La
nullità delle ipoteche iscritte dagli agenti della riscossione per i
debiti inferiori agli ottomila euro, è una norma che guarda al passato.
Le decisioni delle Sezioni Unite della Cassazione (
sentenze nn. 4077/2010 e
5771/2012),
hanno infatti riaperto i giochi a favore di tutti quei contribuenti che
negli anni scorsi hanno subito e dovuto far fronte a iscrizioni
ipotecarie oggi bollate come illegittime.
Preso atto in via definitiva che la procedura esecutiva utilizzata dal
concessionario della riscossione non era conforme al dettato normativo
di cui all'articolo 76 del D.P.R. n. 602/1973, molti contribuenti hanno
dunque agito per richiedere il pagamento delle spese ingiustamente
sostenute a fronte di tali iscrizioni ipotecarie nonché degli eventuali
danni, anche morali, dagli stessi subiti.
Che il tema sia di stretta attualità e che la partita in gioco sia di
una certa consistenza lo si evince anche dal comportamento recentemente
assunto dagli stessi vertici della società capogruppo dei concessionari
della riscossione, che hanno deciso di cancellare in autotutela le
iscrizioni ipotecarie per debiti iscritti a ruolo di importo inferiore a
otto mila euro.
Invero, sulla vicenda delle iscrizioni ipotecarie per debiti inferiori
agli ottomila euro si erano già levate nel recente passato più di una
critica e numerose sono le pronunce di merito che si sono alternate
dando ragione ora ai contribuenti ora all'operato dei Concessionari
della riscossione.
Oggi, dopo l'intervento sia della Cassazione sia del legislatore (v.
legge n. 73/2010),
il quadro sembra definito una volta per tutte ed è quindi il momento
giusto per ripercorrere brevemente questa intricata vicenda e per
comprendere come si è giunti a questa decisione “finale” e, soprattutto,
quali conseguenze la stessa può assumere.
La trattazione sull’argomento sarà di taglio tendenzialmente pratico,
senza comunque perdere di vista le questioni squisitamente
teorico-formali. Questo perché le azioni risarcitorie esperibili dai
contribuenti, seppur apparentemente semplici, nascondono in realtà
notevoli insidie.
Passando al merito della questione, il tema del risarcimento del danno
da ipoteca esattoriale illegittima può essere, per comodità, articolato
in quattro punti che pongono problemi del tutto diversi.
1. Giurisdizione
L’agente della riscossione eccepisce solitamente il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario (Giudice di Pace o Tribunale) in
merito all’accertamento della contestata illegittimità dell’iscrizione
ipotecaria per debiti di natura tributaria, sostenendo che la materia
del contendere non rientri tra quelle di competenza del giudice
ordinario quanto piuttosto tra quelle di competenza delle Commissioni
Tributarie ex art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 546/1992. Tale eccezione è,
però, priva di ogni fondamento giuridico, per i motivi che seguono.
Si osserva, in primo luogo, che il contenzioso in esame non concerne la
materia tributaria (cancellazione dell’ipoteca, impugnazione delle
cartelle di pagamento, ecc.), ma unicamente l’azione di risarcimento dei
danni per illegittime iscrizioni ipotecarie sui beni immobili intestati
ai contribuenti, in quanto eseguite dall’Agente della riscossione per
un importo complessivo inferiore a quello minimo di euro ottomila. E
infatti, è indiscutibile che qualora la domanda di risarcimento dei
danni sia basata su comportamenti illeciti tenuti dall’Amministrazione
Finanziaria dello Stato o di altri Enti impositori, la controversia,
avendo a oggetto una posizione sostanziale di diritto soggettivo del
tutto indipendente dal rapporto tributario (crediti tributari), è
devoluta alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, non
potendo sussumersi in una delle fattispecie tipizzate che, ai sensi
dell’art. 2 comma 1° del D.lgs. n. 546/1992, rientrano nella
giurisdizione esclusiva delle Commissioni Tributarie.
