Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate

Attestazione del requisito idoneità finanziaria

ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011

Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari

lunedì 22 agosto 2011

Stabile organizzazione IVA, lente puntata sulle operazioni della casa madre


iva

Stabile organizzazione IVA, lente puntata sulle operazioni della casa madre

La partecipazione o meno della branch all’attività della casa madre è funzionale all’individuazione del debitore d’imposta
/ Lunedì 22 agosto 2011
Per effetto dell’entrata in vigore del Regolamento del Consiglio UE n. 282/2011, il sistema dell’imposta sul valore aggiunto ha trovato una definizione puntuale di “stabile organizzazione”, nozione decisiva al fine di valutare la territorialità delle operazioni in ambito comunitario (si veda anche “Nasce la stabile organizzazione ai fini IVA” dello scorso 11 agosto).
Una delle situazioni più complesse a tale scopo si verifica laddove le operazioni siano effettuate dalla casa madre estera. In questo caso, infatti, con riferimento alle operazioni che coinvolgono esclusivamente soggetti passivi, occorrerà distinguere l’ipotesi in cui la stabile organizzazione partecipa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi della casa madre da quella in cui ciò non avviene.
È necessario premettere che si considera che una stabile organizzazione nel territorio dello Stato membro in cui è dovuta l’IVA partecipi alle operazioni della casa madre allorché i mezzi tecnici o umani della stessa siano utilizzati dalla casa madre per operazioni inerenti alla realizzazione della cessione di beni o della prestazione di servizi imponibile effettuata in tale Stato membro, prima o durante la realizzazione di detta cessione o prestazione (art. 53 del Regolamento del Consiglio UE n. 282/2011). Non potrà aversi, invece, “partecipazione” nel senso sopra indicato allorché i mezzi della stabile organizzazione siano utilizzati unicamente per funzioni di supporto amministrativo, quali la contabilità, la fatturazione e il recupero crediti.
Tuttavia, laddove venga emessa fattura con il numero IVA della stabile organizzazione, si considera in ogni caso che quest’ultima abbia partecipato all’operazione della casa madre (art. 53 del Regolamento n. 282/2011).
Ebbene, in caso di cessioni di beni e/o di prestazioni di servizi rese nei confronti di soggetti passivi nazionali, se le operazioni sono effettuate direttamente dalla casa madre estera, senza la partecipazione della stabile organizzazione esistente nel nostro Paese, tutti gli obblighi IVA dovranno essere adempiuti dai cessionari o dai committenti in base al meccanismo del cosiddetto reverse charge di cui all’articolo 17, secondo comma, del DPR 633/72. Diversamente, se la stabile organizzazione partecipa alle operazioni della casa madre estera, debitore dell’IVA è il soggetto estero, il quale assolverà ai propri adempimenti attraverso la propria stabile organizzazione in Italia (si veda, al riguardo, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 37 del 29 luglio 2011).
IVA a carico della branch per le operazioni “B2C”
La “partecipazione” o meno della stabile organizzazione ubicata in Italia all’operazione della casa madre estera non rileva più laddove le operazioni realizzate in Italia da quest’ultima abbiano come destinatari privati o soggetti non stabiliti in Italia. In quest’ultima ipotesi, infatti, la stabile organizzazione italiana dovrà provvedere a tutti gli adempimenti IVA, utilizzando una serie distinta di numerazione per le fatture non riferibili alle operazioni poste in essere attraverso la stabile organizzazione e gestendo, quindi, tali operazioni in contabilità separata (in tal senso la citata circolare n. 37/2011).
Analogo obbligo di contabilità separata in capo al soggetto nazionale sussiste, infine, con riferimento all’ipotesi di prestazioni di servizi territorialmente rilevanti in Italia rese da un soggetto italiano attraverso una propria stabile organizzazione all’estero.

Plusvalenza da cessione, il solo dato contabile non vince la presunzione

operazioni straordinarie

Plusvalenza da cessione, il solo dato contabile non vince la presunzione

Come prova contraria, il contribuente deve documentare circostanze soggettive e oggettive e produrre copia della documentazione bancaria
/ Lunedì 22 agosto 2011
L’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere, in via induttiva, all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore dell’avviamento, realizzata a seguito di cessione d’azienda, sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, ed è onere del contribuente superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto a un prezzo inferiore.
Si fa sempre più largo, anche nelle pronunce dei giudici di merito, l’orientamento già più volte ribadito dalla Corte di Cassazione e, questa volta, tocca alla Commissione Tributaria Provinciale di Vercelli (sezione I), con la sentenza n. 18 dello scorso 21 marzo 2011, respingere il ricorso del contribuente, basato sul rifiuto dell’automatica traslazione ai fini delle imposte sul reddito del maggior valore emerso ai fini dell’imposta di registro.
Come il contribuente ricorrente, anche la migliore dottrina assolutamente prevalente rifugge da sempre da questa impostazione, ritenendola poco rispettosa dell’oggettiva diversità tra le caratteristiche proprie dell’ambito delle imposte d’atto (fondato sul valore effettivo) e di quello delle imposte sul reddito (fondato sul valore realizzato).
È però ormai da tempo che la giurisprudenza della Corte di Cassazione pare ormai consolidata nel senso di ritenere il maggior valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro quale elemento sufficiente a generare una presunzione idonea a traslare sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria.
Per tutte, si ricorda la sentenza n. 18705 dello scorso 13 agosto 2010, con la quale la Corte di Cassazione ha nuovamente statuito che “in tema di accertamento del reddito d’impresa, il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro può essere legittimamente utilizzato dall’Amministrazione finanziaria come dato presuntivo ai fini dell’accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione dell’azienda”.
Ecco che, come già si è avuto modo di evidenziare in passato su questo giornale, se è giusto non abbandonare in sede di contradditorio e contenzioso i propri convincimenti circa la carenza di motivazione di un accertamento sulla plusvalenza basato esclusivamente sul valore di mercato individuato ai fini dell’imposta di registro, bisogna con pragmatismo concentrarsi anche su quest’ultimo aspetto: quello della prova contraria con la quale il contribuente può disinnescare la presunzione relativa di (inopinata) elaborazione giurisprudenziale.
Perché è la stessa sentenza n. 18705/2010 a ribadire che la presunzione è comunque relativa, “restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato, mediante la prova, desumibile dalle scritture contabili o da altri elementi, di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore”.
In verità, dalla lettura della sentenza sembrerebbe emergere la piena consapevolezza del problema, da parte del ricorrente, tanto che risulta come lo stesso abbia opportunamente fatto constatare “l’assenza, nelle scritture contabili, di pagamento maggiore di quanto dichiarato”.
Questo è il vero campanello di allarme che fa suonare la sentenza, essendo gli altri aspetti, come detto, ormai noti nell’interpretazione della giurisprudenza assolutamente prevalente.
Documentazione bancaria determinante in sede contenziosa
La prova contraria, infatti, a meno che la si voglia trasformare in prova diabolica, deve poter essere fornita dal contribuente mediante la produzione di:
- idonea documentazione atta a comprovare circostanze soggettive riconducibili al cedente (quali, ad esempio, età, motivazioni, legami parentali o affettivi), oppure oggettive riconducibili all’azienda ceduta, per le quali la cessione ha avuto luogo ad un prezzo inferiore al valore di mercato dell’azienda stessa, definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro;
- copia della documentazione bancaria personale del cedente e del cessionario relativa al periodo antecedente e susseguente il perfezionamento della cessione dell’azienda, così da evidenziare l’assenza di movimentazioni finanziarie riconducibili a parziali occultamenti del corrispettivo di cessione.
In particolare, è del tutto lecito ritenere che, nel caso in cui venga spontaneamente prodotta, oltre alla documentazione contabile, anche la documentazione bancaria relativa al cedente e possibilmente pure al cessionario, la presunzione generata dalla mera constatazione del maggior valore di mercato (senza elementi ulteriori a supporto) sia da considerarsi superabile dal contribuente, se non in sede di contradditorio con l’Agenzia delle Entrate, quantomeno in sede contenziosa dinanzi al giudice.
Forse, nel caso di specie, ciò non è accaduto e la presentazione della sola documentazione contabile, senza quella bancaria e alcun tipo di altro elemento a supporto, è stata ritenuta inidonea a vincere da sola la presunzione contraria.
Resta il fatto che, ove tale invincibilità fosse confermata anche in caso di presentazione di tale ulteriore documentazione, la giurisprudenza getterebbe le basi per trasformare da presunzione virtualmente assoluta una presunzione in realtà relativa, dopo che già, non va dimenticato, si è resa essa stessa artefice della sua creazione, in assenza di qualsivoglia previsione espressa di legge in tal senso.

