Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

giovedì 30 giugno 2011

Cassazione «confusa» sulle spese per immobili di terzi

ilcasodelgiorno

Cassazione «confusa» sulle spese per immobili di terzi

Due recenti sentenze sono in contrasto sulla deduzione delle manutenzioni straordinarie su immobili condotti in locazione
/ Giovedì 30 giugno 2011
Secondo quanto chiarito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 13327 del 17 giugno 2011, le spese di manutenzione straordinaria relative ad un immobile sostenute dal conduttore sono deducibili in capo allo stesso soggetto, ancorché la disciplina civilistica preveda che spetti al locatore l’esecuzione delle predette spese.
Tale principio è stato motivato affermando che “ciò che rileva, in definitiva, è la strumentalità dell’immobile, sul quale vengono eseguiti i lavori di ristrutturazione o miglioramento, all’attività d’impresa, a prescindere dalla proprietà del bene da parte del soggetto che esegue i lavori”. Si tratta, quindi, di una posizione fondata sulla corretta applicazione del principio di inerenza ex art. 109, comma 5 del TUIR, a commento del quale si sostiene come “la deducibilità di detti costi non possa essere subordinata al diritto di proprietà dell’immobile, essendo sufficiente che gli stessi siano sostenuti nell’esercizio dell’impresa, al fine della realizzazione del miglior esercizio dell’attività imprenditoriale e dell’aumento della redditività della stessa, e che, ovviamente, risultino dalla documentazione contabile” (si veda “Spese di ristrutturazione sempre deducibili” del 18 giugno 2011).
Una volta stabilita l’inerenza di tali costi, le spese di ammodernamento e di ristrutturazione capitalizzate nella voce “altre immobilizzazioni immateriali” sono assoggettate alla disciplina fiscale delle spese pluriennali di cui al comma 3 dell’art. 108 del TUIR. In base a detta disposizione, la deducibilità delle spese relative a più esercizi spetta “nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio”, tenendo presente che i criteri civilistici di ripartizione delle spese in esame costituiscono presupposto per la determinazione della quota deducibile (cfr. C.M. n. 73 del 27 maggio 1994).
Tale ripartizione va effettuata in applicazione dell’OIC n. 24, per il quale l’ammortamento dei costi in argomento si effettua nel periodo minore tra quello di utilità futura delle spese sostenute e quello residuo di locazione, tenendo conto dell’eventuale periodo di rinnovo, se il rinnovo dipende dal conduttore.
Dubbi sull’inerenza delle spese
La condivisibile impostazione della sentenza n. 13327 sembra però risultare in antitesi con una pronuncia della stessa Corte, la quale, con la sentenza n. 6936 del 25 marzo 2011, aveva affermato che le spese in argomento non sono deducibili per due ragioni:
- il beneficiario dell’opera rimane esclusivamente il locatore;
- i principi normativi che regolano il contratto di locazione (artt. 1576, 1609 e 1621 c.c.) prevedono che le riparazioni straordinarie rimangano a carico del locatore, sicché il conduttore ben può ottenerne, da quest’ultimo, il rimborso.
In merito, si osserva che la prima argomentazione non sembra del tutto pertinente con la nozione di inerenza. Si considera inerente un costo utile alla realizzazione dell’attività d’impresa e che consente di migliorarne la redditività, a prescindere del soggetto che, allo scadere di un eventuale contratto, beneficerà dell’opera.
Riguardo poi alla seconda osservazione della sentenza n. 6936, è la successiva sentenza n. 13327 del 17 giugno 2011 a chiarire la questione. Viene rilevato, infatti, che sebbene l’art. 1576 c.c. preveda che spetti al locatore eseguire durante la locazione tutte le riparazioni necessarie, eccezion fatta per quelle di piccola manutenzione, sovente per le locazioni di immobili strumentali, le spese di manutenzione straordinaria vengono convenzionalmente accollate al conduttore dell’immobile.
Si tratta infatti di una disposizione che può essere oggetto di deroga da parte del locatore e del conduttore.

Contenzioso: se il Fisco sbaglia e perde, deve pagare

contenzioso

Contenzioso: se il Fisco sbaglia e perde, deve pagare

Per un processo tributario equo, sarebbe utile inserire una contropenale a carico dell’Agenzia delle Entrate

/ Giovedì 10 marzo 2011
Pubblichiamo l’intervento di Giampiero Guarnerio, Delegato per Milano dell’A.N.D.C. – Associazione Nazionale Tutela Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili.
La relazione del Direttore dell’Agenzia delle Entrate di Milano, Carlo Palumbo (persona di cui tengo a sottolineare, oltre alle qualità personali, l’onestà intellettuale), letta in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario Tributario il 25 febbraio 2011, contiene due passaggi significativi.
Il Direttore sostiene che “sono da respingere quelle teorie processualiste che tendono a vedere nel Fisco e nel contribuente due «privati» in lite di fronte a un giudice chiamato a dirimere la controversia”. E, poco oltre, “Sotto il profilo tecnico l’Amministrazione finanziaria si presenta nel processo come l’istituzione di riferimento della tassazione. Ogni altra e diversa prospettazione del ruolo che compete ai protagonisti del processo rischia di svalutare l’azione amministrativa e delegittimare di fatto gli istituti deflativi del contenzioso in applicazione del principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria”.
Più avanti il Direttore indica nel 70% l’indice di vittoria per valore degli uffici dell’Agenzia della Lombardia presso le Commissioni Provinciali, e del 60% presso le Commissioni Regionali e la Cassazione.
Statistiche rese pubbliche dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria il 22 maggio 2010 relative al numero dei casi trattati, tolti i ricorsi inammissibili, dicono che il Fisco soccombe totalmente nel 45% dei casi, è vittorioso totalmente nel 40% dei casi, e nel rimanente 15% è parzialmente vittorioso.
Pongo una prima domanda: secondo i lettori, se un dottore commercialista sbagliasse sistematicamente il 30% o il 45% dei propri pareri rispettivamente in termini di valore o di numero, che fine farebbe?
Perché un tasso di rilievi errati così elevato (che, non dimentichiamo, causano danni elevatissimi ai contribuenti corretti, non solo in termini di costo, ma in termini di rappresentazione in bilancio dei rischi di contenzioso, con conseguenti rischi collaterali di falso in bilancio, denunce dei soci, ecc.) viene giudicato positivamente anche da una persona corretta come il dottor Palumbo? Come può l’Agenzia delle Entrate sentirsi come “l’istituzione di riferimento della tassazione”, cioè una parte “superiore” rispetto al cittadino, quando poi nell’analisi delle statistiche si pone come una qualsiasi parte che si accontenta del 51% dei successi?
Non siamo d’accordo.
Un ruolo “superiore” potrebbe essere riconosciuto se effettivamente l’Agenzia si comportasse da “superiore”, cioè vincendo il 99% delle cause; quando avrà il coraggio di chiudere le verifiche ai contribuenti elencando non solo gli errori a danno del Fisco, ma anche quelli a favore del Fisco; quando baderà alla sostanza non solo nei casi in cui “conviene” all’Erario, ma anche quando “conviene” al contribuente; quando, insomma, accetterà serenamente il fatto che un verbale senza rilievi è un fatto positivo e non un lavoro fatto male.
Finché questo non accadrà, l’Agenzia delle Entrate resta una comunissima parte in causa.
Anzi, ancora gode di un vantaggio incommensurabile. Quando sbaglia, non paga. Anzi, con tutta probabilità proprio questo è il punto. In fondo, al contribuente un errore costa caro, carissimo (di solito dal 100 al 200% dell’imposta, cui si aggiungono le conseguenze penali e il rimborso delle spese del contenzioso). All’Agenzia un errore quanto costa? Solo le spese del contenzioso.
Quanto rischia, quindi, l’Agenzia nel promuovere un rilievo “probabilmente sbagliato”? Poco o niente. E per quale ragionevole motivo dovrebbe dunque rinunciare a muovere rilievi tutto sommato infondati?
Basterebbe il 10% di quanto richiesto al contribuente
Se si vuole veramente un processo equo – come peraltro tutti a parole invocano, compreso il Presidente della Commissione Regionale della Lombardia, Antonio Simone – occorre che parità vi sia anche nelle premesse.
Chi è convinto delle proprie ragioni non deve temere di dover pagare se sbaglia. La richiesta quindi è semplice, ed è condivisa dal 93,43% dei colleghi milanesi interpellati nel corso di un’indagine promossa dalla Commissione di Diritto Tributario Nazionale sotto la Presidenza di Luigi Martino: occorre una contropenale a carico del Fisco – anche limitata al 10% di quanto lo stesso Fisco richiede al contribuente.
La proposta risolverebbero molti problemi, abbattendo significativamente, ne siamo certi, la montagna di contenzioso che ci sommerge, riportandola a livelli europei.