Il citato D.lgs. n. 546/1992 devolve alla giurisdizione tributaria
tutte le controversie nelle quali si contesta la legittimità o meno
dell’imposta, sicché va riconosciuta piena autonomia alla proposta
azione di risarcimento del danno.
D’altro canto, da attenta analisi della giurisprudenza assolutamente
dominante, interpellata più volte proprio per individuare a chi tra
giudice tributario e quello ordinario spettasse la giurisdizione sulla
domanda di risarcimento del danno derivante da comportamenti dolosi o
colposi dell’Amministrazione Finanziaria, ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
non sembra possano sorgere dubbi sul fatto che l’attività della P.A.,
anche nel campo tributario, deve svolgersi nei limiti posti non solo
dalla legge, ma anche della norma primaria del neminem laedere, per cui è
consentito solo al giudice ordinario (recte: spetta al giudice
ordinario) accertare se vi sia stato un comportamento colposo tale che,
in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la
violazione di un diritto soggettivo (sul punto: Cassazione civile,
SS.UU., sentenza 16.04.2007 n° 8952; Cassazione civile, SS.UU., sentenza
04.01.2007 n° 15; Cassazione civile, SS.UU., sentenza 15.10.1999 n°
722; Cassazione civile, SS.UU., sentenza 18.05.1995 n° 5477; di recente:
Cassazione civile, SS.UU.,
sentenza 10.06.2013 n° 14506).
In seconda analisi, autorevole dottrina (FERRI, in Lezioni sul processo
civile, il Mulino 2000) aveva già sottolineato che il problema del
riparto delle giurisdizioni non ha nulla a che vedere con quello dei
poteri del giudice, ordinario o tributario. Sotto questo profilo, va
rilevato come da parte del giudice ordinario in sede di giurisdizione
civile sia sempre possibile svolgere anche un’attività di controllo
della legittimità degli atti amministrativi, seppur al solo fine della
loro eventuale “disapplicazione”.
Il giudice, se per risolvere una controversia deve decidere questioni
riguardanti la legittimità di un atto amministrativo, deve stabilire
anzitutto se l’atto stesso sia o meno produttivo di validi effetti, ma
questa indagine si svolge in via incidentale e quindi al solo fine di
decidere la controversia.
Nessun rilievo, dunque, può assumere la circostanza che nella specie
possa anche mancare una pronuncia irrevocabile di illegittimità della
iscrizione ipotecaria (ad es., perché il contribuente non ha impugnato
l’iscrizione ipotecaria innanzi alla Commissione Tributaria per
richiederne la cancellazione). Il contenzioso in esame, infatti, non
concernendo la materia tributaria ma l’azione di risarcimento per i
danni subiti dai contribuenti a seguito delle illegittime iscrizioni
ipotecarie, rientra nel novero dei giudizi ordinari.
Pertanto, il giudicante, senza entrare nel merito della debenza
tributaria sul cui fondamento l’agente della riscossione ha ritenuto
dover iscrivere l’ipoteca sull’immobile del contribuente, ha l’unico
compito di accertare se detta iscrizione è conforme alla legge e
valutare, conseguentemente, la rilevanza del comportamento adottato dal
Concessionario, ai fini della declaratoria o meno della sussistenza dei
presupposti per il risarcimento del danno.
Di conseguenza, assolutamente infondata deve ritenersi l’eccezione di
carenza di giurisdizione del giudice ordinario eventualmente sollevata
dall’agente della riscossione, atteso che l'attività della pubblica
amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve
svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del
neminem laedere, codificato nell'art. 2043 c.c., per cui è consentito al
giudice ordinario accertare se vi sia stato da parte della stessa
pubblica amministrazione, un comportamento doloso o colposo che, in
violazione di tale norma e tale principio, abbia determinato la
violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di
legalità, imparzialità e buona amministrazione, di cui all'art. 97
Cost., la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenza
stabilite dall'art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come
limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di
questa rimanga precluso al giudice ordinario (in tal senso: Cassazione
civile, sez. III, sentenza n° 5120; Cassazione civile, sez. III,
sentenza 27.03.2009 n° 7531; Cassazione civile, SS.UU., sentenza
13.12.2007 n° 26108).
