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ICI: il terreno edificabile è comunque «agricolo» se coltivato
Tale terreno, a prescindere dal fatto che a coltivarlo sia soltanto uno fra i proprietari, soggiace all’ICI in base al valore catastale
Ai fini dell’ICI, un terreno utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale (PRG o PGT), adottato dal Comune, va considerato comunque “agricolo” se posseduto in comproprietà o in contitolarità da soggetti dei quali almeno uno lo conduca per lo svolgimento dell’attività agricola, nella sua qualità di coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale (IAP). È questo il principio di diritto desumibile dalle sentenze (gemelle) n. 14825 e n. 14824 depositate il 5 luglio 2011, con le quali la Corte di Cassazione (sezione tributaria) ha accolto i ricorsi proposti da due contribuenti (madre e figlia). Si tratta di un principio già affermato dalla Suprema Corte.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione dei due avvisi di accertamento, con i quali un Comune impositore competente aveva richiesto ai contribuenti il pagamento della maggiore imposta dovuta con riferimento a un terreno posseduto in comproprietà per un terzo con un altro erede (rispettivamente, figlia e sorella dei contribuenti), ma condotto direttamente soltanto da quest’ultimo soggetto, che rivestiva la qualità di “coltivatrice diretta”.
Secondo l’ente locale, il terreno era “agricolo” limitatamente alla quota di diritto spettante alla coltivatrice diretta, che poteva accedere ai regimi di favore stabiliti dagli artt. 2 e 9 del DLgs. 504/1992 (decreto ICI). In particolare la lettera b), secondo periodo, dell’art. 2 esprime la “finzione giuridica” secondo cui, in ogni caso, non sono considerati fabbricabili i terreni, posseduti e condotti dai coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali, sui quali persiste l’utilizzazione agro-silvo-pastorale mediante l’esercizio di attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, alla funghicoltura e all’allevamento di animali. In buona sostanza, secondo la tesi dell’Amministrazione comunale, l’equiparazione del terreno “edificabile” a quello “agricolo” non era possibile per le quote di proprietà possedute dalla madre e dall’altra figlia, entrambe non esercenti l’attività agricola.
In altre parole, nel caso di specie si sono cristallizzate distinte e autonome pretese tributarie, ciascuna delle quali calibrata in funzione delle condizioni e caratteristiche in cui ogni singolo soggetto passivo si pone nei confronti della norma (C.T. Prov. di Ravenna, sentenza n. 30/5 del 20 novembre 2003). I primi giudici tributari avevano accolto i ricorsi introduttivi, ritenendo che il fondo rustico dovesse essere considerato agricolo per tutti i comproprietari, avendo il bene, di fatto, la destinazione agricola ed essendo coltivato per l’intera superficie dalla quotista che rivestiva la qualità di coltivatrice diretta. La C.T. Reg. di Bologna, invece, ha accolto gli appelli dell’ente locale. Le decisioni dei giudici di appello sono state impugnate dinanzi alla Suprema Corte che, nell’accogliere i ricorsi perché fondati, ha così rafforzato il proprio orientamento edificato sulle sentenze n. 15566 del 30 giugno 2010 e n. 26878 del 21 dicembre 2009.
- il possesso e la conduzione diretta del terreno da parte di coltivatori diretti o di imprenditori agricoli professionali;
- la persistenza dell’utilizzazione agro-silvo-pastorale, mediante l’esercizio di attività dirette alla coltivazione.