IVA in Italia se il prestatore è fiscalmente residente nel territorio nazionale

iva

IVA in Italia se il prestatore è fiscalmente residente nel territorio nazionale

Dopo le modifiche in vigore dal 2010, i concetti di domicilio e di residenza vanno interpretati alla luce della normativa comunitaria

/ Giovedì 30 giugno 2011
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14071, depositata il 27 giugno 2011, ha stabilito che si considerano territorialmente rilevanti in Italia i servizi resi dal soggetto passivo che, pur se anagraficamente residente all’estero, abbia nel nostro Paese la dimora abituale e la sede dei suoi affari e interessi. In tale evenienza, l’obbligo d’imposta ricade sul prestatore anche se il committente italiano ha provveduto ad autofatturare i servizi ricevuti e ad assolvere la relativa imposta.
Tali principi sono stati espressi in riferimento alla disciplina vigente fino a tutto il 2009, quando trovava applicazione la regola generale prevista dall’art. 7, comma 3, del DPR n. 633/1972, fondata sul luogo di domicilio o di residenza del prestatore.
Anche dopo il passaggio al nuovo sistema impositivo (cfr. DLgs. 18/2010), basato sulla tassazione – in via alternata – nel luogo di stabilimento del committente (per i servizi “B2B”) e nel luogo di stabilimento del prestatore (per i servizi “B2C”), la territorialità continua ad essere riferita al domicilio e alla residenza dell’operatore. Ora come prima, il luogo impositivo deve essere individuato avendo riguardo al domicilio e, in subordine, nel caso in cui il medesimo sia situato all’estero, alla residenza, con l’avvertenza che, per i soggetti diversi dalle persone fisiche, i parametri del domicilio e della residenza si riferiscono, rispettivamente, alla sede legale e alla sede effettiva (cfr. art. 7, comma 1, lett. d) del DPR n. 633/1972).
Sul punto, i giudici di vertice, in linea con quanto indicato dalla prassi amministrativa (cfr. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 369/2008), hanno affermato che, in base all’art. 43 c.c., il domicilio è il centro principale degli affari e degli interessi, mentre la residenza coincide con la dimora abituale. Ne consegue che la territorialità, per le persone fisiche, è determinata in funzione del luogo degli affari e degli interessi, ovvero, se quest’ultimo è collocato all’estero, del luogo di dimora abituale, normalmente inteso come residenza anagrafica.
Dalla normativa comunitaria di riferimento (artt. 44 e 45 della Direttiva n. 2006/112/CE), interpretata alla luce delle disposizioni applicative contenute nel Reg. UE n. 282/2011 (in vigore dal 1° luglio 2011), si evince che, per le persone fisiche, il servizio è attratto a tassazione nel luogo in cui ha sede l’attività del soggetto passivo. Accanto a questa regola generale, la norma regolamentare prevede che, in assenza della sede, occorre riferirsi al luogo del domicilio (rectius, indirizzo permanente) o della residenza abituale.
Residenza abituale complementare all’indirizzo permanente
Dalla disposizione comunitaria, a differenza della normativa interna, si intende che il parametro della residenza abituale è complementare a quello dell’indirizzo permanente, nel senso che – al fine di garantire l’imponibilità del servizio nel luogo in cui si verifica il suo consumo effettivo – la residenza anagrafica (indirizzo permanente) conta se coincide con il centro degli affari e degli interessi (residenza abituale). In caso contrario, è la residenza abituale, cioè il luogo in cui la persona fisica “vive abitualmente a motivo di interessi personali e professionali” (art. 13 del Regolamento), a determinare il luogo impositivo, in ottemperanza all’approccio sostanziale diretto a tassare il servizio dove risulta effettivamente utilizzato.
Nel caso risolto dalla Suprema Corte, le prestazioni rese dall’artista residente anagraficamente all’estero (nella specie, nel Principato di Monaco) assumono in ogni caso rilevanza in Italia, in quanto dimostrato, nei gradi di merito della controversia, che ivi è situato il centro dei suoi affari e interessi. Per la normativa italiana, la stessa conclusione si applicherebbe nell’ipotesi opposta, cioè nel caso in cui l’artista abbia mantenuto la dimora abituale in Italia pur essendo stabilito all’estero il centro dei suoi affari e interessi. Si tratta, come detto, di una conclusione incompatibile con la legislazione comunitaria: quest’ultima, considerando complementari, anziché alternati, i corrispondenti parametri del domicilio e della residenza, implica che le prestazioni in esame siano escluse da IVA in Italia.

Richiesta dati in possesso del Fisco se il «redditometro» è presunzione semplice

accertamento

Richiesta dati in possesso del Fisco se il «redditometro» è presunzione semplice

Se la presunzione si forma nel contraddittorio, va condiviso il principio espresso dalla Cassazione nella recente sentenza n. 13289

/ Giovedì 30 giugno 2011
Pochi giorni fa, in un articolo di commento alla sentenza n.  13289 del 2011 (“Vano il divieto di richiedere dati già in possesso del Fisco” del 25 giugno 2011), è stata giustamente sottoposta a critica l’impostazione della Corte di Cassazione, ove, in sostanza, è stato affermato che il divieto, posto dall’art. 6 della L. 212/2000, non impedisce agli Uffici finanziari di chiedere documentazione già in loro possesso, siccome ciò si giustificherebbe in base al fatto che in tal modo si potrebbe addivenire, mediante il preventivo contraddittorio, alla ragionevole misurazione della pretesa, assumendo rilievo non già il “documento” ma “l’informazione” che, legata al bene documentalmente certificato, potrebbe tornare utile nel procedimento di accertamento.
Ora, è meglio in primo luogo specificare che l’inottemperanza del contribuente alla suddetta richiesta, nonostante possa essere strumentale all’attuazione della pretesa, non può e non potrà mai comportare alcuna preclusione probatoria, e ciò è ancor più corretto a seguito del DL 70/2011 (c.d. “Decreto Sviluppo”), ove, all’art. 7, il Legislatore ha espressamente sancito che il contribuente non deve esibire documenti già in possesso degli Uffici (si veda “Documenti in mano agli Uffici, esclusa l’esibizione” dello scorso 9 maggio).
Tanto premesso, l’affermazione della Cassazione, presa sotto una diversa angolazione, può essere condivisa: se il redditometro è una presunzione semplice, e la presunzione semplice, non essendo imposta dall’alto, si forma nel contraddittorio tra contribuente e Agenzia delle Entrate, la richiesta di informazioni già in possesso degli Uffici è un valido ausilio.
No alla preclusione probatoria
In altri termini, se vengono richiesti chiarimenti, dati o notizie in relazione a una Mercedes, è vero che la documentazione “base” è reperibile mediante consultazione del PRA, con susseguente operatività degli artt. 6 della L. 212/2000 e 7 del DL 70/2011, ma è altrettanto vero che, nell’incontro tra le parti, può emergere l’assurdità dell’imputazione reddituale dei coefficienti redditometrici. Riprendendo quanto affermato dalla Cassazione, ovvero la natura di presunzione semplice e non di presunzione legale relativa del “redditometro”, si mette in risalto che detto revirement (se di ciò si tratta) è coerente anche con i recenti chiarimenti dell’Agenzia (circ. 28 del 2011) in tema di alternatività tra “redditometro” e spesa patrimoniale.
La suddetta dicotomia rimarca la profonda differenza strutturale tra le due metodologie di determinazione sintetica del reddito: l’una, basata sul redditometro, formata da presunzioni semplici (ricordiamoci che nemmeno il Fisco più efficiente del mondo può presumere quanto il contribuente spende per mantenere l’auto); l’altra, fondata sulla spesa. In quest’ultimo caso, e ciò i giudici lo hanno espressamente rimarcato anche se con riferimento alla presunzione di spalmatura della spesa per quinti (ma la situazione ora non è destinata a mutare), si tratta di presunzione legale: 100 spendi, 100 guadagni, e tale assunto è sia coerente dal punto di vista logico sia consono con il principio di capacità contributiva.

Canoni di leasing, deducibili nel limite del 5% le spese di manutenzione

Ires

Canoni di leasing, deducibili nel limite del 5% le spese di manutenzione

La circ. 29 dell’Agenzia ha chiarito che ciò vale per i soggetti che deducono i canoni utilizzando il metodo finanziario di contabilizzazione

/ Giovedì 30 giugno 2011
Tra i tanti chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 29 del 27 giugno 2011, quello riguardante il calcolo del 5% per la deducibilità delle spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione, riveste particolare importanza. Il quesito posto nel corso del MAP del 26 maggio scorso, trasfuso nella circolare, è il seguente: “Tra i beni che concorrono alla determinazione della base di computo della percentuale forfetaria del 5% per la deducibilità fiscale delle spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione, possono essere considerati anche quelli condotti in locazione finanziaria?“.
Rispondendo alla domanda, l’Amministrazione finanziaria riprende il contenuto disposto dall’art. 102, comma 6 del TUIR, dove è stabilito, in sostanza, che le citate spese, che dal bilancio non risultino imputate ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili nel limite del 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili risultante all’inizio dell’esercizio dal registro dei beni ammortizzabili. A parere dell’Agenzia, i beni materiali strumentali ammortizzabili acquisiti in locazione finanziaria concorrono alla determinazione della base di computo del 5% prevista dalla menzionata disposizione.
Tuttavia, prosegue la circolare, i beni in parola, in conformità alle corrette regole di contabilizzazione previste dai principi contabili di riferimento, devono essere iscritti nell’attivo del bilancio oltre che nel registro dei beni ammortizzabili all’inizio dell’esercizio.
Dopo la risposta dell’Agenzia, ci si chiede chi sono i soggetti che possono usufruire del chiarimento.
Non possono usufruirne i soggetti che usano il metodo patrimoniale
È noto, infatti, che, ai sensi dell’art. 102, comma 7 del TUIR, il metodo utilizzato per dedurre i canoni di leasing è quello patrimoniale, secondo il quale la società di leasing imputa a Conto economico i relativi canoni attivi, ma deduce quote di ammortamento dei beni concessi in leasing determinate in ciascun esercizio nella misura risultante dal piano di ammortamento finanziario. L’utilizzatore del bene deduce i canoni di locazione finanziaria se viene rispettata la seguente durata minima:
- pari ai due terzi del periodo di ammortamento ordinario se il contratto ha per oggetto beni mobili;
- e comunque con un minimo di undici anni ed un massimo di diciotto anni se il contratto ha per oggetto beni immobili.
Il metodo descritto non prevede, per l’utilizzatore, la possibilità di iscrizione nell’attivo dello Stato patrimoniale dei beni acquisiti in leasing. Ne discende che i beni in leasing non possono partecipare alla determinazione della base di calcolo del 5%, ai fini della deducibilità fiscale delle spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione.
Diversa è la posizione dei soggetti che utilizzano il metodo finanziario di contabilizzazione, secondo il principio contabile internazionale n. 17. Con questo metodo, il concedente iscrive nel proprio bilancio un credito verso l’utilizzatore per la parte relativa al capitale, mentre registra, per competenza, la parte finanziaria del canone e gli oneri accessori come componenti positivi di reddito. Il valore del bene viene iscritto nell’attivo dello Stato patrimoniale dell’utilizzatore e si ammortizza sistematicamente secondo criteri conformi a quelli dei beni in proprietà. Nelle passività, sempre dello Stato patrimoniale, si iscrive il debito verso la società di leasing e, nel momento in cui si procede al pagamento dei canoni, l’importo pagato riduce parzialmente il debito stesso, mentre una parte rappresenta l’onere finanziario da imputare a Conto economico.
Questo metodo, che privilegia la sostanza rispetto alla forma, è utilizzato dai soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali e, per effetto dell’art. 83 del TUIR, con riguardo ai criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio, valgono quelli previsti da detti principi contabili. Appare evidente, dunque, che il chiarimento indicato nel documento di prassi in commento vale solo per i soggetti che utilizzano il metodo finanziario di contabilizzazione del leasing. In pratica, le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione, se non imputate ad incremento del costo dei beni cui afferiscono, sono deducibili nei limiti:
- del 5% dei beni ammortizzabili, compresi i beni in leasing, quale risulta dal registro dei beni ammortizzabili all’inizio dell’esercizio;
- del 5% di tale costo, compresi i beni in leasing, alla fine del primo esercizio per le imprese di nuova costituzione.
Si ricorda che, in ogni caso, il bene in locazione finanziaria deve essere trascritto nel registro dei beni ammortizzabili e deve risultare nell’attivo del bilancio.

