Contenzioso
Le «avvertenze» al diniego di definizione delle liti complicano il ricorso
Per vari uffici il ricorso contro il diniego è un’integrazione dei motivi, ma la Suprema Corte «cassa» tale impostazione
In questi tempi stanno arrivando i dinieghi di definizione delle liti pendenti concernenti
l’art. 39, comma 12, del DL 98/2011, per le cui modalità di
impugnazione occorre osservare il disposto di cui all’art. 16, comma 8,
della L. n. 289/2002.
Tale norma, con una formulazione molto ambigua, afferma che il diniego di definizione della lite pendente deve essere impugnato presso il giudice in cui è pendente la causa o, se pende il termine di impugnazione, unitamente alla sentenza: l’obiettivo è quello di concentrare presso un unico giudice la decisione sulla legittimità della definizione nonché, ove questa fosse negata, quella sul merito.
Abbiamo già rilevato (si veda “Ricorso «insidioso» contro il diniego di definizione delle liti pendenti” dello scorso 21 settembre) che la formulazione dell’art. 16 causa vari problemi interpretativi, il che spiega la ragione per cui molti contribuenti, in merito alla stesura del ricorso contro il diniego, si trovano disorientati.
La particolarità più lampante è rinvenibile nel fatto che il ricorso va formato prendendo come riferimento l’atto “tipico” del grado di merito in cui pende la causa “principale”, quindi, se il contribuente si è avvalso della definizione in appello, il ricorso contro il diniego va eseguito mediante appello, e non tramite ricorso di primo grado, il che, in questo caso, sempre a titolo cautelativo, potrebbe far sorgere la necessità di depositare copia dell’atto di appello anche presso la Provinciale.
L’incertezza vigente in materia è aggravata dal fatto che molti uffici delle Entrate, nelle “avvertenze” al diniego di definizione della lite pendente, affermano che, in sostanza, si tratta di un atto di integrazione dei motivi da formare ai sensi dell’art. 24 del DLgs. 546/92. Con la recentissima sentenza n. 17972 dello scorso 19 ottobre, la Cassazione ha espressamente affermato che il ricorso contro il diniego di condono va fatto mediante ordinario ricorso e non con lo strumento dei motivi aggiunti, in quanto l’art. 16 della L. 289/2002 fissa solo la competenza del giudice, ma non mette in discussione l’iter di instaurazione del contenzioso tributario.
In coerenza con quanto detto dalla Suprema Corte, tale assimilazione è sì errata, ma, dal punto di vista operativo, non dovrebbe causare danni irreversibili (nel caso esaminato dalla Cassazione, dal testo della sentenza non è dato capire se il contribuente, nella pratica, avesse solo depositato l’atto integrativo dei motivi senza notifica a controparte oppure se avesse provveduto prima alla notifica e poi al deposito, rispettando sempre i tempi processuali).
Premesso ciò, l’integrazione dei motivi di ricorso va stesa, di fatto, mediante un atto processuale che assomiglia ad un ricorso, infatti, entro sessanta giorni dalla scoperta del motivo nuovo, occorre notificarlo ed entro i successivi 30 depositarlo in Commissione.
I motivi nuovi possono scaturire solo da documenti non conosciuti depositati dalla controparte, il che ha un ambito applicativo ristrettissimo. Nel caso della definizione della lite pendente, tecnicamente non può trattarsi di integrazione dei motivi, siccome il motivo di ricorso contro il diniego non può essere visto come integrativo dei motivi del ricorso proposto contro l’atto impugnato, la cui causa è oggetto di definizione.
Ogni atto impositivo ha, per così dire, “vita propria”, perciò i motivi sollevati contro l’atto originario non possono essere confusi con quelli relativi al diniego di definizione della lite pendente, che, essendo un atto ulteriore, non può contenere motivi che integrano un precedente provvedimento.
A lato pratico, si potrebbe anche obiettare che poco cambia: secondo la tesi da noi sostenuta, ricevuto il diniego, il contribuente dovrebbe proporre ricorso/appello/ricorso per Cassazione mediante notifica a controparte entro sessanta giorni dalla ricezione del diniego, e provvedere alla costituzione in giudizio (a meno che non siano pendenti i termini per impugnare la sentenza, nel qual caso si impugna il diniego insieme alla sentenza) entro i successivi trenta.
Per l’Agenzia delle Entrate, si notifica entro sessanta giorni dalla ricezione del diniego l’atto integrativo e lo si deposita entro i successivi 30.
Il diverso nomen iuris non dovrebbe cagionare alcun effetto negativo per il contribuente che abbia rispettato i 60 giorni per la notifica e i 30 per il deposito.
Dal lato del contribuente, l’unica questione che può emergere adottando l’una piuttosto che l’altra tesi riguarda il conferimento della procura, che se si tratta di integrazione dei motivi potrebbe anche non esserci, visto che vale la procura conferita nel ricorso originario, ma che di certo deve esserci se si opta per la nostra tesi, posto che si tratta di ricorso contro un diverso atto. Nel dubbio, è bene che il difensore sia sempre munito di incarico, ancorché decida, seguendo le “avvertenze”, di notificare l’atto denominandolo “atto integrativo dei motivi di ricorso”.