2. Illegittimità dell’iscrizione ipotecaria
L'oggetto del contendere è l’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973. In esso si
prevede infatti che: «il concessionario può procedere
all'espropriazione immobiliare se l'importo complessivo del credito per
cui si procede supera complessivamente ottomila euro».
Secondo i legali delle società concessionarie della riscossione tale
norma prevede solo un limite quantitativo per l'avvio
dell'espropriazione immobiliare ma non anche per l'iscrizione
dell'ipoteca, che costituisce invece la preliminare misura cautelare a
garanzia dei crediti iscritti nei ruoli e non pagati dal contribuente.
A sostegno di tale tesi difensiva infatti gli agenti della riscossione
citano il tenore lettera dell'art. 77 dello stesso D.P.R. n. 602/1973 ai
sensi del quale «...il ruolo costituisce titolo per iscrivere ipoteca
sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al
doppio dell'importo complessivo del credito per cui si procede». Non c'è
quindi nessun importo limite al disotto del quale non sia possibile
iscrivere ipoteca a garanzie del credito esattoriale e quindi, sempre
secondo la tesi difensiva sostenuta dai concessionari, nessun limite
all'esercizio delle misure cautelari.
Sulla base di queste considerazioni i concessionari della riscossione
hanno proceduto all'iscrizione di numerosissime ipoteche anche per
debiti iscritti a ruolo di entità inferiore al limite degli ottomila
euro. Si è assistito quindi a molteplici e ingiustificate violazioni di
legge compiute dagli esattori, che spesso non hanno rispettato alcun
principio di trasparenza, correttezza e proporzionalità nella procedura
di riscossione dei tributi, come talvolta sottolineato anche dai mezzi
di informazione.
Infatti, la procedura esecutiva utilizzata in questi anni non è stata
assolutamente conforme al dettato normativo di cui all’art. 76 del
D.P.R. n. 602/1973, atteso che la maggior parte delle iscrizioni
ipotecarie erano certamente irragionevoli e sproporzionate, essendo
palesemente incongrua la differenza tra la modesta somma complessiva
(talvolta anche sotto i mille euro) eventualmente dovuta dal
contribuente, e il valore dell’immobile ipotecato.
Tali iscrizioni, essendo state imposte per un credito non superiore
agli otto mila euro in realtà- come si vedrà meglio infra- erano
palesemente illegittime.
In realtà, prima della pronuncia delle Sezioni Unite, alcuni giudici di
merito si erano già espressi in ordine alla debolezza della posizione
sostenuta dai concessionari della riscossione, osservando che se il
legislatore, in materia di esecuzione esattoriale consente il ricorso
all’espropriazione forzata immobiliare soltanto quando il credito per
cui si procede supera gli 8mila euro, tale limitazione non può che
riguardare anche l’ipoteca che precede il pignoramento (v. Tribunale
Napoli, sentenza 29.03.2007 n° 19703; Commissione Tributaria Provinciale
Milano, sentenza 20.04.2009 n° 601). Trattasi, difatti, di rimedio che
s'inserisce nel procedimento di espropriazione immobiliare, quale mezzo
di realizzazione del credito, e che, quale “atto funzionale
all’espropriazione forzata e quindi, mezzo di realizzazione del credito”
(cfr. Cassazione civile, SS.UU.,
sentenza 31.01.2006 n° 2053), non può che essere regolato dagli stessi principi.