Imposta sulle assicurazioni RC auto alle Province

FEDERALISMO fiscale

Imposta sulle assicurazioni RC auto alle Province

Con il decreto sul Federalismo provinciale, viene anche riordinata la disciplina dell’IPT

/ Giovedì 30 giugno 2011
Tra le numerose novità contenute nel decreto sul Federalismo regionale e provinciale (DLgs. 6 maggio 2011 n. 68) vi è quella riguardante l’imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile (RCA) introdotta dall’articolo 17.
Oltre ad aver stabilito, al comma 1, che l’imposta costituirà un tributo proprio derivato delle Province a decorrere dal 2012 e che la stessa sarà applicata sulle assicurazioni RCA dei veicoli a motore ad eccezione dei ciclomotori, è fissata (al comma 2) l’aliquota base dell’imposta in misura pari al 12,5%. Aliquota che potrà essere aumentata o diminuita dalle Province nel limite dei 3,5 punti percentuali.
A norma del comma 5, le nuove disposizioni si applicano esclusivamente alle Province delle Regioni a statuto ordinario, in quanto alle Province ubicate nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province Autonome la decorrenza e le modalità di applicazione di dette disposizioni sono stabilite con le procedure previste dall’articolo 27 della L. n. 42/2009 (ris. Ministero dell’Economia e delle Finanze 16 giugno 2011 n. 2).
Lo stesso comma 2 dell’articolo 17 del DLgs. n. 68/2011 prevede che le variazioni delle aliquote siano efficaci (in deroga al principio stabilito nell’articolo 1, comma 169 della L. n. 296/2006, nella parte in cui prevede che le deliberazioni retroagiscono al 1° gennaio dell’anno di riferimento anche se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio, purché entro il termine di approvazione del bilancio di previsione) dal primo giorno del secondo mese successivo a quello di pubblicazione della delibera di variazione sul sito informatico del Ministero dell’Economia e delle Finanze (www.finanze.gov.it). Il sito è stato individuato dal decreto dirigenziale del 3 giugno 2011, che ha disciplinato anche le modalità di pubblicazione delle delibere in questione, oltre ad aver precisato che è la giunta provinciale l’organo competente a deliberare la variazione dell’aliquota dell’imposta RCA.
Per quanto concerne i termini di approvazione delle delibere di variazione in discorso, oltre a non poter essere adottate prima del 27 maggio 2011 (data di entrata in vigore del DLgs. n. 68/2011), il Ministero dell’Economia e delle Finanze (circ. n. 2/2011) ha sottolineato che devono necessariamente precedere l’approvazione del bilancio di previsione per il 2011. Si ricorda che il termine della delibera di approvazione del bilancio di previsione degli enti locali è stato differito al 30 giugno 2011 dal DM 16 marzo 2011. Pertanto, le delibere di variazione dell’imposta RCA devono essere adottate entro oggi (30 giugno) e conseguentemente deve essere apportata la relativa variazione in bilancio conseguente alla maggiore o minore entrata derivante dalla deliberazione della giunta provinciale. Si ricorda che la stessa L. n. 296/2006 dispone che, in caso di mancata approvazione entro il termine di approvazione del bilancio di previsione, “le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno”.
Nella circolare n. 2/2011, inoltre, il Ministero precisa che la nuova aliquota deliberata dalla Provincia si applica sui premi annuali o rate di premio pagati a decorrere dalla data di efficacia della deliberazione di variazione dell’aliquota, e cioè dal primo giorno del secondo mese successivo a quello dell’avvenuta pubblicazione sul citato sito.
Entro oggi delibere di variazione e bilanci di previsione
Nei successivi commi dell’articolo 17 (commi 6 e ss) è previsto che con un apposito decreto (che doveva essere approvato entro lo scorso 26 giugno, ma che ad oggi non è stato pubblicato in G.U.) saranno modificate le misure dell’imposta provinciale di trascrizione (IPT), di cui al DM 27 novembre 1998 n. 435, in modo che sia soppressa la previsione specifica relativa alla tariffa per gli atti soggetti a IVA e la relativa misura dell’imposta sia determinata secondo i criteri vigenti per gli atti non soggetti ad IVA. Con il disegno di legge di stabilità, ovvero con disegno di legge ad essa collegato, il Governo promuove il riordino dell’IPT, in conformità ad alcuni principi generali.
Fino al 31 dicembre 2011, tuttavia, l’IPT continua ad essere attribuita alle Province e la riscossione dell’imposta può essere effettuata dall’ACI senza oneri per le Province, salvo quanto previsto dalle convenzioni stipulate tra gli enti provinciali e l’ACI stesso.

CFC: tassazione degli utili «per trasparenza» a convenienza variabile

Fiscalità internazionale

CFC: tassazione degli utili «per trasparenza» a convenienza variabile

Alcune asimmetrie di sistema possono rendere conveniente l’imposizione per trasparenza rispetto ai flussi «per 
/ Giovedì 30 giugno 2011
La tassazione per trasparenza, di cui agli artt. 167 e 168 del TUIR, è scenario che il contribuente italiano, titolare di partecipazioni di controllo o di collegamento in soggetti paradisiaci, potrebbe anche non avversare, in ragione di talune asimmetrie di sistema.
Il socio italiano, interessato a una distribuzione degli utili conseguiti dall’investimento oltre confine, è destinato a scontare su di essi una tassazione integrale, ai fini IRPEF (posizioni “qualificate”) o IRES, se non è in grado di invocare l’esimente di cui all’art. 87, comma 1, lett. c) del TUIR: quest’ultima subordina i regimi di parziale esclusione da imposizione dei dividendi alla dimostrazione che dalle partecipazioni non è stato conseguito, sin dall’inizio del periodo di possesso, l’effetto di localizzare i redditi in giurisdizioni off shore.
In tale scenario, in presenza di una tassazione estera, per quanto minima, l’imposizione per trasparenza ai sensi della disciplina CFC si rivelerà certamente più vantaggiosa della tassazione dei flussi “per cassa”.
Si pensi al caso seguente:
- utile ante imposte della CFC, frutto di attività commerciale e suscettibile di imputazione per competenza, pari a 100;
- aliquota di tassazione del reddito nel territorio estero pari al 5%;
- assenza di ritenute sui dividendi in uscita;
- socio di controllo o collegamento italiano, società di capitali, con aliquota media sul reddito complessivo pari a quella ordinaria IRES.
La tassazione per trasparenza vedrà gli utili lordi esteri subire una tassazione globale di 27,5, in parte versata all’estero (5), in parte in Italia (22,5), grazie al meccanismo del credito d’imposta ex art. 165 del TUIR. La pretesa impositiva italiana sulle somme in questione sarà esaurita, in ragione dell’applicazione del successivo art. 167, comma 7, a norma del quale gli utili distribuiti dalla partecipata estera non concorrono a formare il reddito del soggetto residente sino a concorrenza di quanto già traslato per trasparenza.
Nel caso in cui, invece, la disciplina CFC fosse disapplicata, il carico fiscale globale gravante sugli stessi utili, nell’incapacità di invocare l’esimente di cui all’art. 87, comma 1, lett. c) del TUIR, sarebbe pari a 31,125, frutto della somma tra le imposte estere di 5 (5% di 100) e l’IRES di 26,125 (27,5% di 95) richiesta in sede di distribuzione.
È giocoforza notare come il differenziale esistente tra le due ipotesi, qui pari a 3,625, sarà destinato a crescere all’aumentare del carico fiscale esistente oltreconfine e a diminuire, a parità di altre condizioni, in presenza di una maggiore imposizione italiana.
L’applicazione non può basarsi su valutazioni di opportunità
È legittimo chiedersi a questo punto se l’applicazione o meno della normativa CFC possa derivare da valutazioni di opportunità del contribuente. Il caso al quale ci si riferisce è quello del socio italiano che non disapplichi la tassazione per trasparenza, pur nella piena possibilità di invocare le esimenti di legge (verosimilmente quella di cui all’art. 167, comma 5, lett. a) del TUIR), in ragione dell’impossibilità di usufruire della parziale esclusione da imposizione sui dividendi distribuiti da quest’ultima.
La conclusione dovrebbe essere negativa, solo avendo a mente il passaggio della circolare 26 maggio 2011, n. 23, a detta del quale l’adozione del regime CFC non può essere basata “su valutazioni di convenienza del contribuente residente”: nondimeno, ci si interroga sulla reale possibilità per l’Erario di gestire efficacemente un contradditorio con il contribuente, che verta sull’esistenza di esimenti che quest’ultimo non invoca.