Per la ripetizione dell’indebito fiscale, necessaria l’istanza di rimborso

riscossione

Per la ripetizione dell’indebito fiscale, necessaria l’istanza di rimborso

In caso di imposte versate per sbaglio, va presentata entro 48 mesi, se l’errore non è immediatamente rilevabile dall’Amministrazione finanziaria
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/ Lunedì 22 agosto 2011
Per il rimborso delle maggiori imposte erroneamente versate, occorre che il contribuente presenti una tempestiva istanza di rimborso, se l’errore materiale in cui è incorso non è rilevabile ictu oculi dall’Amministrazione finanziaria. È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione del 28 luglio scorso, numero 16551.
Una grande spa del settore dell’abbigliamento ometteva di indicare nella sua dichiarazione dei redditi del 1985 (quadro M dell’allora modello 760) le ritenute d’acconto subite sui dividendi distribuiti dalle sue società controllate nel 1984. Soltanto nel dicembre del 1990 presentava un’istanza di rimborso delle maggiori imposte erroneamente versate a seguito del mancato scomputo di tali ritenute in sede di dichiarazione dei redditi. L’Amministrazione finanziaria, però, respingeva la domanda perché tardiva.
In effetti, l’art. 38, comma 1 del DPR 602/1973, stabilisce per l’istanza di rimborso il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
Avverso il diniego opposto dal Fisco, la società proponeva ricorso alla C.T. Prov., adducendo che la mancata indicazione delle ritenute subite costituiva un mero errore materiale, immediatamente riconoscibile dall’Amministrazione finanziaria, in sede del cosiddetto “controllo automatizzato” della dichiarazione ai sensi dell’art. 36-bis del DPR 600/1973, per cui, sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’Anagrafe tributaria, l’Amministrazione finanziaria, avvalendosi di procedure automatizzate, provvede, tra l’altro, alla correzione degli errori materiali e di calcolo commessi dal contribuente in sede dichiarativa. La società chiedeva, quindi, l’applicazione di tale norma, che avrebbe così reso superflua la presentazione dell’istanza di rimborso, risultata poi tardiva.
I giudici di prime cure accoglievano il ricorso, ma la decisione veniva ribaltata in secondo grado a favore dell’Amministrazione Finanziaria. Anche la C.T. Centrale, infine, si pronunciava a favore del Fisco.
Proponeva, allora, ricorso per Cassazione la società, denunciando la violazione dell’art. 38 del DPR 602/1973 e dell’art. 36-bis del DPR 600/1973, atteso che i giudici di merito avevano erroneamente stabilito la sussistenza dell’obbligo di presentare l’istanza di rimborso al fine di ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate.
La Cassazione, però, ha ritenuto il motivo di ricorso infondato.
I Giudici di piazza Cavour, innanzitutto, hanno precisato che (cfr. Cass. 25872/2009), in ambito tributario, non sono applicabili le disposizioni che disciplinano l’indebito di diritto comune (art. 2033 c.c), essendo vigente, invece, un regime speciale basato sull’obbligo di presentazione di un’apposita istanza ai fini della ripetizione dell’indebito nei termini previsti dalle singole leggi d’imposta (per le imposte sui redditi, come nel caso di specie, la disciplina specifica è recata dall’art. 38 del DPR 602/1973).
In ambito tributario, vige un regime speciale
Ne consegue – secondo la Cassazione – che la domanda di rimborso da parte del contribuente rappresenta la regola generale in materia tributaria, mentre il rimborso d’Ufficio costituisce un’eccezione ad essa: tale principio, quindi, deve guidare la corretta interpretazione delle disposizioni in oggetto.
Gli Ermellini hanno richiamato, pertanto, la loro giurisprudenza pregressa (cfr. Cass. 11830/2002), in base alla quale soltanto l’esposizione in dichiarazione del credito d’imposta, successivamente consolidato a seguito di liquidazione della stessa dichiarazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, esonera il contribuente dalla successiva presentazione dell’istanza di rimborso.
Nel caso di specie, tuttavia, la società non aveva indicato in dichiarazione le ritenute subite sui dividendi percepiti e non le aveva quindi neppure scomputate dall’imposta dovuta: ciò – secondo i Giudici del Palazzaccio – non poteva considerarsi un mero errore formale rilevabile ictu oculi dall’Amministrazione finanziaria, atteso che tale errore, oltre che non emergere direttamente dalla stessa dichiarazione, non poteva essere automaticamente considerato produttivo di una discrepanza fra imposta dichiarata e quella effettivamente versata, che determinasse quindi l’obbligo del Fisco di procedere a rimborso sul presupposto della chiara ed inequivoca volontà del contribuente di far valere il suo credito d’imposta.
Alessandro BORGOGLIO

Contributi in conto capitale tra «impianti» e «sopravvenienza»

Agevolazioni

Contributi in conto capitale tra «impianti» e «sopravvenienza»

Nonostante la natura contabile unitaria, sotto il profilo fiscale occorre tener presente l’erogazione diretta all’acquisto di beni strumentali ammortizzabili
/ Lunedì 22 agosto 2011
Il trattamento fiscale dei contributi relativi ad immobilizzazioni materiali differisce a seconda che i contributi siano diretti o meno all’acquisto di beni strumentali ammortizzabili, nonostante contabilmente abbiano indistintamente natura di contributi in conto capitale.
Secondo il documento OIC n. 16, § F.I , per “contributi in conto capitale commisurati al costo delle immobilizzazioni materiali” si intendono “le somme erogate dallo Stato e da altri enti ad imprese per la realizzazione di iniziative dirette alla costruzione, alla riattivazione ed all’ampliamento di immobilizzazioni materiali, commisurati al costo delle medesime. Trattasi di contributi per i quali, di solito, l’impresa che ne beneficia ha il vincolo a non distogliere dall’uso previsto per un determinato tempo, stabilito dalle leggi che li concedono, le immobilizzazione materiali cui si riferiscono”.
Con riferimento alle modalità di contabilizzazione, i contributi in conto capitale devono essere rilevati a Conto economico con un criterio sistematico, gradatamente in relazione alla residua possibilità di utilizzazione dei cespiti cui si riferiscono (documento OIC n. 16, § F.II.a).
In applicazione di tale criterio, i contributi possono essere rilevati con due metodi:
- con il primo metodo – consigliato dai principi contabili – i contributi, imputati al Conto economico tra gli “Altri ricavi e proventi” (voce A.5), vengono rinviati per competenza agli esercizi successivi attraverso l’iscrizione di risconti passivi (metodo dei risconti);
-con il secondo metodo i contributi vengono portati a riduzione del costo dei cespiti a cui essi si riferiscono (metodo della rappresentazione netta).
Con il primo metodo, quindi, sono imputati al Conto economico ammortamenti calcolati sul costo lordo dei cespiti ed altri ricavi e proventi per la quota di contributo di competenza dell’esercizio; con il secondo, invece, sono imputati al Conto economico solo ammortamenti determinati sul costo netto del cespite.
Contributi “in conto impianti” con trattamento ad hoc
Sotto il profilo fiscale, i contributi in conto capitale possono qualificarsi come:
- contributi in conto impianti;
- contributi sopravvenienza attiva ex art. 88, comma 3, lett. b) del TUIR (altri contributi in conto capitale).
Soffermandoci sul primo punto, sono definiti contributi in conto impianti quelli la cui erogazione è subordinata all’acquisizione o realizzazione di beni strumentali ammortizzabili (cfr. ris. Agenzia delle Entrate 29 marzo 2002 n. 100). Tali contributi rappresentano una categoria a sé, non costituendo, infatti, né ricavi (ai sensi dell’art. 85, comma 1, lett. g) ed h) del TUIR), né sopravvenienze attive di cui all’art. 88, comma 3, lett. b) del TUIR.
Fiscalmente, essi concorrono alla formazione del reddito in base all’ammortamento dei beni cui si riferiscono, recependo i criteri civilistici che ne regolano l’imputazione in Conto economico. Pertanto, se i contributi sono imputati direttamente alla voce A.5 del Conto economico, occorre riscontare tale ricavo al fine di farlo partecipare al reddito secondo il principio della competenza e, cioè, per tutta la durata dell’ammortamento del bene acquisito. Per contro, se il contributo viene portato a riduzione del costo dei cespiti a cui si riferisce, l’ammortamento deve essere calcolato sul costo netto del cespite. In questo modo il contributo concorre a formare il reddito sotto forma di minori quote di ammortamento deducibili nei periodi d’imposta di utilizzo del bene.

Sospensione subito esecutiva se si omettono le fatture

sanzioni amministrative

Sospensione subito esecutiva se si omettono le fatture

L’accesso negli studi professionali è una delle ipotesi per rilevare la violazione dell’obbligo, per cui il DL 138/2011 ha introdotto la sanzione