Tale interpretazione trae spunto da una lettura sistematica e letterale
degli artt. 76 e 77 del D.P.R n. 602/1973, dei quali il primo consente
al concessionario della riscossione di procedere all’espropriazione
immobiliare solo se il credito complessivamente azionato superi gli
ottomila euro; il secondo impone allo stesso concessionario di iscrivere
ipoteca prima di procedere all’esecuzione forzata. L’apposizione di un
limite quantitativo del credito da superare, per poter ricorrere a tale
tipo di esecuzione risponde, all’evidenza, ai principi di logicità e
ragionevolezza tesi a evitare una sproporzione tra entità del diritto
tutelato e danno patrimoniale arrecato al debitore.
D’altro canto, nel nostro ordinamento è pacificamente riconosciuto il
principio del divieto generale di “abuso del diritto” (in argomento:
Cassazione civile, sez. III,
sentenza 18.09.2009 n° 20106; Cassazione civile, SS.UU.,
sentenza 26.06.2009 n° 15029).
E ciò atteso che il concessionario della riscossione, per i crediti di
entità minore, può attivare gli altri strumenti esecutivi disciplinati
dalla normativa sulla riscossione delle imposte, e in particolare
l’esecuzione mobiliare e, se del caso, il pignoramento presso terzi.
Vale la pena di richiamare, in merito, la direttiva n. 12/2007 della
stessa Equitalia, società a partecipazione pubblica responsabile del
sistema di riscossione, emessa in tempi non sospetti e che oggi assume
toni a dir poco ironici, con cui detta società ha diramato istruzioni
operative nell’utilizzo delle misure cautelari, raccomandando di “non
abusare di strumenti altamente invasivi se non nei casi in cui l’entità
dei debiti tributari ne giustifichi l’utilizzo (ipoteca diretta sugli
immobili solo per le cartelle superiori a 10 mila euro)” e di fare
ricorso “solo in ultima istanza, ovvero in presenza di comportamenti
evasivi ripetuti…alle ganasce fiscali e alle misure cautelari sugli
immobili”.
Malgrado ciò, in questa tormentata vicenda la posizione dei
concessionari della riscossione in ordine alle iscrizioni di ipoteche
per debiti inferiori al citato valore soglia è stata sempre univoca e
ferma sulla correttezza del proprio agire. In particolare Equitalia,
ribadendo la correttezza del suo operato, ritiene che il limite di otto
mila euro è, infatti, previsto dall'art. 76, comma 1, del D.P.R. n.
602/1973 solo perché l'agente della riscossione possa procedere
all'espropriazione, dando luogo alla vendita, e non anche per
l'iscrizione di ipoteca che rappresenta invece, uno strumento di
garanzia per gli interessi degli enti creditori.
L'affermazione, solo apparentemente esatta, non può assolutamente
essere condivisa, derivata com'è da una lettura errata e non consapevole
dell’istituto dell’ipoteca.
Come è noto, l’ipoteca è una forma di garanzia reale che «attribuisce
al creditore il diritto di espropriare (…) i beni vincolati a garanzia
del suo credito» (art. 2808 c.c.).
Principale scopo ed effetto dell’iscrizione ipotecaria è dunque la
possibilità di procedere all’espropriazione del bene gravato al fine di
soddisfare il credito garantito. Vi è cioè una stretta connessione tra
l’iscrizione ipotecaria e la (successiva) fase satisfattiva in via
coattiva del credito garantito.
La predetta stretta correlazione emerge anche dal disposto dell’art.
77, comma 2, D.P.R. n. 602 del 1973, laddove è sancito che, in presenza
di un certo rapporto tra credito erariale e valore dell’immobile, il
concessionario iscrive ipoteca e che, decorsi sei mesi dall’iscrizione
senza che il debito sia stato estinto, il concessionario procede
all’espropriazione del bene ipotecato.
È evidente che anche la normativa sulla riscossione coattiva dei
crediti erariali presuppone che l’iscrizione ipotecaria non è fine a se
stessa ma è finalizzata all’espropriazione forzata del bene gravato.