Studi di settore: focus dell’Agenzia su correttivi e territorialità

accertamento

Studi di settore: focus dell’Agenzia su correttivi e territorialità

La circolare n. 30 ha analizzato le novità che caratterizzano gli studi di settore applicabili nel periodo d’imposta 2010

/ Mercoledì 29 giugno 2011
Con la circolare n. 30/2011, diffusa ieri, l’Agenzia delle Entrate esamina, come ogni anno, le principali novità che caratterizzano gli studi di settore per il periodo d’imposta 2010.
Vengono, tra l’altro, esaminati i seguenti aspetti:
- la revisione congiunturale degli studi di settore con l’approvazione dei correttivi anti-crisi all’analisi della normalità economica, specifici per la crisi, congiunturali di settore e congiunturali individuali;
- le nuove esclusioni dall’accertamento basato sugli studi per le società cooperative a mutualità prevalente, i soggetti IAS e i soggetti che esercitano in maniera prevalente l’attività contraddistinta dal codice 64.92.01 (“Attività dei consorzi di garanzia collettiva fidi”) o dal codice 66.19.40 (“Attività di Bancoposta”);
- l’elaborazione su base regionale dello studio VM05U (“Commercio al dettaglio di abbigliamento, calzature e pelletterie ed accessori”) e l’approvazione di due nuovi indicatori territoriali, che permettono di differenziare l’applicazione degli studi di settore in cui sono previsti, per tenere conto del luogo in cui viene svolta l’attività economica (territorialità del livello dei canoni di locazione residenziale e territorialità del livello delle retribuzioni degli intermediari del commercio su base regionale);
- l’applicazione anche agli studi evoluti per il 2010 (così come quelli approvati per l’annualità precedente) della modalità di stima dell’apporto dei soci amministratori ai fini della determinazione presuntiva dei ricavi basata non più sulle spese sostenute, bensì sul numero di soggetti e sulla percentuale di lavoro prestata.
Alcune novità coinvolgono anche la modulistica utilizzabile per la dichiarazione dei dati rilevanti. Si tratta, a titolo esemplificativo:
- delle modifiche del quadro A ed F, al fine di adeguare i modelli alla nuova metodologia di stima dei soci amministratori;
- dell’introduzione di tre nuovi righi nel quadro F, sezione “Ulteriori elementi contabili”, per monitorare i casi di perdita e distruzione dei beni sottratti dal complesso aziendale;
- dell’introduzione del rigo F39 per la rilevazione delle “Spese per l’acquisto di beni strumentali di costo unitario non superiore a 516,46 euro” (le informazioni reperite consentiranno di sanare le anomalie che si verificano nell’indicatore “Incidenza degli ammortamenti per beni mobili strumentali rispetto al valore storico degli stessi” in caso di deduzione dell’intera spesa sostenuta nell’anno per l’acquisto di tali beni);
- dell’informazione relativa all’esercizio dell’opzione per la scelta della contabilità ordinaria, in luogo di quella semplificata;
- delle modifiche ai quadri G, Z ed X.
Conferme sull’applicazione dei correttivi
Rispetto alla revisione congiunturale, viene confermato che le risultanze degli studi che tengono conto dei correttivi anti-crisi trovano applicazione, ai fini dell’accertamento, per il solo periodo d’imposta 2010 e non possono avere efficacia retroattiva (sul punto si veda “Studi di settore «retroattivi» soltanto senza correttivi anti-crisi” del 17 gennaio 2011). Inoltre, analogamente agli anni precedenti, si precisa che la revisione congiunturale non dà luogo a un’“evoluzione” degli studi di settore, ma solo a un’integrazione degli stessi; conseguentemente, in caso di adeguamento ai risultati degli studi non evoluti per il 2010, è dovuto il versamento della maggiorazione del 3%, ove necessaria.

IVA: ordinamento processuale «autonomo» tra prestatore e destinatario

iva

IVA: ordinamento processuale «autonomo» tra prestatore e destinatario

Per l’Avvocato generale, le autorità interessate non sono tenute a coordinare i procedimenti amministrativi adottando una posizione uniforme

/ Mercoledì 29 giugno 2011
Con le Conclusioni presentate il 28 giugno 2011, procedimento C-218/10, l’Avvocato generale della Corte di Giustizia chiarisce la portata applicativa dell’articolo 9, n. 2, lett. e), della Direttiva 77/388/CEE (ora Direttiva 2006/112/CE).
In particolare, saltando per esigenze di sintesi l’esposizione dei fatti, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo citato debba essere interpretato nel senso che l’espressione “messa a disposizione di personale” comprenda anche la messa a disposizione di lavoratori autonomi, non in rapporto di dipendenza con l’impresa fornitrice. In secondo luogo, il giudice chiede se l’ordinamento processuale nazionale debba garantire che una medesima operazione (nel caso di specie una prestazione di servizi) venga assoggettata allo stesso trattamento fiscale, nei confronti non solo del soggetto passivo (prestatore del servizio), ma anche del relativo destinatario. Vengono, altresì, chiesti chiarimenti in ordine ai termini entro i quali il secondo può procedere alla detrazione dell’imposta assolta a monte sulla prestazione ricevuta.
Sulla prima questione, il ragionamento dell’Avvocato generale si snoda attraverso tre passaggi tra loro concentrici. In particolare, viene chiarito che (passaggio linguistico-sistematico) l’art. 9, n. 2, lett. e) citato utilizza in alcune versioni linguistiche il termine generico “personale” o termini corrispondenti, anziché un termine più specifico (esempio “lavoratore” o “dipendente”), e che tale termine generico, pertanto, non si riferisce necessariamente ai lavoratori con contratto di lavoro subordinato.
In secondo luogo (passaggio di tipo oggettivo), viene indicato il perimetro applicativo della disposizione, evidenziando che la caratteristica principale di questo servizio potrebbe anche consistere nel fatto che “tale altro soggetto riceva personale o manodopera, a prescindere dalla natura del rapporto contrattuale tra il prestatore di tale servizio e le persone messe a disposizione”.
In terzo luogo (passaggio di tipo normativo-comparativo) viene chiarito che il termine “personale” non ha necessariamente lo stesso significato che riveste in altre disposizioni della medesima Direttiva, né tantomeno in altri atti normativi dell’UE, dovendosi tener conto del contesto specifico di ciascuna disposizione in cui tale termine viene utilizzato (cfr. sentenze 9 marzo 2006 causa C-114/05, e 7 giugno 2005 causa C-17/03).
La “messa a disposizione di personale” include i lavoratori autonomi
In altri termini, si deve “ricercare” se, in riferimento al caso prospettato, la caratteristica o lo scopo principale del servizio in questione consista nella “semplice” messa a disposizione di manodopera (nella specie conducenti di autotreni) a un soggetto passivo, oppure nella prestazione diretta di servizi di trasporto da parte del fornitore (in quest’ipotesi, i dipendenti o i lavoratori autonomi subcontraenti “vengono messi a disposizione nel contesto di tale servizio”). Senza dimenticare che, in detta ipotesi, vengono coinvolte varie operazioni distinte e autonome.
Ciò premesso, l’Avvocato generale conclude che la “messa a disposizione di personale” comprende anche la messa a disposizione di lavoratori autonomi, non in rapporto di dipendenza con il fornitore di tale servizio.
Sulla seconda questione, l’Avvocato, dopo aver rimarcato l’erroneo richiamo, da parte del giudice del rinvio, alla sentenza C-342/87 del 13 dicembre 1989, chiarisce che spetta, in linea di principio, all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici, nonché le autorità amministrative competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto dell’Unione. In particolare, viene ribadito il rispetto ai principi di stampo comunitario, quale il principio di equivalenza e il principio di effettività.
In sintesi, non vige alcun obbligo di coordinare i procedimenti amministrativi di modo che in ogni singolo caso le autorità interessate adottino una posizione uniforme in merito a disposizioni di diritto dell’Unione: il diritto dell’UE, in altri termini, non prevede l’automatica estensione della decisione relativa al luogo dell’imposizione e all’assoggettamento ad imposta adottata da un giudice nazionale in relazione alla posizione del prestatore del servizio anche ai destinatari di detto servizio.

Deducibili le erogazioni liberali anche senza versamento su conto corrente

oneri deducibili

Deducibili le erogazioni liberali anche senza versamento su conto corrente

Rilevano le ricevute rilasciate dai responsabili di Chiese ed Enti valdesi che contengano i dati richiesti

/ Mercoledì 29 giugno 2011
A fronte delle richieste di chiarimenti relative alla modalità di pagamento delle erogazioni liberali in denaro in favore della Tavola valdese, ai fini della fruizione della deduzione di cui all’art. 10 comma 1 lett. l) del TUIR, l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 69/2011 diffusa ieri, ha ritenuto idonee le ricevute rilasciate dai responsabili di Chiese ed Enti valdesi, seppur non accompagnate dalle ricevute di versamento su conto corrente postale o su conto bancario.
Si ricorda che, ai sensi del citato art. 10 comma 1 lett. l) del TUIR, sono deducibili ai fini IRPEF, fino all’importo di 1.032,91 euro, le erogazioni liberali in denaro effettuate, tra l’altro, a favore della Chiesa Valdese e dell’Unione delle Chiese metodiste e valdesi, per fini di culto, istruzione e beneficienza che le sono propri e per i medesimi fini delle Chiese e degli enti aventi parte nell’ordinamento valdese, ai sensi dell’art. 2 comma 1 della L. n. 409/1993 e del DM 11 dicembre 1993.
Al riguardo, l’Agenzia precisa che l’art. 1 del DM 11 dicembre 1993 ha previsto che le erogazioni liberali in denaro possano risultare, oltre che dall’attestazione o ricevuta di versamento in conto corrente postale e, in caso di bonifico bancario, dalla ricevuta rilasciata dall’azienda di credito, anche dall’attestazione o certificazione rilasciata dalla Tavola valdese, su appositi stampati da questa predisposti e numerati.
Secondo la circolare n. 21 del 23 aprile 2010 (§ 4.1), detti stampati devono contenere, tra i dati essenziali, il numero progressivo dell’attestazione o certificazione, il cognome, nome e Comune di residenza del donante, l’importo dell’erogazione liberale, la causale dell’erogazione liberale.
Con riferimento ai soggetti abilitati al rilascio, è stato inoltre chiarito che “l’attestazione o certificazione può essere rilasciata e sottoscritta, oltre che dal legale rappresentante della Tavola valdese, anche da soggetti incaricati dalla Tavola valdese presso le chiese facenti parte dell’Unione delle Chiese metodiste e valdesi”.
In ragione delle suddette considerazioni, l’Agenzia conferma che le ricevute rilasciate dai responsabili di Chiese ed Enti valdesi che contengono i dati richiesti sono idonee a consentire la deduzione delle suddette erogazioni liberali.