/ Lunedì 22 agosto 2011
La mancata emissione della fattura comporta per il professionista la sospensione dell’iscrizione all’Albo o all’Ordine di appartenenza. Questa novità, contenuta nell’art. 2, comma 5 del DL n. 138/2011 (si veda “Sospensione dall’Albo per chi omette le fatture” del 17 agosto 2011), crea la sanzione accessoria per gli esercenti arti e professioni simile alla sospensione della licenza prevista per le attività commerciali. È necessario, quindi, ricordare, in breve, alcune regole riguardanti l’accesso degli organi di controllo nei locali degli studi professionali, accessi che, dopo l’emanata disposizione, possono essere frequenti rispetto al passato.
Si premette che la nuova norma inserisce nell’art. 12 del DLgs. n. 471/1997 i commi 2-sexies e 2-septies, per effetto dei quali è stabilito che, ai fini dell’irrogazione della sanzione accessoria della sospensione dell’iscrizione all’Albo o all’Ordine per un periodo da tre giorni ad un mese, è necessario che siano contestate, nell’arco di un quinquennio, quattro violazioni dell’obbligo di emissione del documento certificativo dei corrispettivi. Inoltre, ai fini dell’irrogazione della predetta sanzione accessoria, le violazioni devono essere commesse in giorni diversi. Dunque, le eventuali plurime violazioni operate nello stesso giorno si conteranno come una violazione unica. In caso di recidiva, la sospensione è disposta per un periodo da quindici giorni a sei mesi. Nel caso in cui le violazioni siano commesse nell’esercizio in forma associata di attività professionali, la sanzione è disposta nei confronti di tutti gli associati.
Va osservato che, ai sensi dell’art. 19, comma 7 del DLgs. n. 472/1997, le sanzioni accessorie sono eseguite quando il provvedimento di irrogazione diventa definitivo. Tuttavia, in deroga al citato articolo, il provvedimento diventa immediatamente esecutivo nel momento in cui vengono accertate le quattro distinte violazioni nel corso del quinquennio. La sospensione è disposta dalla Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate competente per territorio in relazione al domicilio fiscale del contribuente, comunicandola all’Ordine professionale ovvero al soggetto competente alla tenuta dell’Albo affinché ne sia data pubblicazione sul relativo sito internet. Gli atti di sospensione si notificano, a pena di decadenza, entro sei mesi da quando è stata commessa la quarta violazione. L’Agenzia delle Entrate ovvero la Guardia di Finanza vigileranno sull’esecuzione dell’effettivo adempimento delle sospensioni.
Ciò premesso, sembra opportuno ricordare alcune regole che, in genere, sono applicabili alle attività commerciali, ma interessano, con delle particolarità, anche i professionisti. Occorre, infatti, evidenziare che una delle ipotesi utili per poter rilevare la violazione della mancata emissione della fattura, riguarda l’accesso nei locali dello studio professionale, da parte dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate ovvero dei militari della Guardia di Finanza, con lo scopo di ispezionare i documenti contabili. L’art. 52 del DPR n. 633/1972 permette detto accesso, ma richiede la presenza del titolare dello studio o di un suo delegato. In proposito si ricorda che il soggetto delegato agisce sulla base di uno specifico incarico conferito in forma scritta e solo in caso eccezionale anche telefonicamente, da far risultare, in ogni caso, nel processo verbale di verifica. Circa il contenuto della delega, è utile tenere presente che non deve trattarsi di una mera “rappresentanza” formale di atti, ma di una vera attribuzione sostitutiva della presenza del titolare per assistere alle operazioni di accesso, abilitante come tale il delegato anche all’eventuale opposizione del segreto professionale, nei limiti del mandato ricevuto.
Nell’ipotesi di studio associato, rimane preclusa la facoltà di accedere nei locali posti nell’esclusiva disponibilità di altri professionisti. Solo dietro specifico ordine di accesso si può entrare negli altri locali destinati all’attività professionale dello studio associato. Va evidenziato che il professionista, per ogni accesso, riceve un verbale e, quindi, può anticipatamente conoscere il realizzarsi della violazione della sospensione. Si evidenzia, altresì, che la mancata emissione della fattura comporta anche l’applicazione della sanzione principale di cui all’art. 6 del DLgs. n. 471/1997, vale a dire sanzione dal 100 al 200% dell’IVA relativa al corrispettivo non documentato, per operazioni imponibili, e dal 5 al 10% dei corrispettivi non documentati, per operazioni non imponibili o esenti.
Verificandosi tale evento, dunque, per difendersi al contribuente rimane la strada del contenzioso tributario. Infatti, il provvedimento di sospensione dell’attività professionale è impugnabile avanti la Commissione tributaria, come chiarito dalla circolare n. 98/1996 a proposito delle attività commerciali, tenendo presente che, pur definendo in modo agevolato la violazione relativa la sanzione principale, la sospensione dell’attività professionale verrà in ogni caso applicata se ricorrono le condizioni temporali previsti dalla norma. (si vedano per le attività commerciali Cass. n. 22976/2010 e Cass. n. 14669/2010).
/ Francesco BARONE

sabato 13 agosto 2011

riscossione

riscossione

Pronti i codici tributo per la restituzione dei rimborsi d’imposta non dovuti

Li ha istituiti ieri l’Agenzia delle Entrate, insieme ai codici tributo per il versamento, da parte degli enti pubblici, di alcune imposte sostitutive
/ Sabato 13 agosto 2011
Dall’Agenzia delle Entrate, arrivano nuovi codici tributo. La prima tranche, istituita con la ris. 84/2011 di ieri, riguarda il versamento mediante modello F24 “Enti pubblici” delle imposte sostitutive, a seguito di assistenza fiscale, sui salari di produttività e sugli affitti della Provincia de L’Aquila. Si tratta dei codici tributo “143E” e “144E”, rispettivamente:
- imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionale e comunale sui compensi accessori del reddito da lavoro dipendente a seguito di assistenza fiscale;
- imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali regionale e comunale, derivante dalla locazione di immobili ad uso abitativo ubicati nella Provincia de L’Aquila a seguito di assistenza fiscale.
Una seconda risoluzione diffusa ieri, n. 86/2011, istituisce invece i codici tributo per la restituzione spontanea, tramite “F24 Versamenti con elementi identificativi”, dei rimborsi d’imposta e altre somme indebitamente percepite (in tutto o in parte).
Si tratta, in particolare, dei codici tributo:
- “8084” (Restituzione di somme erogate dall’Agenzia delle Entrate indebitamente percepite – imposta);
- “8085” (Restituzione di somme erogate dall’Agenzia delle Entrate indebitamente percepite – interessi);
- “8086” (Restituzione di somme erogate dall’Agenzia delle Entrate indebitamente percepite – sanzioni).
In sede di compilazione, il campo “tipo” dev’essere valorizzato con il carattere “R” e il campo “anno di riferimento” con l’anno d’imposta cui si riferisce il rimborso non spettante (in formato “AAAA”).
Quanto, invece, al campo “elementi identificativi”, va compilato specificando il motivo dell’erogazione, scegliendo fra i seguenti:
- IRPEF, per l’imposta sul reddito delle persone fisiche;
- IRES, per l’imposta sul reddito delle società;
- IVA, per l’imposta sul valore aggiunto;
- IRAP, per l’imposta regionale sulle attività produttive;
- ADDREG., per l’addizionale regionale all’IRPEF;
- ADDCOM., per l’addizionale comunale all’IRPEF;
- BONUSF., per i bonus famiglia di cui all’art. 1 della L. 2/2009;
- BONUSI., per i bonus incapienti di cui all’art. 44 della L. 222/2007;
- ALTRO, per tutti i tipi d’imposta non precedentemente elencati.

accertamento - Nuovo obbligo comunicativo dei contratti di leasing

accertamento

Nuovo obbligo comunicativo dei contratti di leasing

I dati relativi ai contratti sottoscritti con i clienti arricchiranno la bancadati dell’Anagrafe tributaria
/ Sabato 13 agosto 2011
Con il Provvedimento del 5 agosto scorso, n. 2011/119563, il Direttore dell’Agenzia delle Entrate ha stabilito le modalità e i termini di comunicazione, da parte delle società di leasing finanziario e operativo, dei dati relativi ai contratti sottoscritti con i loro clienti, che andranno ad incrementare la base dati informativa dell’Anagrafe tributaria, da cui saranno estratti gli elementi necessari per gli accertamenti sintetici previsti dalle nuove disposizioni recate dal DL 78/2010 (art. 22).
Il Provvedimento dà attuazione all’art. 7, comma 12, del DPR 605/1973, in base al quale, ai fini dei controlli sulle dichiarazioni dei contribuenti, il Direttore dell’Agenzia delle Entrate può richiedere a Pubbliche Amministrazioni, enti pubblici, organismi e imprese, anche limitatamente a particolari categorie, di effettuare comunicazioni all’Anagrafe tributaria di dati e notizie in loro possesso. In particolare, l’art. 1 del Provvedimento stabilisce che le predette società di leasing dovranno comunicare i dati anagrafici dei clienti, compreso il codice fiscale, con cui hanno stipulato contratti in essere, nonché il relativo bene e l’ammontare dei corrispettivi. Più precisamente, dall’allegato tecnico si desume che, oltre al tipo di leasing (operativo o non operativo) e ad altri dati attinenti al contratto (data di stipula, etc), formeranno oggetto di comunicazione la tipologia di bene (autoveicolo, imbarcazione, aeromobile, immobile, beni strumentali non inclusi in una delle categorie elencate, altro), l’importo dei corrispettivi previsti da contratto, quelli percepiti nell’anno (comprensivi di IVA e oneri accessori), nonché eventuali somme pagate dai clienti nell’anno a titolo di acconto o riscatto. Inoltre, dovranno anche essere trasmesse le informazioni relative all’eventuale garanzia prestata (fidejussione, ecc.) e i dati identificativi del garante.
Si tratta, in sostanza, di tutte quelle informazioni che consentiranno all’Agenzia delle Entrate di predisporre accertamenti sintetici sulla base di informazioni complete e attendibili, e immediatamente utilizzabili ai fini accertativi.
Nel Provvedimento viene indicato, però, che tutti i dati trasmessi all’Anagrafe tributaria saranno trattati nel rispetto della privacy dei contribuenti: le analisi verranno eseguite, infatti, in modo anonimo, e l’utilizzo dei dati personali verrà effettuato soltanto in caso di controllo fiscale della posizione del contribuente.
Comunicazioni entro il 31 dicembre per i contratti 2009 e 2010
Le società di leasing avranno tempo fino al 31 dicembre di quest’anno per trasmettere i dati relativi ai contratti in essere nel 2009 e 2010. Potranno effettuare tale comunicazione, peraltro, anche le società già destinatarie di specifici questionari ai sensi dell’art. 32, primo comma, nn. 4 e 8, del DPR 600/1973, che non vi abbiano dato seguito nei termini previsti. Dall’anno prossimo, poi, le comunicazioni dovranno essere inviate entro il 30 giugno relativamente ai contratti in essere nell’anno precedente.
Le comunicazioni all’Agenzia delle Entrate, come ormai di consueto, potranno essere inviate direttamente, utilizzando i servizi telematici (FISCONLINE o ENTRATEL), ovvero tramite gli intermediari abilitati. Le trasmissioni dovranno essere effettuate anche in assenza di dati utili, inviando quindi una comunicazione negativa.
Nella motivazione del Provvedimento viene precisato, infine, che le società che adempiono all’obbligo comunicativo in oggetto sono esonerate dal dover effettuare le comunicazioni per il cosiddetto “spesometro” (art. 21 del DL 78/2010), ovvero dall’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate i dati relativi alle operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, di importo non inferiore a 3.000 euro, trattandosi, appunto, di transazioni già monitorate dall’Amministrazione finanziaria.

