del 17 maggio scorso), che la tecnica legislativa utilizzata può dare adito ad alcuni dubbi, stante la non completa coincidenza tra:
- quanto previsto dal comma 1 dell’art. 7, che dovrebbe esporre sinteticamente gli argomenti che sono oggetto delle norme di semplificazione ed eliminazione degli adempimenti tributari contenute nel comma 2;
- il contenuto del comma 2 del medesimo articolo, che dovrebbe introdurre una serie di disposizioni di dettaglio, volte a specificare le modalità di intervento delle misure enunciate nel comma 1.
Più in particolare, ai fini che qui interessano, il comma 1, che fa generico riferimento alle “singole spese”, ha una portata applicativa più ampia rispetto al comma 2, che si riferisce esclusivamente ai “costi, concernenti contratti a corrispettivi periodici”.
Quanto sopra potrebbe essere frutto di un errato coordinamento legislativo. Si auspica, comunque, che tale problematica venga risolta dal Legislatore in sede di conversione.

Detrazione del 36%, abolita la comunicazione di inizio lavori

AGEVOLAZIONI

Detrazione del 36%, abolita la comunicazione di inizio lavori

Il DL Sviluppo ha soppresso gli obblighi dell’invio al Centro operativo di Pescara e dell’indicazione in fattura del costo della manodopera

/ Mercoledì 18 maggio 2011
In relazione alla detrazione IRPEF del 36% per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, l’art. 7, comma 2 del DL n. 70/2011 (c.d. “Decreto Sviluppo”) pubblicato nella G.U. n. 110 di venerdì scorso, sopprime:
- l’obbligo di inviare la comunicazione di inizio lavori al Centro Operativo dell’Agenzia delle Entrate di Pescara;
- l’obbligo di indicare distintamente, nelle fatture relative ai lavori agevolati, il costo della manodopera.
In merito all’abolizione della comunicazione preventiva al Centro Operativo di Pescara, la lett. q) del citato art. 7, comma 2, modificando l’art. 1, comma 1, lett. a) del DM 18 febbraio 1998 n. 41, dispone che, ai fini dell’agevolazione in questione, è obbligatorio indicare nella dichiarazione dei redditi alcuni dati prima contenuti nella comunicazione di inizio lavori ed in particolare:
- i dati catastali identificativi dell’immobile oggetto di intervento;
- nel caso in cui i lavori siano effettuati dal detentore (es. conduttore), anziché dal possessore, gli estremi di registrazione dell’atto che costituisce il titolo per la detenzione (es. contratto di locazione);
- gli altri dati richiesti ai fini del controllo della detrazione (la locuzione utilizzata dal decreto appare generica e non viene specificato quali siano gli ulteriori dati che devono essere indicati nella dichiarazione).
Alcuni dati vanno ora indicati nella dichiarazione dei redditi
Dovranno essere conservati ed esibiti, su richiesta degli uffici, i documenti che saranno indicati in un apposito provvedimento dell’Agenzia delle Entrate. Tale provvedimento dovrebbe chiarire se i documenti che costituivano allegati obbligatori alla comunicazione di inizio lavori (soppressa) rientrino comunque tra quelli da conservare ed esibire su richiesta degli uffici a cura del contribuente, unitamente alle fatture o ricevute fiscali comprovanti le spese sostenute per gli interventi agevolati ed alla ricevuta dei bonifici di pagamento, per cui l’obbligo di conservazione è stabilito, ora come allora, dall’art. 1, comma 1, lett. b) del DM 18 febbraio 1998 n. 41.
In relazione alla soppressione dell’obbligo di indicare in fattura il costo della manodopera, si osserva che tale obbligo è stato introdotto a decorrere dalle spese sostenute dal 4 luglio 2006 (si veda l’art. 35, commi 19 e 20 del DL 4 luglio 2006 n. 223, convertito nella L. 4 agosto 2006 n. 248) ed è stato in seguito confermato dall’art. 1, comma 388 della L. n. 296/2006 (Finanziaria 2007), in relazione alla proroga dell’agevolazione per l’anno 2007, dall’art. 1 comma 19 della L. n. 244/2007 (Finanziaria 2008), in relazione alla proroga dell’agevolazione per gli anni 2008-2010 (e 2011) e dall’art. 2, comma 10, lett. a) e b) della L. n. 191/2009 (Finanziaria 2010), in relazione alla proroga dell’agevolazione per l’anno 2012.
Poiché il DL n. 70/2011 abroga l’art. 1, comma 19 della L. n. 244/2007, sembrerebbe che per le spese sostenute in relazione a fatture emesse tra il 4 luglio 2006 ed il 31 dicembre 2007 permanga l’obbligo di indicare il costo della manodopera in fattura.
Si ricorda che l’indicazione del costo della manodopera costituiva una condizione indefettibile (a pena di decadenza) per il diritto alla detrazione.