Dichiarazioni di terzi a supporto degli studi di settore

Accertamento

Dichiarazioni di terzi a supporto degli studi di settore

Le dichiarazioni di terzi possono assumere valore di presunzione grave, precisa e concordante unitamente ad altre prove che le rendono attendibili

/ Mercoledì 29 giugno 2011
La Cassazione puntualizza ancora i criteri di utilizzazione in sede di accertamento di parametri e studi di settore, con una nuova pronuncia (n. 14055 del 27 giugno 2011) che accoglie il ricorso del Fisco e cassa con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale la decisione della controversia.
Nello specifico, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso avverso la pronuncia della C.T. Reg., lamentandone i seguenti profili:
- onere di effettuare ulteriori accertamenti diretti a suffragare la rettifica, tramite i parametri contabili, dei compensi dichiarati del contribuente;
- esclusione della rilevanza delle dichiarazioni del terzo;
- omessa analisi delle scritture contabili.
Viene premesso che studi di settore e parametri contabili legittimano il ricorso all’accertamento analitico-presuntivo quando i valori attraverso gli stessi determinati superano quelli dichiarati dal contribuente. Tali parametri standardizzati devono essere poi personalizzati con riferimento all’attività in concreto svolta dal contribuente, sulla scorta degli elementi da questo forniti in sede di contraddittorio. In sede contenziosa, il giudice tributario di merito è tenuto a valutare, preventivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione finanziaria, volti a dimostrare l’idoneità del parametro prescelto a rappresentare il caso concreto, e, solo successivamente, potrà dare ingresso all’eventuale prova contraria del contribuente.
Nel caso di specie, il giudice di secondo grado non ha correttamente applicato tali principi, avendo negato valore presuntivo ai parametri applicati dall’ufficio accertatore e facendo carico questo di non aver disposto accertamenti più appropriati per acquisire elementi certi per suffragare le rettifiche basate sui parametri.
Esclusi incombenti ulteriori a carico del Fisco
A ben vedere – precisa la Cassazione – il potere impositivo dell’ufficio non è condizionato ad alcun ulteriore incombente, tra l’altro neppure previsto dalla Legge. Incombe, al contrario, sul contribuente fornire specifici elementi costituenti prova contraria alle presunzioni desunte dai parametri (supporti non prodotti nel caso di specie).
Nulla può essere mosso rispetto al comportamento dell’ufficio, il quale ha invece supportato gli avvisi di accertamento emessi con una copiosa documentazione e con le dichiarazioni di un terzo, nella specie la moglie separata del contribuente; quest’ultima aveva fornito al Fisco materiale (elenco clienti, documentazione informale ed extracontabile) dal quale si desumeva in modo attendibile l’omessa fatturazione della maggior parte delle prestazioni eseguite dal contribuente (svolgente la professione di veterinario).
Tali dichiarazioni, che, di regola, dovrebbero rivestire valore indiziario, acquisiscono nel procedimento di accertamento standardizzato in oggetto un “carattere fortemente presuntivo”, essendo supportate da elementi documentali che li rendono attendibili (così Cass. 9402/2007).
Anche rispetto all’omessa analisi delle scritture contabili del contribuente accertato viene accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate: la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione di studi di settore e parametri prescinde, infatti, dall’esame delle scritture contabili e non è preclusa dalla loro eventuale regolarità. Anzi, la loro regolarità non può neppure costituire valida prova contraria a fronte degli elementi presuntivi desumibili dai parametri.

Possibile il contratto di amministrazione senza intestazione fiduciaria

Redditi diversi

Possibile il contratto di amministrazione senza intestazione fiduciaria

Per Assofiduciaria, la ris. 61 dell’Agenzia conferma che si può ricorrere allo schema senza intestazione per l’amministrazione di titoli e valori mobiliari

/ Mercoledì 29 giugno 2011
Secondo quanto chiarito dalla ris. Agenzia delle Entrate 61/2011, le società fiduciarie possono operare come sostituti d’imposta sia per i redditi di capitale che per i redditi diversi – applicando eventualmente il regime del risparmio amministrato di cui all’art. 6 del DLgs. 461/97 – solo a condizione di garantire che ogni flusso reddituale, relativo ai conti e dossier direttamente intestati al fiduciante, transiti su conti intestati alla società fiduciaria. Quest’ultima, quindi, dovrà effettuare le comunicazioni dovute in base alla disciplina del monitoraggio fiscale e quelle imposte ai sostituti di imposta, salvo per i flussi che scontano il prelievo in via definitiva ai sensi dell’art. 6 del DLgs. 461/97.
Assofiduciaria, con la comunicazione n. 45/2011, precisa che la risoluzione citata conferma la possibilità di agire per il tramite di un rapporto di amministrazione senza intestazione, con riferimento sia alle attività finanziarie, sia a quelle patrimoniali, a prescindere dall’applicazione della disciplina sullo scudo fiscale.
Si osserva che la risposta fornita dall’Agenzia delle Entrate presuppone l’esistenza di una fattispecie specifica e ben delimitata, ove sia dato riscontrare la diretta intestazione al fiduciante dei conti e dossier da egli aperti presso l’intermediario (nella specie, estero) e la conclusione con la fiduciaria di un contratto di amministrazione senza intestazione, nonché l’apertura – per la regolazione dei flussi relativi ai ridetti conti e dossier – di conti intestati alla fiduciaria stessa anche ai fini dell’operatività dei regimi di sostituzione di imposta e del risparmio amministrato.
L’Agenzia conferma che l’amministrazione senza intestazione rientra nella tipica attività fiduciaria, il che, pertanto, impone di considerare come veri e propri conti fiduciari (senza volontà alcuna delle parti – fiduciante e fiduciaria – di attribuire loro alcuna differente valenza) quei conti aperti a nome della fiduciaria, in via esclusivamente strumentale all’esecuzione degli atti giuridici richiesti dal fiduciante in esecuzione dell’incarico di amministrazione.
In merito, Assofiduciaria osserva che l’impostazione ipotizzata nella risposta dell’Agenzia delle Entrate si riferisce soltanto all’apertura di un conto corrente di appoggio, intestato alla società fiduciaria che agisce per conto del cliente-fiduciante, dove far affluire la liquidità derivante dagli smobilizzi delle attività finanziarie, comprensivi delle plusvalenze e/o minusvalenze realizzate dalla negoziazione delle attività finanziarie stesse, nonché l’accreditamento dei redditi di capitale rinvenienti dalle attività finanziarie che formano oggetto di amministrazione senza intestazione. In funzione di tale presupposto contrattuale, l’Agenzia precisa che lo schema negoziale delineato equivale di fatto all’apertura di un contratto di deposito titoli in Italia.
La conversione del rapporto sorto con lo scudo non va indicata nel 770
Assofiduciaria, poi, fa presente che, nell’ipotesi di conversione di un rapporto con intestazione sorto in relazione allo scudo fiscale in altro senza intestazione, tale conversione non deve essere inserita nel modello 770, ma che, pur mantenendosi inalterati gli effetti giuridici dello scudo, essa può comportare l’effetto pratico della perdita della segretazione del rapporto, come per esempio in caso di reintestazione ai soci delle quote di società a responsabilità limitata inizialmente intestate alla fiduciaria in occasione dell’emersione.
Parimenti – anche al di fuori dei casi di scudo – il trasferimento delle attività a favore di un altro intermediario non dovrà essere segnalato nel modello 770, poiché la segnalazione è dovuta solo se il rapporto di provenienza è regolato dal regime dichiarativo ovvero laddove cambi la proprietà del bene e non anche in caso di sostituzione dell’intermediario cui il bene è affidato, purché non cambi il fiduciante.

Eccedenze di interessi indeducibili in caso di trasformazione

Interessi passivi

Eccedenze di interessi indeducibili in caso di trasformazione

Per l’Agenzia delle Entrate, la società di persone che risulta dall’operazione non ha titolo a dedurre ex post gli interessi