Va allora ritenuto che uno dei presupposti della legittimità
dell’iscrizione ipotecaria sia che il credito per cui si procede superi
complessivamente la somma di euro ottomila. Tale importo infatti è il
limite imposto dall’art. 76 D.P.R. cit. per poter procedere a
espropriazione immobiliare; al di sotto di tale limite il concessionario
può attivare solo le altre forme di esecuzione forzata (mobiliare
ovvero quella presso terzi), ma non l’espropriazione immobiliare.
La ratio è facilmente intuibile. Trattandosi della forma più onerosa e
foriera di maggiori sacrifici per il cittadino essa è stata riservata ai
crediti erariali di più rilevante importo, al fine di evitare che per
crediti a volte anche irrisori si possa “abusare” dello strumento
ipotecario con iscrizioni su immobili di valore spesso consistente.
Se quindi al concessionario è vietata l’esecuzione immobiliare per
crediti inferiori a ottomila euro è giocoforza dedurne che anche
l’iscrizione ipotecaria, che detta esecuzione forzata precede e
garantisce, e nella quale inevitabilmente deve sfociare, deve sottostare
al suddetto limite di valore del credito azionato.
Se infatti il concessionario, in presenza di crediti di importo
inferiore, non può comunque procedere a esecuzione forzata dei beni
immobili, non si può ritenere legittimato all’iscrizione di ipoteca
sugli stessi immobili che poi non potrebbe mai espropriare, dovendo
ricorrere ad altre forme di esecuzione coattiva.
Né vale, in ipotesi, a legittimarlo il disposto del capoverso dell’art.
77 D.P.R. cit. che dispone l’obbligatorietà dell’iscrizione di ipoteca
nei casi in cui l’importo del credito non superi il cinque per cento del
valore dell’immobile da sottoporre a espropriazione.
Infatti la disposizione in esame va coordinata con quella dell’articolo
precedente, sicché l’obbligo per il concessionario scatta sempre purché
l’importo del credito superi la somma di otto mila euro, sotto la quale
è vietato («l concessionario non procede all’espropriazione
immobiliare…», art. 76, comma 2, D.P.R. n. 602 cit.).
Le norme del D.P.R. n. 602/1973, frutto di disordinati e torrentizi
rimaneggiamenti dell'originario testo, non sono evidentemente coordinate
e vanno perciò interpretate in modo che abbiano un significato
logico-giuridico accettabile e conforme ai principi dell'ordinamento.
Non è possibile immaginare un'ipoteca priva del diritto di espropriare
(e ridotta a semplice prenotazione reale per una eventuale
espropriazione da altri iniziata e che potrebbe non intervenire mai !?),
occorre più realisticamente affermare che l'ipoteca può essere iscritta
solo laddove il credito complessivamente iscritto a ruolo superi gli
ottomila euro.
Ebbene, ipotizzando un'ipoteca priva del diritto di espropriare, non si
vede proprio come il concessionario potrebbe procedere. Al contrario
dopo aver iscritto l'ipoteca potrebbe solo stare fermo e sperare che
esista un altro creditore che inizi una procedura immobiliare sullo
stesso immobile ipotecato per partecipare alla futura distribuzione,
altrimenti l'ipoteca avrebbe solo lo scopo di infastidire il debitore,
scopo questo che ripugna attribuire al legislatore per evidenti ragioni
di civiltà giuridica.
Ricostruzione della norma, quella prospettata dagli agenti della
riscossione, assurda e inaccettabile e quindi da respingere, tanto è
vero che le Sezioni Unite della Cassazione civile hanno una volta per
tutte posto fine a qualsivoglia contrasto giurisprudenziale, confermando
che le ipoteche sono nulle se il debito non supera gli 8mila euro
(così,
Cassazione civile, SS.UU., sentenza 22.02.2010 n° 4077).