Accertamento - omessi versamenti


Accertamento

Per l’Agenzia, gli omessi versamenti nell’adesione sono sempre sanzionati

Se il contribuente paga la rata entro il termine per quella successiva, non vi sono i presupposti per nessuna sanzione
/ Sabato 13 agosto 2011
Il DL 98/2011 ha modificato il sistema sanzionatorio degli omessi versamenti delle rate derivanti da accertamento con adesione, acquiescenza o conciliazione giudiziale.
In sostanza, ove il contribuente non versi una delle rate successive alla prima entro il termine previsto per la rata successiva (quindi entro i tre mesi, visto che le rate sono trimestrali), egli decade dal beneficio della dilazione e gli importi residui vengono iscritti a ruolo. Per ciò che concerne la sanzione da omesso versamento ex art. 13 del DLgs. 471/97, essa viene irrogata nella misura del 60% sugli interi importi residui dovuti a titolo di tributo, e non sul solo importo della rata non versata.
Pertanto, anche se la circolare n. 41/2011 pare negarlo, i mancati versamenti inferiori ai tre mesi non comportano in nessun caso la decadenza dal beneficio della dilazione, in quanto così ha voluto il Legislatore. Al massimo, verrà irrogata la sanzione del 30% (ma su questo si veda oltre) mediante apposito atto di contestazione.
L’Agenzia delle Entrate afferma, in sostanza, che sono sanzionabili gli omessi versamenti eseguiti entro il termine per la rata successiva, e che il contribuente, in tal caso, può ravvedersi ai sensi dell’art. 13 del DLgs. 472/97 versando, entro il citato termine, l’importo della rata, gli interessi legali e la sanzione.
Insomma:
- se il contribuente omette di pagare una rata, ma lo fa entro il trimestre, la sanzione da irrogare è quella del 30% calcolata sull’importo della rata non pagata;
- se il contribuente omette il versamento e non si ravvede entro il trimestre, decade dalla dilazione, tutte le somme vengono iscritte a ruolo, e la cartella conterrà anche la sanzione del 60% su tutti gli importi residui a titolo di tributo.
Tanto premesso, c’è a nostro avviso spazio per sostenere che l’omesso versamento sanato entro i tre mesi non comporti mai l’irrogazione delle sanzioni da omesso versamento.
A sostegno di ciò, ravvisando la necessità di attendere le prime sentenze dei giudici, è possibile affermare che il Legislatore, normando nell’art. 8 del DLgs. 218/97 le conseguenze sanzionatorie degli omessi versamenti, abbia introdotto una sorta di legislazione speciale, che deroga all’art. 13 del DLgs. 471/97, rendendolo inapplicabile al caso di specie.
In breve:
- se il contribuente omette il versamento, ma paga entro il trimestre, non decade dalla dilazione e non subise nessuna sanzione;
- in caso contrario, verrà irrogata la maxisanzione (maxi davvero, visto che è del 60% su tutto il tributo residuo, il che, a rigor di logica, è un argomento ulteriore per la fondatezza della tesi sostenuta).
Ravvedimento operoso possibile, ma niente definizione agevolata
Come già rilevato in altri articoli apparsi sulla stampa specializzata, il ravvedimento operoso dovrebbe essere possibile anche per i versamenti oltre il trimestre, a condizione che non sia ancora stata notificata la cartella o l’atto di contestazione. In tal caso, occorre versare:
- gli importi residui dovuti a titolo di tributo, visto che la decadenza dalla dilazione rimane ferma;
- gli interessi legali;
- le sanzioni del 60% calcolate su tutto il residuo ridotte a un ottavo ai sensi dell’art. 13 del DLgs. 472/97, siccome il ravvedimento è oltre i trenta giorni.
Non è, invece, possibile definire in via agevolata le sanzioni, in quanto queste verrebbero contestate mediante diretta iscrizione a ruolo, e a ciò osta l’art. 17 del DLgs. 472/97.

dichiarazione dei redditi

dichiarazione dei redditi

Premi di produttività e dichiarativi 2011: UNICO PF per rettificare i dati

Forniti chiarimenti per la compilazione di UNICO PF correttivo o integrativo in caso di modifica dei dati di rimborso indicati nel 730/2011
/ Sabato 13 agosto 2011
Con la risoluzione n. 85 di ieri, 12 agosto 2011, l’Agenzia delle Entrate risponde alle richieste di chiarimenti in merito alle modalità di compilazione del modello UNICO PF 2011, correttivo nei termini o integrativo di un precedente modello 730/2011 contenente la richiesta di rimborso per somme erogate a titolo di incremento della produttività negli anni 2008 e 2009.
Nello specifico, viene chiarito come debba essere compilato il modello UNICO PF correttivo nei termini o integrativo nel caso in cui non vengano modificati i dati relativi alla richiesta di rimborso indicati nel rigo F13 del mod. 730/2011, nonché le modalità per rettificare i dati con riferimento ai quali è stato riconosciuto il rimborso in sede di assistenza fiscale.
In via preliminare, l’Agenzia ricorda che i lavoratori dipendenti che nel biennio 2008 e/o 2009 hanno percepito compensi per lavoro notturno o per prestazioni di lavoro straordinario, riconducibili ad incrementi di produttività, possono richiedere il rimborso delle maggiori imposte pagate, qualora i suddetti compensi siano stati assoggettati a tassazione ordinaria anziché all’imposta sostitutiva del 10%.
L’erogazione dei citati compensi è annotata nel CUD 2011 dove, nei punti 97 e 99, viene indicato il corrispondente ammontare.
Inoltre, nel documento di prassi, si ricorda che il rimborso può essere richiesto con le seguenti modalità tra loro alternative:
- compilando il rigo F13 nel modello 730/2011: in tal caso il rimborso si ottiene in busta paga;
- compilando il quadro QR nel modello UNICO PF 2011;
- presentando istanza di rimborso all’Agenzia, ai sensi dell’art. 38 del DPR n. 602/1973.
Il primo caso è dunque relativo alla presentazione del modello UNICO PF correttivo nei termini o integrativo nel quale non vengono modificati i dati relativi alla richiesta di rimborso indicati nel rigo F13 del modello 730/2011. In questo caso, spiega l’Agenzia, l’UNICO PF 2011 deve essere compilato in tutte le sue parti, con la sola esclusione del quadro QR – Richiesta di rimborso incremento produttività 2008 e 2009 – che in tale ipotesi non deve essere compilato, avendo cura di barrare nel frontespizio del modello – in relazione al momento della presentazione della dichiarazione e agli effetti della rettifica – una delle caselle “Correttiva nei termini”, “Dichiarazione integrativa a favore” o “Dichiarazione integrativa”.
Si precisa, inoltre, che nel rigo RN40 del modello UNICO PF 2011 va riportato l’importo dell’IRPEF già trattenuta o rimborsata dal sostituto d’imposta, risultante dal modello 730-3/2011 (il c.d. prospetto di liquidazione).
Nel caso specifico, considerato che l’importo indicato nel rigo 91 del modello 730-3/2011 risulta comprensivo del rimborso riconosciuto in relazione alle somme erogate a titolo di incremento della produttività negli anni 2008 e 2009, per determinare gli importi da indicare nelle singole colonne del rigo RN40, è necessario sterilizzare dall’esito contabile della liquidazione del modello 730/2011 la parte riconducibile al rimborso per incremento della produttività.
Analoghe modalità devono essere adottate anche per la compilazione dei righi RV6 e RV14 in relazione agli importi delle addizionali regionale e comunale.
Il secondo caso riguarda la rettifica della richiesta di rimborso effettuata nel modello 730/2011 (rigo F13). In questo caso, il contribuente è tenuto a seguire due modalità operative, che distinguono l’ipotesi in cui la modifica comporti la determinazione di un rimborso inferiore rispetto a quello già percepito dal sostituto d’imposta, da quella in cui dalla rettifica derivi il diritto a un maggior rimborso. Nella prima ipotesi, effettuerà la restituzione del rimborso non spettante mediante versamento tramite modello F24 mentre, nella seconda ipotesi, presenterà un’istanza di rimborso all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
Un terzo caso riguarda, invece, la presentazione del modello UNICO PF correttivo nei termini o integrativo e, contestualmente, la rettifica della richiesta di rimborso effettuata nel rigo F13 del modello 730/2011.
In questo caso, spiega l’Agenzia, il contribuente deve seguire una duplice operazione:
- compilare il modello UNICO PF 2011 correttivo nei termini o integrativo, seguendo le modalità già menzionate per il primo caso. Pertanto il modello deve essere compilato, completo di tutte le sue parti, con la sola esclusione del quadro QR, e nei righi RN40, RV6 e RV14 va riportato l’esito contabile della liquidazione del modello 730/2011 al netto della parte riconducibile al rimborso per incremento della produttività;
- rettificare la richiesta di rimborso effettuata nel modello 730/2011, seguendo l’iter descritto nel secondo caso.

venerdì 12 agosto 2011

Chiusura delle partite IVA inattive con dubbi

iva

Chiusura delle partite IVA inattive con dubbi

L’Agenzia ha fornito chiarimenti contrastanti sulla sanatoria, riguardo all’obbligo di presentazione della dichiarazione di cessazione attività