/ Martedì 28 giugno 2011
Nella circolare n. 29 di ieri, 27 giugno 2011, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che, in caso di trasformazione di società di capitali in società di persone, le eventuali eccedenze di interessi passivi “maturate” dalla ex società di capitali non sono deducibili nei periodi d’imposta successivi, a trasformazione avvenuta.
La motivazione dell’orientamento dell’Agenzia risiede nella constatazione per cui, una volta perfezionata la trasformazione, la società deduce gli interessi secondo la normativa delle società di persone (art. 61 del TUIR), che non ammette deduzioni “postume”, e non più in base all’art. 96, che invece lascia aperta la strada del recupero delle eccedenze di interessi nei periodi d’imposta successivi, in presenza di ROL capienti.
Si tratta, tuttavia, di una linea interpretativa sulla quale appare opportuno avanzare alcune riflessioni.
In primo luogo, principio cardine della trasformazione societaria è quello della “neutralità” delle posizioni fiscali prima e dopo l’operazione. Lo stesso art. 170, comma 4 del TUIR precisa, ad esempio, che le riserve di utili costituite prima della trasformazione in società di persone mantengono il loro status di poste imponibili secondo le regole previste per le riserve di società di capitali; conseguentemente, se in bilancio viene data menzione della loro origine, esse sono tassate in capo ai soci solo all’atto della effettiva distribuzione, e con le percentuali di imponibilità previste dalla legge per gli utili formatisi in capo alle società di capitali (es. 40% o 49,72%, se i soci sono persone fisiche).
Si potrebbe obiettare a queste considerazioni come, nel caso delle riserve, esista una regolamentazione normativa (l’art. 170, appunto), mentre nel caso degli interessi questo non succede. Si tratterebbe, tuttavia, di obiezioni superabili, in quanto già in altri casi la stessa Agenzia delle Entrate ha previsto tale “neutralità” anche solo in via interpretativa, pur in assenza di disposizioni di legge che regolamentassero la fattispecie. Il riferimento è, naturalmente, alla risoluzione n. 60 del 16 maggio 2005, nella quale è stato precisato che, nel caso di trasformazione di società di capitali in società di persone, la società trasformata mantiene il diritto all’utilizzo delle perdite fiscali che si sono originate nei periodi di imposta in cui questa era soggetta all’IRPEG/IRES; ad avviso della stessa Agenzia, la trasformazione non comporta una novazione soggettiva, con estinzione di un soggetto e la nascita di un altro, bensì un solo mutamento della natura giuridica della società coinvolta e, conseguentemente, le posizioni acquisite (tra cui la perdite) devono essere mantenute anche dopo l’operazione. Analoga impostazione avrebbe, pertanto, potuto essere adottata anche per le eccedenze di interessi passivi.
Possibile violazione del divieto di doppia imposizione
Sotto un terzo profilo, data la natura di variazione temporanea della ripresa fiscale operata dalle società di capitali in caso di indeducibilità degli interessi a norma dell’art. 96 del TUIR, il mancato riconoscimento in capo alla società di persone risultante dalla trasformazione della deducibilità nei periodi d’imposta caratterizzati da ROL capienti appare quale violazione del divieto della doppia imposizione sancito dall’art. 163 del TUIR. Se, ad esempio, una srl chiudesse l’esercizio “n” in perdita fiscale per 20, deducendo tutti gli interessi, si trasformasse in snc e l’esercizio “n+1” chiudesse con un reddito imponibile di 20, la stessa snc potrebbe compensare tale reddito con le perdite “ereditate”, con il conseguente azzeramento dell’imponibile da trasferire ai soci. Se, invece, la stessa srl avesse chiuso l’esercizio “n” sotto il profilo fiscale a zero, per effetto di componenti deducibili per 20 e una ripresa fiscale in aumento per interessi di pari importo, qualora dopo la trasformazione venisse prodotto un reddito di 20 esso sarebbe totalmente imputato ai soci, trasformando la variazione da temporanea in permanente.
Da ultimo, si deve evidenziare che nulla, sotto il profilo pratico, ostacolerebbe il diritto della società di persone trasformata di dedurre ex post le eccedenze di interessi. Come avvenuto, infatti, per le perdite, sarebbe agevole prevedere nel quadro RS del modello UNICO un prospetto di “memoria” delle suddette eccedenze; con, oltretutto, il vantaggio rappresentato dal fatto che le eccedenze di interessi, a differenza delle perdite, non hanno alcuna stratificazione temporale e, pertanto, potrebbe al limite essere sufficiente una casella per la relativa rappresentazione.
In definitiva, potrebbero aprirsi spazi per una rivisitazione dell’orientamento in questione; nell’immediato, le società che decidessero di aderirvi sono tenute a stralciare dal bilancio le imposte differite attive eventualmente iscritte a seguito dell’indeducibilità degli interessi.

Costi di progettazione di immobili all’estero: ai fini IVA conta l’ubicazione

Iva

Costi di progettazione di immobili all’estero: ai fini IVA conta l’ubicazione

Per la circ. 29 diffusa ieri dall’Agenzia, tali costi rientrano nell’ambito dei beni immobili e sono rilevanti nello Stato in cui si trova il fabbricato

/ Martedì 28 giugno 2011
Con la circolare n. 29/2011 di ieri, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che i costi sostenuti per la progettazione di un immobile sono qualificati nell’ambito dei servizi relativi a beni immobili, di cui all’art. 7-quater, lett. a), del DPR 633/72, con conseguente rilevanza ai fini IVA nello Stato in cui è ubicato l’immobile. L’art. 7-quater del DPR 633/72, infatti, disciplina la territorialità IVA dei servizi relativi a beni immobili, includendo, per quel che interessa in questa sede, anche le perizie, le prestazioni di agenzia e le prestazioni inerenti alla preparazione e al coordinamento dell’esecuzione dei lavori immobiliari. Tali prestazioni, così come in genere i servizi relativi a beni immobili, sono rilevanti ai fini IVA in Italia quando l’immobile è ivi situato.
La questione posta all’attenzione dell’Agenzia delle Entrate riguarda un ingegnere italiano cui è stata commissionata, da parte di una società italiana, la progettazione di un complesso immobiliare situato in Paese extra-UE (e, come precisato, non incluso negli elenchi dei Paesi a fiscalità privilegiata, pur non essendo tale dato rilevante ai fini dell’individuazione del luogo di rilevanza territoriale del servizio). Si chiede conferma se tale servizio rientri nell’ambito applicativo di cui all’art. 7-quater, lett. a), del DPR 633/72, con conseguente esclusione da IVA per carenza del presupposto territoriale, trattandosi di bene immobile situato all’estero.
L’Agenzia delle Entrate preliminarmente ricorda che la Corte di Giustizia ha sancito il principio secondo cui le disposizioni della Direttiva 2006/112, che prevedono deroghe rispetto ai principi generali, devono essere interpretate in maniera restrittiva (richiamando le sentenze C-49/09 del 28 ottobre 2010, C-86/09 del 10 giugno 2010 e C-94/97 del 22 ottobre 1998). Secondo l’Agenzia, rientrano nell’ambito dei servizi di preparazione e coordinamento dei lavori immobiliari “le prestazioni – rese da ingegneri, architetti o altri professionisti abilitati – relative alla progettazione e alla direzione di lavori immobiliari, al collaudo dell’immobile, alla progettazione degli interni e degli arredamenti integrati”. Al contrario, sono esclusi da tale ambito i servizi di consulenza e assistenza tecnica o legale non direttamente afferenti la preparazione e il coordinamento dei lavori immobiliari, sia pure riferiti a un bene immobile.
In via esemplificativa, secondo l’Agenzia delle Entrate, non rientrano nell’ambito dei servizi riferiti a beni immobili l’attività dell’avvocato relativa alla predisposizione dell’atto di vendita dell’immobile, nonché quella del consulente fiscale per la valutazione dei profili tributari dell’operazione. Tali servizi, quindi, rientrano fra quelli “generici” di cui all’art. 7-ter del DPR 633/72, e sono perciò rilevanti ai fini IVA nel Paese in cui è stabilito il committente.
Nessun adempimento IVA per il servizio di progettazione dell’immobile
Infine, l’Agenzia precisa che per il servizio di progettazione dell’immobile, in quanto fuori campo IVA, non è previsto alcun adempimento ai fini IVA. A tale proposito, pur non riguardando il caso di specie, in cui il committente è un soggetto IVA nazionale, si ricorda che per i servizi di cui all’art. 7-quater, posti in essere con soggetti passivi d’imposta in altro Stato UE, non sussiste l’obbligo di indicazione negli elenchi INTRASTAT, in quanto l’art. 50, comma 6, del DL 331/93 esclude espressamente da tale obbligo le prestazioni di servizi di cui agli artt. 7-quater e 7-quinquies, del DPR 633/72.

Deducibile per competenza l’onere derivante da clausola penale

Reddito d’impresa

Deducibile per competenza l’onere derivante da clausola penale

Alla chiusura dell’esercizio, occorre essere certi dell’inosservanza dei termini stabiliti dal contratto e che il risarcimento sia già determinato

/ Martedì 28 giugno 2011
Con la circolare 27 giugno 2011 n. 29, l’Agenzia delle Entrate, in risposta ai quesiti posti dai commercialisti e dai consulenti fiscali nell’ambito del Modulo di Aggiornamento Professionale 2011, fornisce, tra l’altro, chiarimenti in materia di deducibilità dell’onere derivante dalla clausola penale per inadempienza. Mediante detta clausola, a norma degli artt. 1382-1384 c.c., i contraenti disciplinano gli effetti dell’inadempimento in modo diverso da quanto stabilito dalla legge, concordando una preventiva e convenzionale liquidazione del danno.
Con riferimento all’individuazione del periodo d’imposta di deducibilità della penale che un’impresa è tenuta a pagare ad un ente pubblico in seguito alla violazione degli obblighi contrattuali pattuiti, l’Agenzia precisa che il relativo onere può essere dedotto nell’esercizio di competenza, quando si è certi dell’inosservanza dei termini stabiliti dal contratto e il risarcimento è già determinato.
L’art. 109 comma 1 del TUIR sancisce il principio di competenza temporale, quale principio generale che presiede alla determinazione del reddito di impresa, in base al quale i proventi e gli oneri concorrono alla determinazione del reddito d’impresa nell’esercizio in cui vengono conseguiti o sostenuti, indipendentemente dalla loro manifestazione numeraria.
Tale principio deve, tuttavia, essere rapportato agli ulteriori requisiti della “certezza” e “determinabilità oggettiva” sanciti dal medesimo art. 109 comma 1, secondo periodo, del TUIR, secondo cui “i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”.
Al riguardo, l’Agenzia precisa che il richiamato principio di competenza presuppone il concorso di due requisiti:
- la certezza quanto all’esistenza degli elementi reddituali, che sussiste solo quando si è verificato il relativo presupposto di fatto o di diritto;
- la loro obiettiva determinabilità, con riguardo all’ammontare dei medesimi, nel senso che l’elemento reddituale deve risultare da atti o documenti probatori che contengano le caratteristiche idonee e necessarie alla sua quantificazione.
Resta fermo che, in presenza di tali requisiti, la deducibilità è altresì subordinata alla corretta contabilizzazione del costo e del relativo debito, nel rispetto del generale principio di derivazione del reddito fiscale dai dati del bilancio di cui all’art. 83 del TUIR. Si ricorda inoltre che, ai sensi dell’articolo 109, comma 5 del TUIR: “Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.
Nel quesito sottoposto all’attenzione dell’Agenzia, si fa presente che nel corso del 2010 è intervenuta la violazione degli obblighi contrattuali previsti; sebbene in mancanza di un atto in cui venisse contestata la violazione stessa, alla data del 31 dicembre 2010, l’impresa aveva comunque la sicurezza che il pagamento della penale sarebbe stato richiesto, vista la natura pubblica della controparte. La richiesta di pagamento della penale contrattuale relativamente alla violazione commessa, e quindi la formazione del titolo giuridico, avviene successivamente, nel gennaio 2011.
Al momento della chiusura dell’esercizio, inoltre, l’impresa era in possesso di tutti gli elementi per determinare, sulla base del contratto, l’ammontare della penale.
Nel caso di specie, l’Agenzia ritiene pertanto verificata la sussistenza delle condizioni di certezza e oggettiva determinabilità. Mediante l’apposizione della suddetta clausola, infatti, le parti prevedono una sanzione per l’inadempimento; il risarcimento spettante alla parte non inadempiente è quindi predeterminato.
Se ne deve concludere che il costo relativo alla penale contrattuale potrà essere dedotto dal reddito relativo al periodo d’imposta 2010 (UNICO 2011).
Di contro, si segnala che secondo la Cassazione (sentenza n. 2892 del 27 febbraio 2002) i proventi e gli oneri possono essere imputati al relativo periodo d’imposta fino al momento “della redazione e presentazione della dichiarazione” dei redditi, purché entro tale termine si siano manifestati i requisiti della certezza e dell’oggettiva determinabilità richiesti dalla norma. Tale minoritario orientamento pare non condivisibile anche alla luce di quanto espresso nel documento in commento.
Sempre secondo l’Agenzia, se l’impresa presentasse, negli anni successivi, opposizione dinanzi all’autorità giudiziaria e ottenesse una pronuncia favorevole (con conseguente restituzione delle somme pagate), la stessa dovrà rilevare una sopravvenienza attiva.