Ricorrendo queste condizioni, il terreno soggiace all’ICI in base al valore catastale (reddito dominicale, rivalutato del 25%, per il coefficiente 75), dovendosi prescindere dalla sua obiettiva potenzialità edificatoria, per ciascuno dei comproprietari del reddito fondiario. Secondo gli Ermellini, infatti, lo sfruttamento edilizio è incompatibile con la permanente destinazione del terreno a scopo agricolo sia per la coltivatrice diretta, sia per le altre comproprietarie. Tesi, questa, avvalorata dalle successive sentenze n. 16639 e n. 16636 depositate il 29 luglio 2011. Il consolidato indirizzo della Suprema Corte merita profondo rispetto, anche se è possibile intravedere qualche ombra sulla bontà del principio di diritto che, a nostro parere, sembra più adeguato sull’esegesi dell’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto ICI.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione dei due avvisi di accertamento, con i quali un Comune impositore competente aveva richiesto ai contribuenti il pagamento della maggiore imposta dovuta con riferimento a un terreno posseduto in comproprietà per un terzo con un altro erede (rispettivamente, figlia e sorella dei contribuenti), ma condotto direttamente soltanto da quest’ultimo soggetto, che rivestiva la qualità di “coltivatrice diretta”.
Secondo l’ente locale, il terreno era “agricolo” limitatamente alla quota di diritto spettante alla coltivatrice diretta, che poteva accedere ai regimi di favore stabiliti dagli artt. 2 e 9 del DLgs. 504/1992 (decreto ICI). In particolare la lettera b), secondo periodo, dell’art. 2 esprime la “finzione giuridica” secondo cui, in ogni caso, non sono considerati fabbricabili i terreni, posseduti e condotti dai coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali, sui quali persiste l’utilizzazione agro-silvo-pastorale mediante l’esercizio di attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, alla funghicoltura e all’allevamento di animali. In buona sostanza, secondo la tesi dell’Amministrazione comunale, l’equiparazione del terreno “edificabile” a quello “agricolo” non era possibile per le quote di proprietà possedute dalla madre e dall’altra figlia, entrambe non esercenti l’attività agricola.
In altre parole, nel caso di specie si sono cristallizzate distinte e autonome pretese tributarie, ciascuna delle quali calibrata in funzione delle condizioni e caratteristiche in cui ogni singolo soggetto passivo si pone nei confronti della norma (C.T. Prov. di Ravenna, sentenza n. 30/5 del 20 novembre 2003). I primi giudici tributari avevano accolto i ricorsi introduttivi, ritenendo che il fondo rustico dovesse essere considerato agricolo per tutti i comproprietari, avendo il bene, di fatto, la destinazione agricola ed essendo coltivato per l’intera superficie dalla quotista che rivestiva la qualità di coltivatrice diretta. La C.T. Reg. di Bologna, invece, ha accolto gli appelli dell’ente locale. Le decisioni dei giudici di appello sono state impugnate dinanzi alla Suprema Corte che, nell’accogliere i ricorsi perché fondati, ha così rafforzato il proprio orientamento edificato sulle sentenze n. 15566 del 30 giugno 2010 e n. 26878 del 21 dicembre 2009.
Sfruttamento edilizio incompatibile con la destinazione agricola
A parere dei giudici del Palazzaccio, un terreno, pur suscettibile di utilizzazione edificatoria, va considerato agricolo ogniqualvolta sussistano le seguenti condizioni:- il possesso e la conduzione diretta del terreno da parte di coltivatori diretti o di imprenditori agricoli professionali;
- la persistenza dell’utilizzazione agro-silvo-pastorale, mediante l’esercizio di attività dirette alla coltivazione.
Ricorrendo queste condizioni, il terreno soggiace all’ICI in base al valore catastale (reddito dominicale, rivalutato del 25%, per il coefficiente 75), dovendosi prescindere dalla sua obiettiva potenzialità edificatoria, per ciascuno dei comproprietari del reddito fondiario. Secondo gli Ermellini, infatti, lo sfruttamento edilizio è incompatibile con la permanente destinazione del terreno a scopo agricolo sia per la coltivatrice diretta, sia per le altre comproprietarie. Tesi, questa, avvalorata dalle successive sentenze n. 16639 e n. 16636 depositate il 29 luglio 2011. Il consolidato indirizzo della Suprema Corte merita profondo rispetto, anche se è possibile intravedere qualche ombra sulla bontà del principio di diritto che, a nostro parere, sembra più adeguato sull’esegesi dell’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto ICI.
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