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martedì 18 settembre 2012

Penale fallimentare La cessione d’azienda a prezzo irrisorio non sfugge alla bancarotta


Penale fallimentare

La cessione d’azienda a prezzo irrisorio non sfugge alla bancarotta

Si tratta di una condotta idonea ad integrare la fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale

/ Martedì 18 settembre 2012
Rispondono di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria, ex art. 223 comma 1 del RD 267/42, gli amministratori, di fatto e di diritto, di una società che cedono i rami d’azienda fondamentali della stessa ad un prezzo irrisorio. A ricordarlo è la Cassazione nella sentenza 17 settembre 2012 n. 35597.
Nel caso di specie, Tizio e Caio, nella qualità, rispettivamente, di amministratore di fatto e di amministratore di diritto, nonché socio al 50%, della Alfa srl, venivano condannati sia in primo grado che in appello, tra l’altro, per bancarotta fraudolenta patrimoniale. Era stata accertata, infatti, la cessione di due rami d’azienda fondamentali della Alfa srl ad altra società riconducibile a Tizio, della quale lo stesso era anche amministratore, ad un prezzo “vile”; prezzo che non risultava neppure versato. Si ravvisava, in pratica, una vendita simulata da parte di Tizio a se stesso con la complicità di Caio.
Avverso la sentenza d’appello veniva proposto ricorso per Cassazione deducendone il vizio di motivazione, nonché la mancanza della necessaria modulazione temporale delle pene accessorie di cui all’art. 216 comma 4 del RD 267/42, applicabili anche in caso di bancarotta fraudolenta posta in essere dagli amministratori di società (impropria) in forza del rinvio contenuto nell’art. 223 comma 3 del RD 267/42.
La Suprema Corte rigetta il ricorso ritenendo la sentenza d’appello fondata su un apparato argomentativo completo, logico e plausibile. In particolare, il passaggio fondamentale della motivazione è rappresentato dal rilievo che la cessione dei due rami d’azienda della Alfa srl ad altra società riconducibile a Tizio era andata ad esclusivo vantaggio di quest’ultima, dal momento che il prezzo di cessione, oltre ad essere stato fissato in misura irrisoria, neppure risultava versato. Ebbene, sottolinea la Suprema Corte, tale soluzione è in linea con la costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l’operazione con cui si estromette un bene dal patrimonio dell’impresa senza che l’equivalente entri nel patrimonio acquisito al fallimento è idonea a configurare l’ipotesi di fallimento per distrazione di cui all’art. 216 comma 1 n. 1 del RD 267/42 ovvero, qualora ad essa non faccia seguito alcuna attività intesa al recupero, persino di quella di causazione dolosa del fallimento di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/42 (cfr. Cass. 20 gennaio 1998 n. 5408).
Inoltre, è stato evidenziato come integri il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria la cessione di un ramo d’azienda che renda non più possibile il perseguimento dell’oggetto sociale senza garantire, contestualmente, il ripiano della situazione debitoria della società (cfr. Cass. 19 marzo 2012 n. 10778).
Particolarmente importante in materia, inoltre, risulta essere il principio sancito da Cass. 6 novembre 1996 n. 9430, secondo cui il delitto di bancarotta per distrazione è qualificato dalla violazione del vincolo legale che limita, ex art. 2740 c.c., la libertà di disposizione dei beni dell’imprenditore che li destina a fini diversi da quelli propri dell’azienda, sottraendoli ai creditori. La condotta materiale del reato, quindi, è realizzata tutte le volte in cui vi sia un ingiustificato distacco di beni o di attività, con il conseguente depauperamento patrimoniale che si risolve in un danno per la massa dei creditori. L’ablazione è attività astrattamente legittima e lecita se mira alla realizzazione delle finalità dell’impresa; la liceità, però, deve essere accertata in concreto.
Allora, l’elemento di differenziazione tra attività lecita ed illecita va individuato nella natura gratuita od onerosa della cessione, nel senso che, nel primo caso, il distacco del bene e dell’attività, senza adeguata contropartita, si risolve in una distrazione, mentre, nel secondo caso, il reato non sussiste perché viene realizzata una finalità aziendale e viene conservata, con l’acquisizione della controprestazione, l’integrità del patrimonio sociale. Il rapporto sinallagmatico, peraltro, deve essere integrale, effettivo e non fittizio, perché, diversamente, la bancarotta per distrazione si configurerebbe pienamente nelle ipotesi sia di apparente cessione del bene, occultato a proprio vantaggio dall’imprenditore, sia di apparente acquisizione del corrispettivo, rimasto nella propria o nell’altrui disponibilità e mai entrato nelle casse della società fallita, sia, infine, nel caso di acquisizione di un corrispettivo soltanto parziale.
Con riguardo, infine, alla questione della durata delle pene accessorie, la sentenza in commento aderisce all’interpretazione letterale e rigorosa dell’art. 216 comma 4 del RD 267/42, con applicazione delle stesse in misura fissa decennale e non modulabile (cfr. anche Cass. 24 luglio 2012 n. 30347 e Cass. 7 maggio 2010 n. 17690). Si ricorda, peraltro, che, secondo l’interpretazione di carattere sistematico, l’espressione “per la durata” (di dieci anni), contenuta nella citata disposizione, dovrebbe essere intesa come equivalente alla locuzione “sino a” (dieci anni), con una durata che dovrebbe essere uguale a quella della pena principale inflitta, ex art. 37 c.p. (cfr., tra le altre, Cass. 18 giugno 2010 n. 23720 e Cass. 12 aprile 2010 n. 13579).
 / Maurizio MEOLI
fonte:eutekne

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