/ Alfio CISSELLO
Tale norma, con una formulazione molto ambigua, afferma che il diniego di definizione della lite pendente deve essere impugnato presso il giudice in cui è pendente la causa o, se pende il termine di impugnazione, unitamente alla sentenza: l’obiettivo è quello di concentrare presso un unico giudice la decisione sulla legittimità della definizione nonché, ove questa fosse negata, quella sul merito.
Abbiamo già rilevato (si veda “Ricorso «insidioso» contro il diniego di definizione delle liti pendenti” dello scorso 21 settembre) che la formulazione dell’art. 16 causa vari problemi interpretativi, il che spiega la ragione per cui molti contribuenti, in merito alla stesura del ricorso contro il diniego, si trovano disorientati.
La particolarità più lampante è rinvenibile nel fatto che il ricorso va formato prendendo come riferimento l’atto “tipico” del grado di merito in cui pende la causa “principale”, quindi, se il contribuente si è avvalso della definizione in appello, il ricorso contro il diniego va eseguito mediante appello, e non tramite ricorso di primo grado, il che, in questo caso, sempre a titolo cautelativo, potrebbe far sorgere la necessità di depositare copia dell’atto di appello anche presso la Provinciale.
L’incertezza vigente in materia è aggravata dal fatto che molti uffici delle Entrate, nelle “avvertenze” al diniego di definizione della lite pendente, affermano che, in sostanza, si tratta di un atto di integrazione dei motivi da formare ai sensi dell’art. 24 del DLgs. 546/92. Con la recentissima sentenza n. 17972 dello scorso 19 ottobre, la Cassazione ha espressamente affermato che il ricorso contro il diniego di condono va fatto mediante ordinario ricorso e non con lo strumento dei motivi aggiunti, in quanto l’art. 16 della L. 289/2002 fissa solo la competenza del giudice, ma non mette in discussione l’iter di instaurazione del contenzioso tributario.
In coerenza con quanto detto dalla Suprema Corte, tale assimilazione è sì errata, ma, dal punto di vista operativo, non dovrebbe causare danni irreversibili (nel caso esaminato dalla Cassazione, dal testo della sentenza non è dato capire se il contribuente, nella pratica, avesse solo depositato l’atto integrativo dei motivi senza notifica a controparte oppure se avesse provveduto prima alla notifica e poi al deposito, rispettando sempre i tempi processuali).
Premesso ciò, l’integrazione dei motivi di ricorso va stesa, di fatto, mediante un atto processuale che assomiglia ad un ricorso, infatti, entro sessanta giorni dalla scoperta del motivo nuovo, occorre notificarlo ed entro i successivi 30 depositarlo in Commissione.
I motivi nuovi possono scaturire solo da documenti non conosciuti depositati dalla controparte, il che ha un ambito applicativo ristrettissimo. Nel caso della definizione della lite pendente, tecnicamente non può trattarsi di integrazione dei motivi, siccome il motivo di ricorso contro il diniego non può essere visto come integrativo dei motivi del ricorso proposto contro l’atto impugnato, la cui causa è oggetto di definizione.
Ogni atto impositivo ha, per così dire, “vita propria”, perciò i motivi sollevati contro l’atto originario non possono essere confusi con quelli relativi al diniego di definizione della lite pendente, che, essendo un atto ulteriore, non può contenere motivi che integrano un precedente provvedimento.
A lato pratico, si potrebbe anche obiettare che poco cambia: secondo la tesi da noi sostenuta, ricevuto il diniego, il contribuente dovrebbe proporre ricorso/appello/ricorso per Cassazione mediante notifica a controparte entro sessanta giorni dalla ricezione del diniego, e provvedere alla costituzione in giudizio (a meno che non siano pendenti i termini per impugnare la sentenza, nel qual caso si impugna il diniego insieme alla sentenza) entro i successivi trenta.
Per l’Agenzia delle Entrate, si notifica entro sessanta giorni dalla ricezione del diniego l’atto integrativo e lo si deposita entro i successivi 30.
Il diverso nomen iuris non dovrebbe cagionare alcun effetto negativo per il contribuente che abbia rispettato i 60 giorni per la notifica e i 30 per il deposito.
Dal lato del contribuente, l’unica questione che può emergere adottando l’una piuttosto che l’altra tesi riguarda il conferimento della procura, che se si tratta di integrazione dei motivi potrebbe anche non esserci, visto che vale la procura conferita nel ricorso originario, ma che di certo deve esserci se si opta per la nostra tesi, posto che si tratta di ricorso contro un diverso atto. Nel dubbio, è bene che il difensore sia sempre munito di incarico, ancorché decida, seguendo le “avvertenze”, di notificare l’atto denominandolo “atto integrativo dei motivi di ricorso”.
/ Alfio CISSELLO
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