riscossione
Per la ripetizione dell’indebito fiscale, necessaria l’istanza di rimborso
In caso di imposte versate per sbaglio, va presentata entro 48 mesi, se l’errore non è immediatamente rilevabile dall’Amministrazione finanziaria
Per il rimborso delle maggiori imposte erroneamente versate, occorre che il contribuente presenti una tempestiva istanza di rimborso, se l’errore materiale in cui è incorso non è rilevabile ictu oculi dall’Amministrazione finanziaria. È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione del 28 luglio scorso, numero 16551.
Una grande spa del settore dell’abbigliamento ometteva di indicare nella sua dichiarazione dei redditi del 1985 (quadro M dell’allora modello 760) le ritenute d’acconto subite sui dividendi distribuiti dalle sue società controllate nel 1984. Soltanto nel dicembre del 1990 presentava un’istanza di rimborso delle maggiori imposte erroneamente versate a seguito del mancato scomputo di tali ritenute in sede di dichiarazione dei redditi. L’Amministrazione finanziaria, però, respingeva la domanda perché tardiva.
In effetti, l’art. 38, comma 1 del DPR 602/1973, stabilisce per l’istanza di rimborso il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
Avverso il diniego opposto dal Fisco, la società proponeva ricorso alla C.T. Prov., adducendo che la mancata indicazione delle ritenute subite costituiva un mero errore materiale, immediatamente riconoscibile dall’Amministrazione finanziaria, in sede del cosiddetto “controllo automatizzato” della dichiarazione ai sensi dell’art. 36-bis del DPR 600/1973, per cui, sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’Anagrafe tributaria, l’Amministrazione finanziaria, avvalendosi di procedure automatizzate, provvede, tra l’altro, alla correzione degli errori materiali e di calcolo commessi dal contribuente in sede dichiarativa. La società chiedeva, quindi, l’applicazione di tale norma, che avrebbe così reso superflua la presentazione dell’istanza di rimborso, risultata poi tardiva.
I giudici di prime cure accoglievano il ricorso, ma la decisione veniva ribaltata in secondo grado a favore dell’Amministrazione Finanziaria. Anche la C.T. Centrale, infine, si pronunciava a favore del Fisco.
Proponeva, allora, ricorso per Cassazione la società, denunciando la violazione dell’art. 38 del DPR 602/1973 e dell’art. 36-bis del DPR 600/1973, atteso che i giudici di merito avevano erroneamente stabilito la sussistenza dell’obbligo di presentare l’istanza di rimborso al fine di ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate.
La Cassazione, però, ha ritenuto il motivo di ricorso infondato.
I Giudici di piazza Cavour, innanzitutto, hanno precisato che (cfr. Cass. 25872/2009), in ambito tributario, non sono applicabili le disposizioni che disciplinano l’indebito di diritto comune (art. 2033 c.c), essendo vigente, invece, un regime speciale basato sull’obbligo di presentazione di un’apposita istanza ai fini della ripetizione dell’indebito nei termini previsti dalle singole leggi d’imposta (per le imposte sui redditi, come nel caso di specie, la disciplina specifica è recata dall’art. 38 del DPR 602/1973).
Gli Ermellini hanno richiamato, pertanto, la loro giurisprudenza pregressa (cfr. Cass. 11830/2002), in base alla quale soltanto l’esposizione in dichiarazione del credito d’imposta, successivamente consolidato a seguito di liquidazione della stessa dichiarazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, esonera il contribuente dalla successiva presentazione dell’istanza di rimborso.
Nel caso di specie, tuttavia, la società non aveva indicato in dichiarazione le ritenute subite sui dividendi percepiti e non le aveva quindi neppure scomputate dall’imposta dovuta: ciò – secondo i Giudici del Palazzaccio – non poteva considerarsi un mero errore formale rilevabile ictu oculi dall’Amministrazione finanziaria, atteso che tale errore, oltre che non emergere direttamente dalla stessa dichiarazione, non poteva essere automaticamente considerato produttivo di una discrepanza fra imposta dichiarata e quella effettivamente versata, che determinasse quindi l’obbligo del Fisco di procedere a rimborso sul presupposto della chiara ed inequivoca volontà del contribuente di far valere il suo credito d’imposta.