Va da sé, quindi, che nell’ottica della ragionevolezza tale forma di
garanzia non avrebbe avuto i presupposti per esistere. Di conseguenza,
data la natura interpretativa della citata sentenza, sussistono validi
motivi a sostegno della illegittimità ab initio delle iscrizioni
ipotecarie eseguite in questi anni dagli agenti della riscossione, alla
stregua ciò del principio, statuito nella richiamata pronuncia delle
Sezioni Unite, che «rappresentando l’iscrizione un atto preordinato e
strumentale all’espropriazione immobiliare, anche l’ipoteca soggiace al
limite per essa stabilito, nel senso che non può essere iscritta se il
debito del contribuente non supera gli otto mila euro».
Gli effetti di tale decisione, come di qualsiasi interpretazione, si
dispiegano senza dubbio con efficacia ex tunc. Vale a dire, il principio
enunciato non potrà non trovare applicazione anche per i procedimenti
in corso, che dovranno essere adeguati alla normativa correttamente
interpretata.
Peraltro, occorre subito evidenziare che detta pronuncia della Suprema
Corte a Sezioni Unite è stata tempestivamente recepita dal legislatore
nazionale, con
decreto-legge n. 40 del 25 marzo 2010 convertito con
legge n. 73 del 22 maggio 2010 (art. 3, comma 2-ter).
Logico corollario dell’intervento normativo è che i presupposti per il
mantenimento della misura cautelare in oggetto sono oramai assolutamente
insussistenti, atteso che la disposizione in commento ha introdotto nel
nostro sistema una norma di principio consolidatasi sulla scorta
dell’ampia giurisprudenza di merito e di legittimità al fine di rendere
chiara anche agli agenti della riscossione, al di là di ogni possibile
valutazione interpretativa, l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria
per crediti inferiori al limite soglia (in tema: Commissione Tributaria
Provinciale Roma, sez. V, sentenza 09.02.2011 n° 51).
Nonostante tale intervento normativo, gli agenti della riscossione
hanno continuato tenacemente a sostenere la legittimità dell’eseguite
iscrizioni ipotecarie. Al riguardo, hanno dedotto che la citata sentenza
delle Sezioni Unite della Suprema Corte sarebbe stata superata proprio
dall’art. 3, comma 2° ter del
decreto- legge n. 40/2010, introdotto dalla
legge di conversione n. 73 del 2010,
che dispone espressamente «a decorrere dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del presente decreto, l’agente della
riscossione non può iscrivere l’ipoteca di cui all’art. 77 del D.P.R. n.
602/1973 e successive modifiche, se l’importo complessivo del carico
per cui si procede, è inferiore a euro otto mila».
Ciò avallerebbe, secondo la tesi difensiva dell’agente della
riscossione, la piena legittimità delle ipoteche iscritte per carichi
inferiori a euro otto mila, prima della sua entrata in vigore
(25.05.2010).
Orbene, va ricordato che l’intervento di una norma successiva- nel caso di specie
decreto-legge n. 40/2010
sopra citato- che fa proprio il principio esposto dalla Suprema Corte
«A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione»
non ha evidentemente alcuna efficacia retroattiva, soprattutto per
quanto concerne gli ipotetici effetti abrogativi della norma previgente
per i procedimenti già oggetto di iscrizione ipotecaria. La ratio di
tale norma sopravvenuta risiede infatti nel dichiarare espressamente,
onde evitare per il futuro dispute e interpretazioni distorte, quale
fosse il comportamento da non seguire, in tema di iscrizioni ipotecarie
(«L’agente della riscossione non può iscrivere l’ipoteca... se l’importo
complessivo del carico … è inferiore a euro otto mila»).
Peraltro, non è difficile giungere a questa soluzione considerando che
la norma sopravvenuta non si pone in contrasto alcuno con la norma
previgente e anzi, come detto, ne ha fatto sostanzialmente proprie le
conclusioni cui era pervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite.
In quest’ottica, finalizzata a rendere ancor più chiara all’agente
della riscossione l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria per crediti
inferiori a otto mila euro, depone la
legge n. 106/2011
che, ulteriormente confermando il suddetto limite, ha introdotto nuove e
più elevate soglie (20 mila euro per l’abitazione principale del
debitore) per poter iscrivere ipoteca esattoriale.
