redditi diversi
Rinuncia al diritto d’opzione senza rischi se non vengono cedute le quote
Ancora valida la presa di posizione del 2000 del Ministero delle Finanze, secondo cui l’operazione non configura capital gain
Si assiste con una certa frequenza, specialmente nei contesti societari a base partecipativa più ristretta, ad operazioni nelle quali l’ingresso di nuovi soci non avviene a seguito della cessione di azioni o quote da parte dei vecchi soci, bensì attraverso un apposito aumento del capitale sociale caratterizzato dalla rinuncia da parte di questi ultimi al diritto d’opzione. Si tratta di operazioni che, chiaramente, modificano i rapporti partecipativi, ponendo le condizioni affinché la successiva cessione delle quote possa determinare un livello di tassazione differente tra i soci coinvolti (ad esempio, soci in precedenza “qualificati” divengono “non qualificati”).
Non per questo, altrettanto chiaramente, esse hanno natura elusiva, “status” che dovrebbe invece essere circoscritto ai casi in cui all’aumento di capitale con rinuncia all’opzione facciano seguito ulteriori fatti che si inquadrino in un disegno finalizzato all’indebito risparmio di imposta.
La questione è stata affrontata dal Ministero delle Finanze nella C.M. n. 98 del 17 maggio 2000 (§ 7.2.1). Secondo il Ministero:
- la rinuncia gratuita all’esercizio del diritto d’opzione “non costituisce fattispecie imponibile, atteso che l’articolo 81 [ora 67], comma 1, lettere c), c-bis) e c-ter), del TUIR fanno riferimento ai trasferimenti a titolo oneroso”;
- il contribuente deve provare che si tratta di una rinuncia gratuita al diritto d’opzione, “e non di cessione a titolo oneroso del diritto di opzione, né di esercizio di opzione e successiva cessione a titolo oneroso”.
La risposta della circolare fa seguito alla nota 44933/96 della DRE Lombardia, nella quale la rinuncia al diritto di opzione da parte del socio di maggioranza relativa aveva determinato la sua relega ad una partecipazione del tutto minoritaria. Ad avviso della Direzione Regionale, “la rinuncia al diritto di opzione non esplica effetti di natura tributaria nella fattispecie sopra descritta, configurandosi invece i presupposti di tassazione in base alla disciplina dei redditi diversi (...) nel momento in cui avviene la cessione delle partecipazioni o dei diritti attraverso i quali possono essere acquisite le partecipazioni”.
Una consolidata corrente dottrinale considera, del resto, la rinuncia al diritto di opzione quale atto che non comporta automaticamente la disposizione del diritto a favore degli altri soci, ma più semplicemente la mancata accettazione dell’offerta, a seguito della quale le azioni tornano nella disponibilità degli amministratori, i quali potrebbero offrirle ai terzi nel caso in cui i rimanenti soci rinuncino ad esercitare la prelazione sulle azioni inoptate. Se si accetta questa impostazione, ne consegue che la rinuncia non determina alcun effetto fiscale.
Certamente, le conclusioni alla quale è pervenuta la prassi ministeriale possono essere confermate se l’ingresso dei nuovi soci non è propedeutico alla cessione delle partecipazioni sociali; in caso contrario, sono maggiori i rischi che la rinuncia al diritto di opzione possa essere riqualificata in cessione di parte delle azioni detenute dai vecchi soci.
Quest’ultima circostanza è stata valorizzata dall’Amministrazione finanziaria anche per quanto riguarda il rapporto con la disciplina antielusiva. In particolare, l’assenza di intendimenti di cedere le quote è stata considerata circostanza a favore del contribuente in svariati Pareri del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive (Parere n. 11 del 12 aprile 2006; Parere n. 18 del 16 maggio 2006; Parere n. 31 del 4 ottobre 2006; Parere n. 8 del 22 marzo 2007; Parere n. 13 del 22 marzo 2007) e dovrebbe, quindi, sgomberare il campo da eventuali dubbi sulla piena liceità dell’operazione sotto il profilo fiscale.