/ Mercoledì 10 agosto 2011
Si denomina circolare l’atto amministrativo con cui l’amministrazione centrale si rivolge alle autorità inferiori impartendo loro istruzioni di servizio. Con lo stesso documento, molto spesso, vengono risolti dubbi in relazione all’applicazione di una legge o vengono indicati i criteri da seguire nella sua pratica esecuzione. Inoltre, nei rapporti interni, essa è pure usata per far conoscere al funzionario notizie che interessano un particolare servizio. Resta inteso che la circolare non ha efficacia di legge né di regolamento.
Ricordarsi, ogni tanto, di qualche nozione, come quella poco prima citata, non nuoce, specie quando si tratta di far conoscere ai contribuenti gli adempimenti che devono essere osservati. La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 41 del 5 agosto scorso, anziché dissipare qualche dubbio, produce alcune difficoltà operative proprio in tema di adempimenti riguardanti la chiusura delle partite IVA inattive.
Va ricordato che l’articolo 23, commi 22 e 23, del DL n. 98/2011, convertito dalla L. n. 111/2011, dispone la cancellazione d’ufficio delle partite IVA inattive da tre anni, prevedendo, altresì, una sanatoria per l’ipotesi di mancata dichiarazione di cessazione attività. In particolare, il comma 22 inserisce il comma 15-quinquies all’articolo 35 del DPR n. 633/1972, stabilendo che l’attribuzione del numero di partita IVA è revocata qualora per tre annualità consecutive il titolare:
- non abbia esercitato l’attività d’impresa o di arti e professioni;
- o, se obbligato alla presentazione della dichiarazione annuale in materia di IVA, non abbia adempiuto a tale obbligo.
Il provvedimento di revoca è impugnabile davanti le Commissioni tributarie.
Il comma 23, invece, introduce una sanatoria per i titolari di partita IVA che, sebbene obbligati, non abbiano tempestivamente presentato la dichiarazione di cessazione attività. La disposizione intende agevolare l’adempimento spontaneo dei contribuenti, i quali devono versare, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, vale a dire entro il 4 ottobre 2011, un importo pari alla sanzione minima indicata nell’articolo 5, comma 6, primo periodo, del DLgs. n. 471/1997, ridotta a un quarto. In pratica, si versa una sanzione pari a 129 euro. Non è, in ogni caso, possibile accedere alla sanatoria qualora la violazione sia già stata constatata con atto portato a conoscenza del contribuente.
La risoluzione n. 72 dell’11 luglio 2011 ha indicato il codice tributo “8110”, da utilizzare per il versamento della sanzione ridotta.
Tanto precisato, il dubbio sorge per effetto delle divergenze contenute nel comunicato stampa dell’Agenzia delle Entrate dell’11 luglio scorso e nella circolare in commento, a proposito degli adempimenti che il contribuente deve eseguire per usufruire della sanatoria. Nel comunicato stampa si legge che “per aderire alla norma di favore è sufficiente provvedere al versamento tramite F24, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, dell’importo di 129 euro, indicando il codice tributo 8110, la partita IVA da chiudere e l’anno di cessazione dell’attività. Nell’ottica della semplificazione non è necessario presentare anche la dichiarazione di cessazione attività, con il mod. AA7 (previsto per i soggetti diversi dalle persone fisiche) o il mod. AA9 (previsto per le imprese individuali e lavoratori autonomi), perché la chiusura della partita IVA verrà effettuata dall’Agenzia sulla base dei dati desunti dal modello F24 presentato”.
La circolare n. 41/2011, invece, chiarisce che i contribuenti possono sanare la mancata presentazione della dichiarazione di cessazione attività “presentando, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, la dichiarazione di cessazione di attività”, oltre a versare l’importo di 129 euro.
La domanda sorge spontanea: il contribuente che vuole usufruire della sanatoria deve o non ha l’obbligo di presentare la dichiarazione di cessazione attività? Analizzando il comma 23, che tratta dell’agevolazione, si evince che non è previsto l’adempimento concernente la presentazione del modello e, dunque, sembra corretta l’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria nel comunicato stampa. Ne consegue che, l’Agenzia rileva la cessazione attività dal campo “elementi identificativi” contenuto nel modello F24, che il contribuente deve redigere per avvalersi della sanatoria. In proposito, comunque, sembra opportuno un nuovo intervento dell’Amministrazione finanziaria, volto a risolvere il problema.
Si segnala, infine, un’imperfezione, non di poco conto, contenuta nel comunicato stampa, dove viene indicato come termine ultimo, per usufruire della sanatoria, quello di 90 giorni dalla data di entrata in vigore della L. n. 111/2011, ossia dal 17 luglio scorso. In realtà, come dispone il comma 23, i 90 giorni decorrono dalla data di entrata in vigore del relativo decreto legge (DL 98/2011), vale a dire dal 6 luglio 2011 e, quindi, entro il 4 ottobre occorre versare l’importo di 129 euro.  

Occupazione suolo pubblico: esclusa l’alternatività fra TOSAP e COSAP

TRIBUTI LOCALI

Occupazione suolo pubblico: esclusa l’alternatività fra TOSAP e COSAP

Lo sostiene la C.T. Prov. di Vercelli, fornendo anche la relativa definizione dei presupposti impositivi

/ Giovedì 11 agosto 2011
Il canone di concessione (COSAP) non è alternativo alla tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche (TOSAP). Lo afferma la C.T. Prov. di Vercelli n. 44/02/11 del 22 giugno scorso, prendendo spunto da una pronuncia della Commissione regionale della Puglia contenuta nella sentenza del 19 novembre 2002 n. 15/4.
La fattispecie analizzata riguarda un contribuente che ha ricevuto alcuni avvisi accertamento relativi alla TOSAP per gli anni dal 2005 al 2009, e che eccepisce che la richiesta di pagamento della tassa rappresenti una duplicazione degli importi già pagati e relativi al canone di concessione definito da un accordo con il Comune per l’uso di un’area pubblica.
La C.T. Prov. di Vercelli fornisce la definizione dei presupposti impositivi della TOSAP e della COSAP, riportando quando affermato dai giudici pugliesi nel 2002. Mentre la tassa, il cui presupposto oggettivo è la sottrazione, anche temporanea, del suolo pubblico all’uso collettivo, è dovuta indipendentemente e a prescindere dal contenuto dell’atto concessorio, il canone, afferma il collegio, trova fondamento giuridico in un contratto di diritto privato o di diritto pubblico stipulato fra l’ente pubblico ed il contribuente o in un atto amministrativo solitamente di concessione o di autorizzazione, rappresenta il corrispettivo richiesto dal Comune o dalla Provincia per l’uso o il godimento di un’area appartenente al proprio demanio pubblico da parte di un altro soggetto.
Viene poi osservato che canone e tassa corrispondono a due diverse e distinte categorie di entrate pubbliche, in quanto i titoli in base ai quali viene richiesto il corrispettivo sono diversi. Pertanto, i giudici ritengono che “nulla può, quindi, avere a che fare il canone di concessione con la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche che è, invece, un’obbligazione di carattere propriamente tributario, riconducibile esclusivamente alla potestà impositiva dell’Ente pubblico e che trova la sua giustificazione nella necessità dell’Ente di procurarsi i mezzi finanziari per l’assolvimento dei suoi fini istituzionali”.  In conclusione, il canone di concessione non sarebbe alternativo alla TOSAP e in riferimento a quest’ultima, anche in presenza di un atto concessorio e del versamento del relativo canone, deve essere presentata la dichiarazione di occupazione del suolo pubblico così come previsto dall’art. 50, comma 1, del DLgs. n. 507/1993. In caso di omessa denuncia si rende applicabile la sanzione prevista dall’ente locale, adottata ai sensi dei DLgs. nn. 471, 472 e 473 del 1997.
Altre fonti sostengono invece l’alternatività tra tassa e canone
Si osserva che, nella sentenza di Vercelli in oggetto, non è mai stato menzionato, e quindi nemmeno considerato al fine dell’analisi del caso, l’articolo 63 del DLgs. n. 446/1997, istitutivo del COSAP. Tale articolo, infatti, consente di disapplicare la TOSAP a decorrere dall’anno successivo a quello di adozione della relativa delibera consiliare e prevede la possibilità (non un obbligo) per i Comuni e le Province di istituire, “in sostituzione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche”,  un canone “determinato nel medesimo atto di concessione in base a tariffa”.
/ Arianna ZENI

iva - Nasce la stabile organizzazione ai fini IVA

iva

Nasce la stabile organizzazione ai fini IVA

In vigore dal 1° luglio 2011 il Regolamento UE n. 282/2011, che disciplina la stabile organizzazione nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto

