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lunedì 2 gennaio 2012

diritto fallimentare

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L’accordo dev’essere vincolante per tutti i creditori

Il Consigliere delegato alla crisi d’impresa analizza gli aspetti critici del DL 212/2011, confrontandolo con la proposta di legge del CNDCEC

/ Lunedì 02 gennaio 2012
Un passo in avanti, necessario a maggior ragione in questo particolare momento di crisi economica, ma con margini di miglioramento. La procedura di composizione della crisi da indebitamento destinata ai soggetti diversi dagli imprenditori fallibili, introdotta dal DL n. 212/2011, costituisce sicuramente una novità che non può che essere accolta con favore: “Innanzitutto – commenta Giulia Pusterla, Consigliere del CNDCEC con delega in materia di crisi e risanamento d’impresa – voglio sottolineare il fatto positivo che il legislatore, con tempismo e immediatezza, considerando il cambio della squadra di Governo, abbia sentito l’esigenza di questa norma. L’esigenza, poi, nasce dal momento di crisi, che colpisce, per forza di cose, anche le imprese sotto la soglia minima prevista dalla legge fallimentare, i consumatori e tutti i privati”.
Del resto, in occasione del Congresso di Napoli, il CNDCEC aveva presentato un progetto di legge in materia d’insolvenza civile. Il DL n. 212/2011 colma una lacuna normativa, ma “può essere migliorato in sede di conversione e solleveremo problemi e nodi critici”.
Dottoressa Pusterla, una prima differenza tra la proposta del Consiglio nazionale e il DL riguarda la concorsualità tra i creditori.
“Se vogliamo che una misura di questo tipo sia non solo populistica, ma possa essere davvero utilizzata, essa dovrebbe stabilire la prevalenza della maggioranza qualificata dei creditori: in caso di maggioranza, i creditori dissenzienti non possono sottrarsi alla proposta di accordo. In base a quanto disposto dal decreto, invece, i creditori estranei devono essere soddisfatti in base agli accordi originari o sopravvenuti, depotenziando, di fatto, l’efficacia esdebitatoria dell’istituto. Per questo, spingeremo per un emendamento che preveda l’applicazione, anche per la nuova procedura, dell’obbligo per tutti i creditori, esattamente come accade per il concordato preventivo, ai sensi dell’art. 184 L. fall.”.
Come valuta, invece, la disposizione secondo la quale, ai fini dell’omologazione dell’accordo, la proposta debba ricevere il consenso di almeno il 70% dei creditori, ridotta al 50% se la procedura è attivata da un consumatore?
“Si tratta di un altro punto critico. Mi sembra incongruo che al consumatore venga riservato un trattamento di favore: infatti, nella nostra proposta avevamo previsto esattamente il contrario, perché l’insolvenza di un privato è più rara di quella di un imprenditore”.
Con riferimento, invece, alla nuova figura introdotta dal decreto, l’Organismo di composizione della crisi?
“Ritengo che il DL sia ridondante di figure, e ciò non lo rende particolarmente efficace: oltre all’Organismo di composizione della crisi, sono previsti infatti anche un fiduciario, a cui il piano alla base dell’accordo di ristrutturazione dei debiti può prevedere di affidare il patrimonio del debitore, e un liquidatore che può essere nominato dal giudice. In questo modo, la procedura si complica. La proposta di legge del Consiglio nazionale prevede, invece, che l’accordo di esdebitazione civile sia eseguito da un professionista abilitato, ossia in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3 L. fall. Non abbiamo bisogno di nuovi organismi: poi, avranno davvero la competenza per gestire crisi da indebitamento di una certa importanza? Inoltre, si sta diffondendo il fenomeno del «bankruptcy tourism», ovvero di un turismo del fallimento che va soprattutto in Inghilterra: le difficoltà portano molti soggetti a trasferire il centro dei loro interessi in un altro Paese. Per evitare ciò, serve una legge efficace, e il DL in questione non lo è ancora a sufficienza”.
La proposta di legge del CNDCEC prevede che l’insolvente civile possa accedere alla procedura se non ne ha beneficiato negli ultimi 10 anni, mentre il DL n. 212/2012 abbassa il periodo a tre anni. Non c’è troppa discrepanza?
“Proponendo un arco di tempo di 10 anni, abbiamo deciso di essere rigorosi, ma tre anni sono troppo pochi. Credo fermamente nella politica della «seconda chance» per chi si trova in situazioni di questo genere, ma se si permette di avviare una procedura di composizione della crisi dopo appena tre anni dalla precedente, il rischio è di indurre a comportamenti opportunistici di «moral hazard», che sono, invece, assolutamente da evitare”.
 / Michela DAMASCO

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