L’Agenzia amplia la difesa negli accertamenti sulla competenza fiscale

Accertamento

L’Agenzia amplia la difesa negli accertamenti sulla competenza fiscale

Nell’errata imputazione a periodo, il diritto al rimborso del costo non dedotto nell’anno giusto scatta anche in caso di adesione

/ Martedì 28 giugno 2011
Varie volte ci siamo soffermati sugli effetti degli accertamenti che coinvolgono componenti pluriennali di reddito, in primo luogo su quelli ove viene contestata la violazione della competenza fiscale.
Ora, l’Agenzia delle Entrate, specificando il contenuto della precedente circ. 23 del 2010, sostiene che il diritto al rimborso, ad esempio del costo non dedotto nell’anno di competenza, deve essere attribuito in ogni ipotesi in cui l’accertamento diviene definitivo, quindi anche in caso di acquiescenza, accertamento con adesione e conciliazione giudiziale (circ. 29 del 2011 § 1.4).
Riprendendo concetti già esaminati in precedenti interventi, si pensi al caso in cui il contribuente deduce un costo nell’anno sbagliato (ma alle stesse conclusioni si deve giungere per la tassazione dei ricavi in anni errati): se egli ritiene fondato il rilievo dell’Ufficio, non viene comunque meno il diritto di deduzione del costo, che il contribuente avrebbe dovuto indicare in dichiarazione in osservanza della competenza fiscale.
Quindi, dal momento della definitività dell’accertamento ove viene recuperato a tassazione il costo (momento che coincide con lo spirare del termine per il ricorso, con il giudicato di rigetto del ricorso, con la data di stipula dell’accertamento con adesione e così via), scattano i termini per la richiesta di rimborso. È importante ricordare che, in questo specifico caso, il termine per il rimborso non è quello di cui all’art. 38 del DPR 602/73, ma quello biennale disciplinato dall’art. 21 del DLgs. 546/92, norma applicabile nei casi come quello di specie.
Una volta stipulata l’adesione, scatta il diritto al rimborso, anche se sarebbe senz’altro opportuno che la partita potesse chiudersi già in sede di contraddittorio, ma questo è un altro discorso (si veda “L’errore sulla competenza si «aggiusta» con l’adesione” del 20 gennaio 2011).
Stesso discorso per la conciliazione giudiziale
La presa di posizione dell’Agenzia delle Entrate è condivisibile, anche se, forse, un tantino scontata. Tuttavia, il chiarimento è di certo opportuno, visto che un precedente (per quanto ci consta isolato) dalla Suprema Corte si è espresso in senso opposto (Cass. 19 giugno 2009 n. 14300), sulla base, sia permesso, di una concezione arcaica del diritto, ove l’immanente principio del divieto di duplicazione d’imposta ha dovuto lasciare il passo a quello sugli effetti della novazione delle obbligazioni, principio, di matrice civilistica, calato sic et simpliciter in ambito fiscale.
Per i giudici, la definizione della controversia, nella specie, mediante conciliazione giudiziale, ha carattere novativo dell’obbligazione tributaria, e comporta la sostituzione dell’obbligazione originaria “con una certa e concordata, tanto è vero che il relativo processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute”: da qui l’impossibilità di rimettere in discussione la questione sotto ogni aspetto, con susseguente infondatezza della domanda di rimborso proposta per effetto della definitività dell’accertamento sull’errata imputazione a periodo, accertamento oggetto, come visto, di conciliazione giudiziale.
Il ragionamento effettuato dalla Corte di Cassazione vale anche nel caso dell’adesione ai “PVC” o nell’adesione agli inviti al contraddittorio, stante l’identità di situazioni.

Arriva la bozza di riforma fiscale: addio IRAP, tre aliquote IRPEF e IVA a +1%

riforma fiscale

Arriva la bozza di riforma fiscale: addio IRAP, tre aliquote IRPEF e IVA a +1%

Prende forma il disegno di legge delega, che giovedì prossimo sarà all’esame del Consiglio dei Ministri insieme alla manovra correttiva

/ Martedì 28 giugno 2011
Tre aliquote IRPEF (20, 30 e 40%) al posto delle attuali cinque, aumento dell’IVA di un punto percentuale per le aliquote del 10 e del 20% (che passerebbero, così, all’11 e al 21%), e soprattutto “addio” IRAP dal 2014. Questo il nocciolo della bozza del disegno di legge delega sulla riforma fiscale: il documento – lungo appena tre pagine, stando alle indiscrezioni di stampa – dovrebbe approdare in Consiglio dei Ministri giovedì prossimo, insieme al decreto sulla manovra correttiva di quest’anno, pari a 40 miliardi di euro.
Per molti versi, al di là delle tre aliquote IRPEF, già annunciate nei giorni scorsi, si tratta di un colpo di scena. A stupire maggiormente è la prevista abolizione, dal 2014, dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), che da sola porta allo Stato circa 38 miliardi di euro l’anno. Nata nel 1997, e introdotta l’anno successivo in Finanziaria, l’IRAP ha sostituito sette precedenti imposte dovute da lavoratori autonomi e imprese: contributi sanitari e tassa sulla salute, ILOR, ICIAP, patrimoniale per le imprese, tassa annuale sulla partita IVA e tasse di concessione comunale. Una piccola riforma federalista ante litteram, quella dell’IRAP, le cui basi furono poste già dal 1996 con l’obiettivo dichiarato di dare maggiore autonomia impositiva alle Regioni.
Tutto da rifare, secondo la bozza di riforma tributaria allo studio del Governo, impegnato anche sul fronte della nuova manovra correttiva da 40 miliardi, chiesta a gran voce dagli industriali. Per la leader di Confindustria Emma Marcegaglia, bisogna evitare che i conflitti interni alla maggioranza ne impediscano l’approvazione, perché “scelte diverse in questo momento sarebbero molto pericolose”, mentre l’ad Eni Paolo Scaroni auspica massimo rigore: “Negli ultimi tempi – ha spiegato – abbiamo visto qualche piccolo scricchiolio che non ci è piaciuto, il rigore è indispensabile”.
Ma non sono mancate reazioni negative alle ipotesi di manovra, che dovrebbe imporre una serie di tagli su pubblico impiego, enti locali, costi della politica e pensioni, con la soppressione dell’ICE (Istituto per il commercio estero) e la privatizzazione della Croce Rossa Italiana. Per oggi è prevista una manifestazione dei sindacati di base in difesa dei lavoratori della CRI, e proteste potrebbero arrivare anche per la riduzione del 10% del fondo FAS destinato alle Regioni del Mezzogiorno: “Ci troveremmo dinanzi a un colpo mortale contro la già fragile economia meridionale”, ha rimarcato il segretario nazionale di Noi Sud, Arturo Iannaccone.
Tornando alla riforma fiscale, l’abolizione dell’IRAP non è l’unica sorpresa arrivata in queste ore. L’innalzamento dell’IVA, infatti, era stato seccamente smentito la scorsa settimana dal Ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, all’Assemblea generale di Confcommercio: “Non è intenzione del Governo costruire la riforma del Fisco sull’aumento dell’IVA, sarebbe uno strumento che frena la crescita”, aveva spiegato, rassicurando il Presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli.
Se le indiscrezioni fossero confermate, invece, le due aliquote più elevate dell’IVA dovranno aumentare dell’1%. Le prime reazioni sono discordanti. Da un lato della barricata l’ufficio studi ANCC-COOP, che vede nell’incremento dell’IVA “una mossa perfetta per affossare la già scarsa propensione al consumo degli italiani”, mettendo “le mani in tasca ai meno abbienti”: l’aumento, secondo la COOP, colpirebbe l’acquisto di prodotti di largo consumo (carne, biscotti, cereali, prodotti farmaceutici e bollette), comportando per la famiglia media italiana un aggravio di 290 euro annui.
Per la CGIA di Mestre, risparmi compresi fra 435 e 573 euro
Di parere opposto la CGIA di Mestre, convinta che il mix di novità IRPEF-IVA possa far risparmiare ai nuclei familiari di 3 persone, monoreddito o con reddito doppio, una cifra annua compresa fra 435 e 573 euro. Più precisamente:
- per un lavoratore dipendente monoreddito con un figlio a carico e un imponibile IRPEF di 34.774 euro, l’aggravio d’imposta determinato dall’incremento IVA, pari a 166,37 euro, verrebbe compensato dalla diminuzione di 600,92 euro del carico fiscale IRPEF;
- per una famiglia bireddito, con un figlio a carico e un imponibile IRPEF di 34.774 euro, si arriverebbe invece a un risparmio di 573,83 euro annui.
Ulteriori interventi dovrebbero riguardare la classificazione, secondo 11 criteri, degli attuali 476 contributi statali – con priorità a lavoro, famiglie e giovani – e l’introduzione dal 2012 di un’aliquota unica al 20% per le rendite finanziarie, esclusi i titoli di Stato. Chi si aspettava un’autentica “rivoluzione copernicana” sul fronte fiscale, comunque, resterà deluso: “Impossibile fare una riforma in deficit – ha spiegato il Ministro Tremonti nel presentarne la bozza –, non si può sconquassare il bilancio dello Stato”.