/ Giovedì 11 agosto 2011
Il Regolamento del Consiglio UE n. 282/2011 ha sostituito il precedente regolamento n. 1777 del 2005, prevedendo, oltre a disposizioni già presenti in passato, alcune novità, vincolanti a partire dal 1° luglio 2011. In particolare, con detto Regolamento è stata finalmente fornita una definizione di stabile organizzazione valida nel sistema IVA. Quest’ultima deve ora identificarsi con qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività, caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e da una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie, nonché di provvedere ai servizi di cui assicura la prestazione. La sola disponibilità di un numero di identificazione ai fini IVA non è, dunque, di per sé, sufficiente a far supporre l’esistenza di una stabile organizzazione (art. 11 del Regolamento).
La sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 28 giugno 2007, causa C-73/06, fornisce un utile esempio di elencazione di criteri per l’individuazione di una stabile organizzazione con riferimento a un’attività di trasporto: a tal fine occorre, infatti, che vi sia quantomeno un ufficio in cui possano essere redatti contratti o prese decisioni amministrative di gestione quotidiana, nonché un luogo di deposito dei veicoli destinati alla relativa attività. Come appare evidente, la descritta nozione di “stabile organizzazione” non coincide con quella prevista ai fini delle imposte sui redditi, posto che quest’ultima si configura in presenza di mezzi tecnici o di mezzi umani, senza che gli stessi debbano necessariamente sussistere contemporaneamente (Cass. nn. 10925/2002 e 6799/2004).
In materia di territorialità IVA, l’esigenza di individuare la presenza di una “stabile organizzazione” sorge in relazione:
- all’acquisto di servizi “generici” da parte di committenti soggetti passivi;
- alla fornitura di servizi “generici” nei confronti di committenti non soggetti passivi.
Per queste operazioni, infatti, l’individuazione del committente (nel primo caso) e del prestatore (nella seconda ipotesi) è fondamentale ai fini dell’identificazione del luogo di imposizione dell’operazione.
Laddove il committente sia stabilito in più di uno Stato, l’operazione dovrà considerarsi effettuata nello Stato in cui il committente ha fissato la sede della propria attività economica, salvo che la prestazione sia resa nei confronti di una stabile organizzazione del soggetto passivo, nel qual caso varrà il luogo in cui quest’ultima è ubicata (art. 21 del Regolamento n. 282/2011).
Occorre riconoscere, al riguardo, che esistono nella pratica rilevanti difficoltà a comprendere se il soggetto con cui ci si relaziona sia la “casa madre” o una stabile organizzazione di quest’ultima.
Ancora maggiori sono, poi, i problemi nell’individuazione dell’esatto committente in caso di soggetto con più stabili organizzazioni localizzate in più Paesi.
In relazione a tale ultima ipotesi, l’art. 22 del Regolamento n. 282/2011 individua una serie di indagini che il fornitore deve effettuare per poter essere esonerato da ogni responsabilità laddove si evidenzi che il luogo effettivo di tassazione non corrisponde a quello preso in considerazione.
In particolare, lo stesso dovrà:
- innanzitutto, indagare sulla natura e sull’utilizzazione del servizio fornito;
- laddove tale ultima attività non abbia esito positivo, il fornitore sarà tenuto a esaminare il contratto, l’ordinativo e il numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro del destinatario comunicatogli da quest’ultimo, nonché a verificare se la stabile organizzazione sia l’entità che effettua il pagamento del servizio;
- qualora anche attraverso tale attività non sia possibile determinare la stabile organizzazione destinataria del servizio (o laddove nell’ambito di un contratto globale a beneficio di più stabili organizzazioni del committente site in diversi Stati l’utilizzazione dei servizi sia non identificabile o non quantificabile), il prestatore potrà considerare che i servizi siano forniti nel luogo in cui il destinatario ha stabilito la sede della propria attività economica.
Una volta, poi, identificato il destinatario dell’operazione, occorrerà evidenziare quali siano gli adempimenti previsti nelle diverse situazioni che si possono verificare.
Al riguardo, è necessario ricordare che, diversamente da quanto previsto in passato, il soggetto estero non può più identificarsi direttamente o nominare un rappresentante fiscale in Italia qualora abbia una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Ciò precisato, facendo riferimento al sistema IVA nazionale e, quindi, alle operazioni territorialmente rilevanti in Italia, avremo che, nel caso in cui la stabile organizzazione agisca in quanto “soggetto passivo stabilito” in Italia, quest’ultima risulterà debitrice d’imposta sia nel caso di operazioni attive, sia nell’ipotesi di acquisti da soggetti non residenti, come un ordinario soggetto IVA nazionale; la stessa, conseguentemente, dovrà assolvere a tutti gli obblighi IVA previsti dall’ordinamento (fatturazione, registrazione, ecc.).
/ Lelio CACCIAPAGLIA e Francesco D'ALFONSO

accertamento -VERIFICHE

accertamento

I giorni di effettiva presenza valgono solo per le verifiche sui «piccoli»

Al contrario, per i soggetti in contabilità ordinaria il calcolo della durata massima delle verifiche decorre dal primo giorno di accesso
/ Giovedì 11 agosto 2011
Le modifiche apportate al Decreto Sviluppo (DL 70/2011) dalla legge di conversione (L. 106/2011) relativamente alle norme che intervengono sulle disposizioni dello Statuto del Contribuente, riguardanti la durata massima delle verifiche fiscali, inducono a ritenere che la novella normativa, rappresentata dal computo dei soli giorni di effettiva presenza dei verificatori presso la sede del contribuente, si applichi soltanto in caso di verifiche nei confronti delle imprese in contabilità semplificata e dei lavoratori autonomi.
Tale interpretazione deriva dall’esame dell’art. 7 comma 2 lett. c) del DL 70/2011, che, introducendo un nuovo periodo al comma 5 dell’art. 12 della L. 212/2000 (Statuto del Contribuente), stabilisce regole diverse per i soggetti in contabilità ordinaria e per quelli in semplificata, unitamente ai lavoratori autonomi. Infatti, il nuovo comma 5 prevede che “la permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio”. Inoltre, “Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l’eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni lavorativi contenuti nell’arco di non più di un trimestre in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori (...)”.
La maggior parte della dottrina ritiene che il secondo punto sopra esposto, che costituisce la modifica apportata dal Decreto Sviluppo (il primo, invece, era già presente nell’originaria formulazione della disposizione statutaria), introduca un’interpretazione autentica del concetto di “permanenza degli operatori” a favore dell’Amministrazione Finanziaria, che ha sempre precisato come essa vada conteggiata in base ai giorni di effettiva presenza dei verificatori presso i contribuenti. Il che va discapito della giurisprudenza di merito maggioritaria, che ha stabilito, invece, come tale permanenza debba essere considerata a decorrere dal giorno di primo accesso, computando ininterrottamente tutti quelli lavorativi successivi, a prescindere dall’effettiva presenza del personale del Fisco presso la sede del contribuente.
Ciò, tuttavia, solleva più di qualche dubbio, perché:
- ai sensi dell’articolo 1, comma 2, dello Statuto stesso, l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica (nel caso di specie, mancherebbero quantomeno questi due ultimi presupposti);
- l’unica distinzione tra categorie è quella tra imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi; la successiva locuzione “In entrambi i casi” dovrebbe riferirsi, pertanto, a tali soggetti, nei confronti dei quali, appunto, si applicherebbe il computo dei giorni di effettiva presenza dei verificatori presso il contribuente, mentre per gli altri contribuenti di cui al primo punto (in contabilità ordinaria) varrebbe il conteggio di tutti i giorni lavorativi consecutivi successivi a quello di primo accesso;
- dall’iter parlamentare del decreto si evince che il Legislatore, in sede di conversione in legge dello stesso, ha modificato l’originaria formulazione dell’ultimo periodo in oggetto da “anche in tali casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi…” a “In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi…”. Il primo dettato normativo avrebbe pertanto incluso i contribuenti in contabilità ordinaria, stante la congiunzione “anche”; il secondo, invece, li escluderebbe, riferendosi soltanto ai due casi (soggetti in contabilità semplificata e lavoratori autonomi) poco prima menzionati nel testo. Sarebbe altrimenti difficile trovare un altro senso a tale modifica in sede di conversione in legge.
Secondo questa interpretazione, per le verifiche sui soggetti in contabilità semplificata e sui lavoratori autonomi, si calcolano soltanto i giorni di effettiva presenza dei verificatori presso la sede del contribuente, mentre per gli altri soggetti in contabilità ordinaria il predetto computo dei giorni comprende tutti quelli lavorativi consecutivi a quello di primo accesso. Ciò, peraltro, troverebbe giustificazione nel fatto che per i soggetti “minori”, la norma stabilisce già che il limite di quindici giorni sia collocato nell’arco temporale di non più di un trimestre. Altra dottrina sostiene, al contrario, che l’ultimo periodo del comma 5 costituisca soltanto un’interpretazione voluta dal Legislatore sul corretto computo dei giorni che richiede la norma, così da porre fine al fervente dibattito sulla questione. Ed è probabile attendersi che sarà proprio questa seconda tesi quella che adotterà il Fisco nei suoi prossimi documenti di prassi.
Certo è che, anche in questa occasione, il Legislatore non ha mancato di introdurre una norma criptica, che darà spazio ad ampi contenziosi.

Rebus IVA sulla cessione di auto «usate»

CESSIONE AUTO USATE

Rebus IVA sulla cessione di auto «usate»

La base imponibile deve essere calcolata in relazione alla percentuale di detraibilità applicata «a monte»

/ Venerdì 12 agosto 2011
Nella cessione di auto “usate” occorre prestare particolare attenzione al regime di detraibilità applicato all’atto dell’acquisto.
Infatti, ai sensi dell’art. 13 comma 5 del DPR 633/72, “per le cessioni che hanno per oggetto beni per il cui acquisto o importazione la detrazione è stata ridotta ai sensi dell’art. 19-bis1 o di altre disposizioni di indetraibilità oggettiva, la base imponibile è determinata moltiplicando per la percentuale detraibile ai sensi di tali disposizioni l’importo determinato ai sensi dei commi precedenti”.
In altri termini, la base imponibile della cessione va assunta in misura pari alla detrazione operata “a monte”, qualora quest’ultima sia stata parziale per effetto di limitazioni oggettive.
Tale regola opera anche in relazione alla cessione di veicoli acquistati nell’ambito dell’attività di impresa o di lavoro autonomo e destinati ad uso promiscuo, per i quali è stata operata “a monte” la detrazione parziale dell’IVA in misura pari al 40% (art. 19-bis1 comma 1 lett. c) del DPR 633/72).
Si ricorda che la percentuale di detraibilità IVA è variata nel corso del tempo:
- 10%, dal 1° gennaio 2001 al 31 dicembre 2005;
- 15%, dal 1° gennaio 2006 al 26 giugno 2006;
- 40%, dal 27 giugno 2007.
Di conseguenza, la base imponibile al momento della successiva cessione sarà determinata moltiplicando il corrispettivo per la percentuale di detrazione effettivamente operata all’atto dell’acquisto.
Si consideri il seguente esempio numerico.
L’impresa Alfa ha acquistato nel 2008 un’autovettura al prezzo di 18.000 euro (15.000 costo auto + 3.000 IVA). All’atto dell’acquisto, l’impresa ha operato una detrazione IVA pari al 40% dell’IVA, ossia pari a 1.200 euro.
Nel 2011 l’impresa decide di rivendere l’autovettura a un prezzo di 10.000. Sulla base di quanto sopra esposto:
- la base imponibile è pari a 4.000 (il 40% di 10.000 euro);
- l’imposta è pari a 800 (4.000 x 20%);
- la quota non imponibile ex art. 13 è pari a 5.200 euro.
Tale impostazione è stata peraltro condivisa dal recente parere della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro del 26 luglio 2011 n. 15.
Anche il leasing “guarda” la detrazione
Anche in caso di cessione del contratto di leasing si applica il disposto dell’art. 13 comma 5 del DPR 633/72, ancorché tale norma faccia riferimento ai “beni per il cui acquisto o importazione la detrazione è stata ridotta ai sensi dell’art. 19-bis1 o di altre disposizioni di indetraibilità oggettiva” (in tal senso, circ. Agenzia delle Entrate 13 marzo 2009 n. 8, paragrafo 6.1).
Il leasing di veicoli stradali a motore è equiparato, ai fini della detrazione IVA, alla compravendita degli stessi. L’art. 19-bis1 comma 1 lett. d) del DPR 633/72 dispone, infatti, che l’IVA relativa alle prestazioni di cui all’art. 16 comma 3 del DPR 633/72, tra cui rientrano anche quelle dipendenti da contratti di locazione finanziaria di veicoli stradali a motore, “è ammessa in detrazione nella stessa misura in cui è ammessa in detrazione l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di detti (…) veicoli stradali a motore”.
Secondo quanto precisato dalle Entrate nella circ. 8/2009 (paragrafo 6.1), la cessione del contratto di leasing, che configura una prestazione di servizi ex art. 3 comma 2 n. 5 del DPR 633/72, va trattata alla stessa stregua della cessione del bene oggetto del rapporto di locazione finanziaria, in quanto il cessionario, attraverso la cessione del contratto di leasing, acquisisce il bene sottoposto a una limitazione oggettiva del diritto di detrazione.
Di conseguenza, in caso di leasing di un’autovettura ad utilizzo promiscuo, stante la detraibilità IVA limitata al 40%, prevista, per l’acquisto, dalla lett. c) dell’art. 19-bis1, la base imponibile della cessione del relativo contratto è pari al 40% del corrispettivo pattuito.
/ Pamela ALBERTI

