Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

sabato 27 ottobre 2012

antiriciclaggio anche per gli enti non profit

antiriciclaggio

Valutazione del «rischio 231» anche per gli enti non profit

Al Congresso nazionale di Bari, che inizia oggi, sarà diffuso un documento IRDCEC-CNDCEC sull’adozione dei modelli organizzativi nel terzo settore

/ Giovedì 25 ottobre 2012
Dell’applicabilità del DLgs. 231/2001 agli enti del terzo settore si è molto discusso fin dalla sua entrata in vigore anche se, trattandosi nella maggior parte dei casi di associazioni (espressamente incluse ai sensi dell’art. 1 del Decreto), il loro assoggettamento alla disciplina de qua avrebbe dovuto essere scontato. Tuttavia, data la “sensibilità” di alcuni servizi offerti da enti non profit, si è fortemente dubitato che questi ultimi potessero essere assoggettati alla responsabilità da reato, adducendo a favore del loro esonero elementi quali l’assenza del fine di lucro e la carenza del necessario carattere imprenditoriale dell’attività svolta.
Ad affrontare la materia è lo studio intitolato “Il modello 231/2001 per gli enti non profit: una soluzione per la gestione dei rischi”, frutto della collaborazione tra IRDCEC e CNDCEC, che sarà diffuso al Congresso Nazionale di categoria in programma a Bari a partire da oggi.
Il documento muove da una serie di considerazioni.
Innanzitutto, si ritiene che tali dubbi vadano superati, in base sia al tenore letterale della disposizione, sia all’attività svolta da molti di questi enti: basta pensare ai valori immobiliari e mobiliari detenuti da alcune fondazioni o alle associazioni sportive dilettantistiche, che in molti casi diventano strumento di frodi fiscali, truffe e malversazioni. Anche gli operatori del mondo non profit, dunque, devono essere ritenuti soggetti a “rischio 231”, considerate, in alcuni casi, le conseguenze anche sociali potenzialmente derivanti dalla commissione di un illecito.
In tal senso, si è espressa anche la giurisprudenza di merito (GIP Tribunale di Milano, 22 marzo 2011) che, squarciando il velo dell’appartenenza ad una “zona franca” ormai poco giustificabile, ha condannato un’associazione volontaria di pubblica assistenza per il delitto di truffa ai danni dello Stato, previsto tra i reati presupposto dall’art. 24, comma 1 del DLgs. 231/2001. Si tratta di una pronuncia a suo modo “rivoluzionaria” perché include, nel perimetro applicativo del Decreto, anche soggetti giuridici che svolgono attività con scopo non lucrativo.
Posto che il settore non profit deve ritenersi a tutti gli effetti attratto nell’orbita della normativa 231, lo studio affronta il tema dell’adozione del modello organizzativo da parte degli enti che a tale settore appartengono. L’analisi si basa su una premessa fondamentale: anche se potenzialmente tutti i soggetti possono essere considerati a “rischio 231”, l’adozione del modello, ancorché consigliabile e auspicabile per garantire procedure più efficienti e una migliore trasparenza verso l’esterno, è opportuna ed è anzi assimilabile ad un vero e proprio obbligo al ricorrere di alcuni requisiti dell’ente e di determinate circostanze operative.
In dettaglio, traslando ai soggetti del terzo settore il principio affermato dalla Cassazione, che ha esteso la responsabilità ex DLgs. 231/2001 alle imprese individuali (Cass. 20 aprile 2011, n. 15657), evidenziando, tra gli elementi dirimenti, la presenza di una struttura organizzativa articolata al punto che il contributo del singolo operatore non è indispensabile per l’esecuzione delle attività, si può ipotizzare una soglia oltre la quale l’adozione del modello diventa irrinunciabile. Tale soglia dipende da una serie di elementi, che riguardano non solo l’aspetto organizzativo, ma anche tipo di attività svolta, ammontare di risorse finanziarie e patrimoniali gestite, ecc.
Individuare criteri oggettivi per definire il grado di esposizione ai rischi derivanti dal Decreto 231 per gli operatori del mondo non profit non è certo agevole, attesa la mancanza di parametri legislativamente stabiliti in materia. Nondimeno, avendo presente il catalogo dei reati contenuto nel DLgs. 231/2001, nello studio s’identificano alcuni elementi che possono far aumentare il livello di rischio a cui un’organizzazione non profit è potenzialmente esposta: il tipo di attività svolta, la complessità organizzativa, la consistenza patrimoniale e i flussi economico-finanziari, la natura giuridica e i rapporti con la P.A., la tipologia di controlli a cui il soggetto è sottoposto.
Alcuni di tali criteri vengono esplicitati e raggruppati in diversi parametri quantitativi, ai quali viene attribuito uno score in base ai valori registrati; altri criteri di tipo “qualitativo” sono invece trattati come variabili binomiali (SI/NO), con conseguente polarizzazione anche del grado di rischio.
L’attribuzione di un determinato punteggio ai livelli crescenti di rischio consente di stabilire delle soglie per valutare lo score raggiunto dall’ente oggetto di analisi: in base al risultato ottenuto, sarà necessario elaborare una strategia di risk response adeguata che, in caso di punteggio elevato, non può essere diversa dalla decisione di adottare un modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del DLgs.231/2001, per rafforzare i meccanismi di controllo e le procedure organizzative e di corporate governance dell’ente.
Di ciò sono ben coscienti le fondazioni di origine bancaria: proprio ad una di esse, nell’appendice del documento, è applicato in via sperimentale il meccanismo di scoring per definire il grado di “sensibilità” al “rischio 231”.
 / Annalisa DE VIVO

Nessun commento:

Posta un commento