Tre mesi per le verifiche nella sede del contribuente

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Tre mesi per le verifiche nella sede del contribuente

Il termine, contenuto nel maxiemendamento al DL Sviluppo, crea disparità fra soggetti in contabilità ordinaria, semplificata o lavoro autonomo

/ Lunedì 27 giugno 2011
Verifiche fiscali nella sede del contribuente da concludere nel termine di tre mesi. È questa la novità contenuta nel maxiemendamento che modifica il DL n. 70/2011, meglio conosciuto come Decreto Sviluppo. Il riferimento riguarda la disposizione contenuta nell’articolo 7, comma 2, lettera c), del menzionato decreto. Ancora una volta viene modificato l’articolo 12, comma 5, della L. n. 212/2000, riguardante il tempo di permanenza nella sede del contribuente da parte degli organi di controllo. Dopo l’intervento della Camera, al comma 5 è aggiunto che: “Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l’eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni lavorativi contenuti nell’arco di non più di un trimestre in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente”.
Per effetto di queste modifiche, la situazione, dunque, è la seguente:
- la verifica nei confronti dei soggetti in contabilità ordinaria presso la sede del contribuente non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili di altri trenta giorni. I giorni lavorativi devono essere considerati come effettiva presenza degli operatori nella sede dell’azienda;
- la verifica nei confronti dei soggetti in contabilità semplificata e nei confronti dei lavoratori autonomi presso la sede del contribuente non può superare i quindici giorni lavorativi, prorogabili di altri quindici giorni e, in ogni caso, la permanenza nella sede di questi contribuenti da parte degli organi di controllo, non può superare l’arco temporale dei tre mesi. Anche per questi soggetti, i giorni lavorativi devono essere considerati come effettiva presenza degli operatori nella sede dell’azienda.
Con la modifica si è cercato di aggiustare il tiro, rispetto alla precedente versione, specificando il termine massimo di tre mesi, entro il quale la verifica deve essere conclusa. Tuttavia, aver inserito, nel comma 5 in parola, la precisazione “in entrambi i casi” porta a concludere che i soggetti in contabilità ordinaria risultino penalizzati rispetto a coloro che si trovano in regime di contabilità semplificata o di lavoro autonomo. Infatti, per questi ultimi la verifica deve terminare entro tre mesi, mentre, per gli altri soggetti, la verifica presso la sede del contribuente può durare anche oltre il citato periodo.
Ipotizzabile una violazione dell’art. 3 della Costituzione
Per comprendere il concetto, si ipotizzi una verifica, secondo il dettato normativo in esame, di un soggetto in contabilità ordinaria iniziata il 21 giugno 2011, con richiesta di proroga. Dal combinato disposto del primo e del terzo periodo, come modificato, del comma 5, l’effettiva presenza nella sede del contribuente da parte dei controllori può protrarsi fino al 31 dicembre del 2011, sempre nel rispetto dei sessanta giorni lavorativi, visto che, per le verifiche dei soggetti “ordinari” non è previsto un termine entro il quale il controllo debba essere concluso. Si può anche comprendere che, trattandosi di soggetti di medie/grandi dimensioni, vi è la necessità di svolgere indagini più approfondite che richiedono un tempo maggiore; tuttavia, è evidente che si potrebbe creare una disparità di trattamento, tra le categorie di contribuenti interessati, tanto da ipotizzare la violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali davanti alla legge.
Da ultimo, tutte le modifiche attualmente effettuate, si pongono in netto contrasto con la giurisprudenza di merito. Questa, in pratica, stabilisce che l’articolo 12, comma 5, della L. n. 212/2000, secondo cui la permanenza degli operatori dovuta a verifiche presso la sede del contribuente non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine, deve essere interpretato in senso restrittivo, calcolando la durata massima come sommatoria di sessanta giorni lavorativi e consecutivi. La conseguenza della violazione della norma comporta la nullità dell’avviso di accertamento, perché fondato su dati nulli contenuti nel processo verbale redatto oltre i termini di legge. Le nuove disposizioni introdotte con il Decreto Sviluppo, senza dubbio, modificano la sostanza della norma, ma questa potrà avere effetti per il futuro e non per le verifiche già concluse con le precedenti disposizioni.

Modelli UNICO al test della rivalutazione dei terreni del 2005

dichiarazione dei redditi

Modelli UNICO al test della rivalutazione dei terreni del 2005

Imprese in difficoltà per individuare le modalità concrete di recupero dell’imposta sostitutiva del 19% persa per la decadenza della rivalutazione

/ Lunedì 27 giugno 2011
La compilazione dei modelli UNICO 2011 presenta difficoltà operative particolari per le imprese che, avendo rivalutato le aree edificabili nel 2005 e non avendovi costruito entro la fine del 2010 almeno un “edificio significativo”, decadono dai benefici della rivalutazione.
Premesso che, dopo la circolare 18/2006, l’Agenzia delle Entrate non ha più esaminato la questione, occorre ribadire come, almeno secondo la dottrina prevalente, l’eventuale tassazione nel periodo d’imposta 2010 dei maggiori valori iscritti nel bilancio 2005 sarebbe scongiurata:
- per le aree iscritte tra le immobilizzazioni, dal fatto che, quale principio generale, i maggiori valori iscritti non hanno rilevanza fiscale;
- per le aree iscritte tra le rimanenze, in virtù del fatto che esse sono valutate ai fini fiscali ai sensi dell’art. 92 del TUIR, ovvero in base al costo specifico (si veda l’Approfondimento Assonime 7/2010).
Anche volendo fare propria questa linea interpretativa (che sposterebbe il momento impositivo al periodo d’imposta in cui avviene la vendita del bene, per la quale si partirebbe dal valore “storico”), rimangono da chiarire due questioni centrali, rappresentate dalla restituzione dell’imposta sostitutiva del 19% a suo tempo versata per la rivalutazione (nel frattempo divenuta inefficace) e dalla materiale compilazione del modello (si veda “Adeguamenti necessari per le imprese in contabilità semplificata” di oggi).
Sotto il primo profilo, non è chiaro se questa restituzione possa avvenire già in UNICO 2011 o se, al contrario, l’imposta sostitutiva rappresenti un credito da fare valere a scomputo dell’IRPEF o dell’IRES dovute all’atto della vendita.
A favore della seconda soluzione sembrerebbe porsi l’Agenzia delle Entrate nella richiamata circolare 18/2006, nella quale si sostiene che, rimandando l’art. 1 comma 476 della L. 266/2005 alle disposizioni attuative della rivalutazione contenute nel DM 86/2002, si deve ritenere applicabile anche l’art. 3, comma 3, del decreto, secondo cui, in caso di cessione del bene prima che la rivalutazione esplichi effetto sotto il profilo fiscale:
- le plusvalenze sono determinate prendendo quale base di partenza il costo non rivalutato del bene;
- il cedente può scomputare dalla maggiore imposta dovuta l’imposta sostitutiva a suo tempo pagata per la rivalutazione;
- il saldo attivo di rivalutazione si affranca, per un importo corrispondente, dallo stato di sospensione d’imposta.
Si potrebbe, però, obiettare a questa ricostruzione che la norma in questione riconosce la restituzione dell’imposta sostitutiva nell’esercizio di realizzo del bene:
- in primo luogo, al verificarsi di eventi specificamente indicati (cessione del bene a titolo oneroso, assegnazione dello stesso ai soci, destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero al consumo personale o familiare dell’imprenditore);
- in secondo luogo, se questi eventi sopraggiungono nell’arco temporale in cui la rivalutazione non ha ancora esplicato i suoi effetti fiscali.
Nel caso considerato, invece:
- la decadenza degli effetti della rivalutazione non è dovuta a un atto di realizzo del bene, ma al semplice mancato avveramento di una condizione imposta dalla legge (l’edificazione entro cinque anni dalla rivalutazione);
- non si è in presenza di un periodo di “moratoria” spirato il quale la rivalutazione si consolida, ma di una rivalutazione che, in presenza di una condizione qualificata come “risolutiva” dalla stessa Assonime (circolare 23/2006 e Approfondimento 7/2010), viene meno.
Ipotesi restituzione “immediata” dell’imposta sostitutiva
Potrebbe, quindi, essere avanzata l’ipotesi secondo cui, anche in assenza di una tassazione sui maggiori valori iscritti, l’imposta possa essere restituita subito, quale diretta conseguenza della mancata edificazione dei terreni.
I dubbi legati all’ipotesi del riconoscimento “immediato” derivano dal fatto che, se questa venisse considerata corretta, sembrerebbe obbligatoria un’apposita istanza di rimborso, in quanto la spettanza del credito d’imposta (da esporre direttamente in dichiarazione) trova una “copertura” normativa nei soli casi previsti dall’art. 3, comma 3, del DM 86/2002 (cessione del bene, ecc.).
Per le imprese che hanno in programma la cessione dei terreni (o dei fabbricati che vi verranno eretti) nel breve periodo, l’adesione alla tesi della restituzione immediata, mediante istanza di rimborso, potrebbe quindi essere potenzialmente pregiudizievole, se i tempi del rimborso si prolungassero, come spesso avviene.