Risultano pertanto non solo privi di fondamento, ma anche privi di
giustificazione quegli sforzi ermeneutici attraverso i quali l’agente
della riscossione arriva a ipotizzare persino una efficacia abrogativa
tacita retroattiva.
Più in generale, vista l’eccezionalità della retroattività delle norme
in materia tributaria, se il legislatore avesse voluto retroagire,
facendo cessare gli effetti della norma previgente, avrebbe potuto e
dovuto farlo espressamente con disposizioni transitorie e con altre
tecniche legislative.
In ogni caso, a fugare ogni dubbio è intervenuta la Suprema Corte a
Sezioni Unite che, tornata a occuparsi della questione, si è opposta con
forza alla tesi del concessionario ribadendo che una simile
disposizione (
D.L. n. 40/2010 poi convertito in
legge 73/2010)
non autorizza a ritenere che per il periodo pregresso non esistesse
alcun limite. Infatti, ciò che conta «Non è l’intenzione del legislatore
(Cass. n. 2454 del 1983) o la lettura fattane da ministeri o altri
enti, ma la volontà oggettiva della legge (Cass. n. 3550 del 1988) quale
risultante dal suo dato letterale», e questo nel caso di specie depone
«Nel senso della non iscrivibilità dell’ipoteca per crediti non
realizzabili a mezzo di espropriazione immobiliare» (cfr.
Cassazione civile, SS.UU., sentenza 03.04.2012 n° 5771).
La Suprema Corte, inoltre, senza alcuna incertezza ha affermato che, per accettarsi la linea dell’agente erariale, il «
DL n. 40/2010
avrebbe dovuto stabilire il contrario e, cioè, che a partire dal
momento della emanazione della legge di conversione non sarebbe più
stato possibile iscrivere ipoteca per crediti non realizzabili a mezzo
di espropriazione immobiliare; che il
DL
succitato non ha, però, detto nulla di simile, in quanto non ha fatto
cenno al predetto collegamento, ma si è limitato a fissare in modo
autonomo il presupposto per le future iscrizioni dell'ipoteca,
indicandolo in un importo che seppure coincidente con quello minimo
all'epoca previsto per l'espropriazione, non può essere per ciò solo
apprezzato come indiretta dimostrazione della inesistenza di limiti per
il passato».
Alla luce delle suesposte considerazioni e sulla base dell’autorevole
interpretazione della Suprema Corte, è evidente che le ipoteche
immobiliari per crediti inferiori a otto mila euro sono illegittime,
anche per i procedimenti avviati prima dell’entrata in vigore della
legge n. 73 del 22 maggio 2010.
3. Quantificazione del danno e onere della prova
Da quanto sin qui detto, è innegabile che le iscrizioni ipotecarie
eseguite sugli immobili dei contribuenti rappresentano una palese
violazione dei principi di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione e pertanto deve essere dichiarato tanto il pregiudizio
economico quanto il danno non patrimoniale subito dagli stessi.
Stante, però, l’oggettiva difficoltà e, pressoché, impossibilità di
dimostrare il danno nel suo preciso ammontare, gli agenti della
riscossione contestano la fondatezza delle domande proposte dai
contribuenti in quanto, a loro dire, carenti di prova in ordine
all’asserito danno subito.
Per ottenere il risarcimento del danno occorrerà, dunque, fornire la
prova dello stesso. Quest'ultima sarà costituita senza dubbio dal
concreto pregiudizio economico (es. il contribuente che vede sfumare la
vendita dell’immobile ipotecato), al quale potrà però anche aggiungersi
una ulteriore richiesta di danni di natura non patrimoniale
riconducibili alla lesione subita dal contribuente da tali atti
illegittimi.
Il termine entro il quale le richieste potranno essere esperibili è
naturalmente l’ordinario termine della prescrizione ovvero cinque anni.