Alessandro BORGOGLIO
Una grande spa del settore dell’abbigliamento ometteva di indicare nella sua dichiarazione dei redditi del 1985 (quadro M dell’allora modello 760) le ritenute d’acconto subite sui dividendi distribuiti dalle sue società controllate nel 1984. Soltanto nel dicembre del 1990 presentava un’istanza di rimborso delle maggiori imposte erroneamente versate a seguito del mancato scomputo di tali ritenute in sede di dichiarazione dei redditi. L’Amministrazione finanziaria, però, respingeva la domanda perché tardiva.
In effetti, l’art. 38, comma 1 del DPR 602/1973, stabilisce per l’istanza di rimborso il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.
Avverso il diniego opposto dal Fisco, la società proponeva ricorso alla C.T. Prov., adducendo che la mancata indicazione delle ritenute subite costituiva un mero errore materiale, immediatamente riconoscibile dall’Amministrazione finanziaria, in sede del cosiddetto “controllo automatizzato” della dichiarazione ai sensi dell’art. 36-bis del DPR 600/1973, per cui, sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’Anagrafe tributaria, l’Amministrazione finanziaria, avvalendosi di procedure automatizzate, provvede, tra l’altro, alla correzione degli errori materiali e di calcolo commessi dal contribuente in sede dichiarativa. La società chiedeva, quindi, l’applicazione di tale norma, che avrebbe così reso superflua la presentazione dell’istanza di rimborso, risultata poi tardiva.
I giudici di prime cure accoglievano il ricorso, ma la decisione veniva ribaltata in secondo grado a favore dell’Amministrazione Finanziaria. Anche la C.T. Centrale, infine, si pronunciava a favore del Fisco.
Proponeva, allora, ricorso per Cassazione la società, denunciando la violazione dell’art. 38 del DPR 602/1973 e dell’art. 36-bis del DPR 600/1973, atteso che i giudici di merito avevano erroneamente stabilito la sussistenza dell’obbligo di presentare l’istanza di rimborso al fine di ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate.
La Cassazione, però, ha ritenuto il motivo di ricorso infondato.
I Giudici di piazza Cavour, innanzitutto, hanno precisato che (cfr. Cass. 25872/2009), in ambito tributario, non sono applicabili le disposizioni che disciplinano l’indebito di diritto comune (art. 2033 c.c), essendo vigente, invece, un regime speciale basato sull’obbligo di presentazione di un’apposita istanza ai fini della ripetizione dell’indebito nei termini previsti dalle singole leggi d’imposta (per le imposte sui redditi, come nel caso di specie, la disciplina specifica è recata dall’art. 38 del DPR 602/1973).
In ambito tributario, vige un regime speciale
Ne consegue – secondo la Cassazione – che la domanda di rimborso da parte del contribuente rappresenta la regola generale in materia tributaria, mentre il rimborso d’Ufficio costituisce un’eccezione ad essa: tale principio, quindi, deve guidare la corretta interpretazione delle disposizioni in oggetto.Gli Ermellini hanno richiamato, pertanto, la loro giurisprudenza pregressa (cfr. Cass. 11830/2002), in base alla quale soltanto l’esposizione in dichiarazione del credito d’imposta, successivamente consolidato a seguito di liquidazione della stessa dichiarazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, esonera il contribuente dalla successiva presentazione dell’istanza di rimborso.
Nel caso di specie, tuttavia, la società non aveva indicato in dichiarazione le ritenute subite sui dividendi percepiti e non le aveva quindi neppure scomputate dall’imposta dovuta: ciò – secondo i Giudici del Palazzaccio – non poteva considerarsi un mero errore formale rilevabile ictu oculi dall’Amministrazione finanziaria, atteso che tale errore, oltre che non emergere direttamente dalla stessa dichiarazione, non poteva essere automaticamente considerato produttivo di una discrepanza fra imposta dichiarata e quella effettivamente versata, che determinasse quindi l’obbligo del Fisco di procedere a rimborso sul presupposto della chiara ed inequivoca volontà del contribuente di far valere il suo credito d’imposta.
Alessandro BORGOGLIO
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