Noleggio «breve» di mezzi di trasporto: territorialità con doppio criterio


IVA

Noleggio «breve» di mezzi di trasporto: territorialità con doppio criterio

Il luogo di rilevanza territoriale dipende dall’applicazione combinata del luogo di messa a disposizione e del luogo di utilizzo del mezzo

/ Giovedì 11 agosto 2011
L’art. 7-quater, lett. e), del DPR 633/72 contiene le regole per l’individuazione del luogo di rilevanza territoriale della locazione, anche finanziaria, noleggio e simili di mezzi di trasporto a breve termine, ricordando sin da subito che trattasi di un servizio la cui regola territoriale deroga a quella generale di cui all’art. 7-ter, sia nel caso in cui il committente sia un soggetto passivo IVA (B2B), sia nell’ipotesi in cui tale committente sia un soggetto non passivo d’imposta (B2C).
La circolare 29 luglio 2011 n. 37 contiene interessanti chiarimenti relativamente all’applicazione pratica della disposizione in esame che, come vedremo, per l’individuazione del luogo di rilevanza territoriale combina il criterio del luogo di messa a disposizione del mezzo con quello del suo utilizzo.  L’Agenzia, in primo luogo, nel ricordare che né le disposizioni nazionali del DPR 633/72 né le disposizioni comunitarie contengono alcuna definizione di mezzi di trasporto, ritiene utili riferirsi ad alcune definizioni contenute nell’art. 38 del Regolamento UE 282/2011, il cui paragrafo 1 definisce in via generale come mezzi di trasporto “i veicoli, motorizzati o no, e altri dispositivi e attrezzature concepiti per il trasporto di persone, o oggetti da un luogo all’altro, che possono essere tirati, trainati o spinti da veicoli e che sono generalmente concepiti ed effettivamente idonei ad essere utilizzati per il trasporto” (il successivo paragrafo 2 dell’art. 38 contiene l’elenco dei mezzi di trasporto, tra cui si ricordano i veicoli terrestri, quali automobili, motociclette, biciclette, tricicli e roulotte, navi, aeromobili, ecc.). Il terzo paragrafo dell’art. 38 del Regolamento, ricorda l’Agenzia, precisa che non sono considerati mezzi di trasporto i veicoli immobilizzati in modo permanente e i container.
Locazione a breve termine se non superiore a 30 giorni (90 per i natanti)
Interessanti precisazioni sono altresì contenute in relazione all’individuazione del noleggio a breve termine, la cui definizione normativa è contenuta nell’art. 7, lett. g), del DPR 633/72, a norma del quale si intende “il possesso o l’uso ininterrotto del mezzo di trasporto per un periodo non superiore a trenta giorni ovvero a novanta giorni per i natanti”. Sul punto, l’Agenzia rammenta che l’art. 39 del citato Regolamento 282/2011 dispone che, ai fini della determinazione del predetto arco temporale, si deve far riferimento al contratto concluso tra le parti, chiarendo altresì che, se il noleggio è coperto da più contratti consecutivi tra loro, si devono sommare i singoli periodi al fine di verificare il rispetto del trenta giorni.
A norma del paragrafo 2, comma 3, dell’art. 39 del Regolamento, inoltre, in assenza di pratiche abusive deve considerarsi di breve durata anche il contratto, inferiore a 30 giorni, che precede il contratto considerato a lungo termine (si pensi, ad esempio, a un noleggio di dieci giorni, con successivi contratti rispettivamente per altri quindici e venti giorni. In tal caso, i primi due contratti possono essere considerati a breve termine, in quanto la sommatoria dei giorni di durata non supera i trenta, mentre il terzo contratto, anche se di soli venti giorni, non può essere considerato a breve termine, in quanto la sommatoria dei giorni, tenendo conto anche dei due precedenti supera il limite di trenta giorni).
Come anticipato, il luogo di rilevanza territoriale dei servizi in questione dipende dalla combinazione dei due seguenti criteri:
luogo di messa a disposizione del mezzo, intendendosi per tale, a norma dell’art. 40 del Regolamento UE, il luogo in cui il destinatario (o un terzo che agisce per suo conto), prende fisicamente possesso del bene;
luogo di utilizzo del mezzo.
L’applicazione combinata dei due predetti parametri comporta che i servizi di locazione in commento sono rilevanti territorialmente nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 7-quater, lett. e):
- se il mezzo di trasporto è messo a disposizione del committente in Italia, sempre che l’utilizzo dello stesso avvenga in territorio comunitario;
- se il mezzo di trasporto è messo a disposizione in altro Stato non comunitario, purché l’utilizzo avvenga nel territorio dello Stato (non rileva la quota parte di utilizzo al di fuori dell’Italia).
Se il mezzo è invece messo a disposizione in altro Stato UE, il servizio di locazione e noleggio dello stesso è in ogni caso escluso da IVA in Italia.
/ Sandro CERATO

diritto del lavoro

diritto del lavoro

Lavori usuranti e pensionamenti anticipati, ecco le prime indicazioni

A fornirle è il Ministero del Lavoro con la circ. 22, in attesa della disciplina sulle modalità attuative ancora in corso di perfezionamento
/ Venerdì 12 agosto 2011
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con la circolare n. 22 del 10 agosto 2011, fornisce le prime indicazioni operative in merito all’accesso anticipato al pensionamento per i lavoratori addetti alle lavorazioni particolarmente pesanti.
Come già anticipato dallo stesso Ministero con la circ. 15/2011, il DLgs. 67/2011, in attuazione dell’art. 1 della L. 183/2010 – il collegato lavoro – ha introdotto la possibilità di fruire di questo beneficio e, in attesa che venga definita la disciplina sulle modalità attuative del provvedimento, ancora in fase di perfezionamento, è stato ritenuto opportuno fornire le prime indicazioni operative, rivolte in particolare a coloro che sono tenuti a trasmettere la domanda entro il 30 settembre 2011, in quanto hanno già maturato o maturino i requisiti entro la data del 31 dicembre 2011.
Si tratta dei lavoratori individuati dall’art. 1 dello stesso DLgs. 67/2011, ovvero, in estrema sintesi, quelli impegnati in mansioni particolarmente usuranti (lavori in gallerie, miniere, cave, ad alte temperature, eccetera), i lavoratori notturni, alcune categorie di autisti, alcuni cottimisti e i lavoratori impegnati all’interno di determinati processi produttivi in serie.
Inoltre, nella circ. 22/2011, si specifica che può beneficiare del trattamento pensionistico anticipato il lavoratore che abbia esercitato le attività usuranti per un periodo di tempo pari ad almeno 7 anni, compreso l’anno di maturazione dei requisiti, negli ultimi 10 di attività lavorativa, oppure pari ad almeno la metà della vita lavorativa complessiva, nel caso delle pensioni con decorrenza dal 1° gennaio 2018.
Per quanto riguarda la misura del beneficio, nella circolare in esame si ricorda che i lavoratori dipendenti interessati dal DLgs. 67/2011 conseguono, in generale, il diritto al trattamento pensionistico con un’età anagrafica ridotta di tre anni e una somma di età anagrafica e anzianità contributiva ridotta di tre unità rispetto ai precedenti requisiti espressamente previsti dalla Tabella B dell’Allegato 1 della L. 247/2007.
Sotto il profilo prettamente operativo, il Ministero del Lavoro illustra i termini per la presentazione e i contenuti della domanda per accedere al beneficio del pensionamento anticipato, nonché la necessaria documentazione, così come previsto dall’art. 2 del DLgs. n. 67/2011.
In particolare, il lavoratore deve trasmettere la domanda alla sede territorialmente competente dell’ente previdenziale presso il quale è iscritto, e deve farlo entro la data del 30 settembre 2011, oppure entro il 1° marzo dell’anno di maturazione dei requisiti agevolati qualora tali requisiti siano maturati a decorrere dal 1° gennaio 2012. Le modalità di presentazione della domanda saranno stabilite direttamente dall’ente previdenziale cui è destinata.
Inoltre, sempre nella circolare 22/2011, si specifica che la presentazione della domanda oltre i termini comporta, in caso di accertamento positivo dei requisiti, il differimento da 1 a 3 mesi del diritto alla decorrenza di tale beneficio.
Per quanto concerne invece i contenuti, il Ministero del Lavoro informa che, ai fini della procedibilità dell’istanza, la domanda deve indicare la volontà di avvalersi di questo beneficio, devono essere specificati i periodi per i quali sono state svolte attività usuranti, e deve contenere la corrispondente documentazione minima necessaria indicata nell’apposita tabella A della circolare 22/2011. Si tratta, ad esempio, di documenti quali: libro matricola ovvero libro unico del lavoro; libretto di lavoro; comunicazioni di assunzione/cessazione/variazione del rapporto di lavoro; contratto di lavoro individuale; prospetto paga con indicazione delle lavorazioni per lavoro notturno; eccetera.
Occorre la dichiarazione di conformità all’originale
Tale documentazione, prodotta in copia, che il datore di lavoro è tenuto a rendere disponibile per il lavoratore entro 30 giorni dalla richiesta, deve riportare, salvo casi di comprovata impossibilità, la dichiarazione di conformità all’originale rilasciata dal datore di lavoro o dal soggetto che detiene stabilmente la documentazione in originale. A tale dichiarazione dovrà essere allegata copia di un documento di identità del dichiarante.
Infine, il Ministero fornisce alcune informazioni relative all’istruttoria delle domande, svolta dalla sede territorialmente competente dell’ente previdenziale presso il quale il lavoratore è iscritto. In particolare, si ricorda che sarà possibile operare integrazioni per le istanze già presentate a far data dal 26 maggio 2011 – data di entrata in vigore del DLgs. 67/2011 – e risultate eventualmente incomplete.