/ Gianluca ODETTO
fonte: eutekne
Non per questo, altrettanto chiaramente, esse hanno natura elusiva, “status” che dovrebbe invece essere circoscritto ai casi in cui all’aumento di capitale con rinuncia all’opzione facciano seguito ulteriori fatti che si inquadrino in un disegno finalizzato all’indebito risparmio di imposta.
La questione è stata affrontata dal Ministero delle Finanze nella C.M. n. 98 del 17 maggio 2000 (§ 7.2.1). Secondo il Ministero:
- la rinuncia gratuita all’esercizio del diritto d’opzione “non costituisce fattispecie imponibile, atteso che l’articolo 81 [ora 67], comma 1, lettere c), c-bis) e c-ter), del TUIR fanno riferimento ai trasferimenti a titolo oneroso”;
- il contribuente deve provare che si tratta di una rinuncia gratuita al diritto d’opzione, “e non di cessione a titolo oneroso del diritto di opzione, né di esercizio di opzione e successiva cessione a titolo oneroso”.
La risposta della circolare fa seguito alla nota 44933/96 della DRE Lombardia, nella quale la rinuncia al diritto di opzione da parte del socio di maggioranza relativa aveva determinato la sua relega ad una partecipazione del tutto minoritaria. Ad avviso della Direzione Regionale, “la rinuncia al diritto di opzione non esplica effetti di natura tributaria nella fattispecie sopra descritta, configurandosi invece i presupposti di tassazione in base alla disciplina dei redditi diversi (...) nel momento in cui avviene la cessione delle partecipazioni o dei diritti attraverso i quali possono essere acquisite le partecipazioni”.
Una consolidata corrente dottrinale considera, del resto, la rinuncia al diritto di opzione quale atto che non comporta automaticamente la disposizione del diritto a favore degli altri soci, ma più semplicemente la mancata accettazione dell’offerta, a seguito della quale le azioni tornano nella disponibilità degli amministratori, i quali potrebbero offrirle ai terzi nel caso in cui i rimanenti soci rinuncino ad esercitare la prelazione sulle azioni inoptate. Se si accetta questa impostazione, ne consegue che la rinuncia non determina alcun effetto fiscale.
Manca un orientamento giurisprudenziale consolidato sulla materia
Sul punto si registra una giurisprudenza datata. Secondo la decisione della Commissione Tributaria Centrale n. 3638 del 19 maggio 1981, è fondata la presunzione secondo la quale il socio che rinuncia al diritto di opzione non lo fa a titolo gratuito, ma a fronte di un presunto corrispettivo, che andrebbe perciò tassato. A diverse conclusioni è, invece, giunta la Corte di Cassazione che, nella sentenza n. 3306 del 13 maggio 1983, ha precisato che la rinuncia al diritto d’opzione è un mero indizio, non sufficiente da solo a giustificare l’esistenza di un contratto sottostante di cessione di quote.Certamente, le conclusioni alla quale è pervenuta la prassi ministeriale possono essere confermate se l’ingresso dei nuovi soci non è propedeutico alla cessione delle partecipazioni sociali; in caso contrario, sono maggiori i rischi che la rinuncia al diritto di opzione possa essere riqualificata in cessione di parte delle azioni detenute dai vecchi soci.
Quest’ultima circostanza è stata valorizzata dall’Amministrazione finanziaria anche per quanto riguarda il rapporto con la disciplina antielusiva. In particolare, l’assenza di intendimenti di cedere le quote è stata considerata circostanza a favore del contribuente in svariati Pareri del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive (Parere n. 11 del 12 aprile 2006; Parere n. 18 del 16 maggio 2006; Parere n. 31 del 4 ottobre 2006; Parere n. 8 del 22 marzo 2007; Parere n. 13 del 22 marzo 2007) e dovrebbe, quindi, sgomberare il campo da eventuali dubbi sulla piena liceità dell’operazione sotto il profilo fiscale.
/ Gianluca ODETTO
fonte: eutekne
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