Domanda di risarcimento al fallito, vale solo il tribunale fallimentare

Diritto fallimentare

Domanda di risarcimento al fallito, vale solo il tribunale fallimentare

Secondo la Cassazione, la domanda giudiziale, se presentata in via ordinaria, è improponibile
/ Venerdì 12 agosto 2011
Tutte le pretese a contenuto patrimoniale rivolte a un soggetto fallito devono essere azionate dinanzi al tribunale fallimentare, anche in caso di necessario intervento di più litisconsorti. È quanto stabilito dalla prima sezione della Corte di Cassazione, nella sentenza depositata il 5 agosto 2011 n. 17035.
La vicenda trae origine da un sinistro stradale, a seguito del quale la parte danneggiata aveva adito il giudice di pace per vedersi risarcire i danni subiti. La domanda di risarcimento era stata proposta nei confronti della società danneggiante, fallita, e della compagnia assicuratrice.
La curatela del fallimento sollevava eccezione di inammissibilità della domanda di condanna, che, però, il giudice di pace rigettava.
Ricorreva, così, in Cassazione la curatela, avverso la sentenza non definitiva del giudice di pace che ha rigettato l’eccezione e avverso quella definitiva che ha determinato il risarcimento a carico anche della curatela.
Quattro i motivi di ricorso: domanda proposta nei confronti di soggetto fallito avanti a giudice incompetente e al di fuori dello specifico rito (artt. 24, 52 e 93 della L. fall.), incompetenza territoriale del giudice rispetto al luogo in cui si è verificato il danno, intervenuta prescrizione del diritto azionato, insussistenza della prova sulle modalità con cui si è verificato il danno.
La Corte di Cassazione accoglie il primo motivo, che comporta l’assorbimento degli altri tre, e cassa senza rinvio le sentenze impugnate in quanto “la causa non poteva essere iniziata”.
Nelle motivazioni della sentenza, la Cassazione spiega che è principio pacifico che ogni pretesa a contenuto patrimoniale rivolta a un soggetto fallito debba essere azionata solo mediante lo specifico procedimento endofallimentare dell’accertamento del passivo. Tale procedimento va attivato avanti il tribunale fallimentare.
Pertanto – ribadisce la Cassazione – ogni diversa azione è improcedibile.
Per l’accertamento del passivo vi è un’unica sede concorsuale
Tale principio va affermato anche nel caso di domanda attinente a un’azione comportante il necessario intervento di più litisconsorti.
Nello specifico – si legge nella sentenza in commento – “nell’ambito dell’attuale rito è sicuramente esclusa la presenza di parti estranee al fallimento nell’ambito di un procedimento che, comunque si voglia individuarne l’oggetto, non prevede pronunce di condanna o anche solo di accertamento destinate ad avere efficacia in ambito extra concorsuale nei confronti del litisconsorte in bonis”.
Nel caso di specie, pertanto, avendo la parte danneggiata agito per la condanna sia dell’assicuratore che del danneggiante-società fallita con le forme ordinarie, l’azione è inammissibile.
Le possibilità ammesse per la parte danneggiata? Domanda con rito fallimentare nei confronti del solo danneggiante oppure domanda con rito ordinario (avanti l’autorità ordinaria), omettendo, però, ogni conclusione nei confronti della società fallita o, comunque, dichiarando l’intenzione di avvalersi di un’eventuale condanna in via subordinata al ritorno in bonis.

Ristorazione e catering su navi, treni e aerei: IVA se il trasporto inizia in Italia


IVA

Ristorazione e catering su navi, treni e aerei: IVA se il trasporto inizia in Italia

La circolare n. 37 ha fornito alcuni utili criteri operativi, alla luce del Regolamento UE 282/2011
/ Venerdì 12 agosto 2011
La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 37 del 29 luglio 2011 si è soffermata, tra l’altro, sull’operatività del regime IVA dei servizi di ristorazione e catering (art. 7-quater, lett. c) e d), del DPR n. 633/1972), che si considerano compiuti nel territorio dello Stato se materialmente:
- rese a bordo di navi, aerei o treni, nel corso di una parte di un trasporto passeggeri, effettuata all’interno della Comunità, qualora il luogo di partenza del trasferimento sia situato nel territorio dello Stato;
- eseguite in Italia, negli altri casi.
In primo luogo, è stata colmata una lacuna normativa, fornendo un criterio di puntuale individuazione delle fattispecie oggetto delle predette disposizioni. In particolare, è stato richiamato l’art. 6 del Regolamento del Consiglio dell’Unione europea n. 282/2011, secondo cui i servizi di ristorazione e catering – distinti tra loro in base alla circostanza che l’erogazione avvenga presso i locali del prestatore oppure in altri luoghi – consistono nella fornitura di cibi o bevande, non necessariamente preparati, destinati al consumo umano, accompagnata da attività di supporto sufficienti a permetterne un utilizzo immediato. L’eventuale mancanza di queste ultime (fornitura di stoviglie e mobilio, messa a disposizione di personale, ecc.) non consente di qualificare l’operazione come una prestazione di servizi, configurandosi, invece, una mera cessione di beni: la medesima circostanza ricorre nell’ipotesi di fornitura, da parte di una società di catering, di pasti già pronti, consegnati a bordo di navi, treni ed aerei, costituente, quindi, una cessione nei confronti della compagnia di navigazione, volo o trasporto ferroviario.
L’Agenzia delle Entrate ha, inoltre, approfondito il requisito della “parte di un trasporto di passeggeri” di cui all’art. 7-quater, lett. d), del DPR n. 633/1972, precisando che il presupposto deve intendersi sussistente qualora non sia previsto uno scalo al di fuori del territorio comunitario, tra il luogo di partenza – ovvero il punto di imbarco di passeggeri previsto nell’Unione europea, eventualmente dopo uno sbarco all’esterno della stessa – e quello di arrivo del trasferimento, quale ultimo sito di sbarco stabilito nell’area comunitaria, prima dell’ipotetica fuoriuscita dello stesso. A questo proposito, la circolare n. 37 in oggetto ha altresì chiarito che, nel caso di viaggio sulla base del percorso di andata e ritorno, quest’ultimo deve essere considerato distintamente dall’andata.
A questo proposito, è stata considerata un’ipotetica tratta, a mezzo nave, Genova – Barcellona – Patrasso – Alessandria d’Egitto, che determina l’assoggettamento ad IVA italiana delle prestazioni di ristorazione rese da Genova a Patrasso, rilevando il primo punto d’imbarco nella Comunità. Conseguentemente, quelle eseguite nella parte successiva del tragitto, sino alla destinazione finale, rientrano nel campo di applicazione del criterio base, per effetto del quale il luogo di effettuazione è individuato in virtù dello Stato nelle cui acque nazionali si trova l’imbarcazione, al momento dell’esecuzione della prestazione. Qualora il servizio di ristorazione sia iniziato durante una parte di trasporto nella Comunità (ad esempio, Genova – Patrasso) e proseguito in una frazione all’esterno della stessa, ma sempre nel territorio di uno Stato membro (Patrasso – Alessandria d’Egitto), la prestazione è comunque soggetta ad IVA italiana, in quanto opera il criterio dell’inizio dell’esecuzione della stessa (art. 37 del Regolamento n. 282/2011).
Nel caso di un trasporto di passeggeri, sempre tramite nave, sulla tratta Alessandria d’Egitto – Palermo – Barcellona, sono soggetti ad IVA italiana i servizi di ristorazione erogati da Palermo a Barcellona, in ossequio al criterio del primo punto di imbarco nella Comunità, nonché quelli resi, nella parte precedente di tratta, in acque territoriali italiane. Diversamente, nel caso in cui la prestazione sia iniziata in acque internazionali, ovvero dopo aver lasciato Alessandria d’Egitto, e prosegua sulla tratta Palermo – Barcellona, è esclusa dall’applicazione dell’IVA.
La circ. n. 37/2011, dopo aver ricordato l’operatività del regime di non imponibilità (art. 8-bis, lett. d), del DPR n. 633/1972) per le prestazioni di ristorazione e catering che si considerano effettuate nel territorio dello Stato, ha, infine, ricordato alcuni servizi di catering non assoggettabili all’art. 7-quater, lett. d), del Decreto IVA:
- servizi forniti a bordo di navi, aerei o treni, senza il pagamento di un corrispettivo, in quanto già inclusi nel prezzo del biglietto e, quindi, da ritenersi accessori alla prestazione di trasporto dei passeggeri di cui alla precedente lett. b);
- servizi resi nell’ambito di un pacchetto turistico, venduto da un tour operator al cliente, soggetti alla disciplina speciale di cui all’art. 74-ter del DPR n. 633/1972.