Secondo l’opinione prevalente, ciò significa che si potrebbero attivare
tutti coloro che hanno subito iscrizioni ipotecarie per debiti iscritti a
ruolo inferiore a otto mila euro, a decorrere dall’avvenuta iscrizione
ipotecaria.
Ad avviso di chi scrive tale interpretazione non è condivisibile, in
quanto nell’ipotesi in esame si configura un illecito a carattere
permanente, il quale perdura fino a quando non venga cancellata
l’ipoteca. Infatti, l’illiceità del comportamento lesivo non si
esaurisce nel primo atto, ma perdura nel tempo, sino a quando permanga
la situazione illegittima posta in essere e nella quale si concreta una
interrotta violazione dell’altrui interesse.
Il diritto al risarcimento del danno, pertanto, sorge con l’inizio del
fatto illecito generatore del danno stesso e con questo persiste nel
tempo, rinnovandosi di momento in momento, con la conseguenza che la
prescrizione, secondo la regola del suo computo (art. 2935 c.c.), ha
inizio da ciascun giorno rispetto al fatto già verificatosi e al
corrispondente diritto al risarcimento.
Dall’applicazione di detti principi consegue che il termine
quinquennale di prescrizione comincia a decorrere dall’avvenuta
cancellazione dell’ipoteca, e non dal sua iscrizione.
Ciò posto, tracciando un quadro generale sulla metodologia di approccio
alla tematica della risarcibilità del danno esistenziale, va osservato
che il pregiudizio subito dai contribuenti è idoneo a superare quella
soglia di sufficiente gravità e compromissione dei diritti lesi,
individuata, in sede interpretativa, dalle Sezioni Unite del 2008
(sentenze nn.
21934 -
26972 - 26975), quale limite imprescindibile al risarcimento del danno non patrimoniale.
Detta soglia di sufficiente gravità e compromissione dei diritti lesi
ha lo scopo di contemperare le esigenze risarcitorie con il dovere di
tolleranza cui è tenuto ciascun individuo nei riguardi degli altri
consociati e che rinviene un ancoramento costituzionale nell’art. 2
Cost..
Più precisamente, il danno non patrimoniale risarcibile deve essere
inteso come categoria ampia, nella quale trovano collocazione giuridica
tutte le ipotesi in cui si verifichi la lesione di beni o valori
inerenti alla persona, ovvero sia il danno morale soggettivo, sia il
danno biologico in senso stretto, sia il danno esistenziale, o danno da
lesione di altri beni non patrimoniali di rango costituzionale.
Nel contenzioso in esame, appare evidente come i contribuenti abbiano
subito danni notevoli, che vanno dal mancato uso, anche per diversi
anni, degli immobili ipotecati, agli effetti negativi, in conseguenza
delle disposte ipoteche esattoriali, dell’iscrizione ex lege dei propri
nominativi tra le segnalazioni a “sofferenza” presso la Centrale dei
Rischi della Banca D’Italia, e del trattamento dei dati dei suddetti
contribuenti nel circuito finanziario ai fini dell’accesso al credito.
In particolare, la “segnalazione” del nominativo presso la centrale dei
rischi, cui si rivolgono gli istituti di credito per verificare la
solvibilità del cliente, può comportare anche un concreto e immediato
pericolo di revoca degli affidamenti (si pensi, ad es., alla categoria
degli imprenditori).
Per non parlare, poi, del fatto che i contribuenti rimangono spesso
privi senza alcuna valida ragione della possibilità di poter disporre
del proprio patrimonio immobiliare, anche al fine di poterlo validamente
offrire in garanzia in operazioni finanziarie, con il disagio che
evidentemente ne deriva.
È notorio, infatti, che subire una illegittima iscrizione ipotecaria
sui propri beni, implica un’alterazione in senso negativo
dell’organizzazione di vita quotidiana, comportando anche un’alterazione
alla serenità personale e familiare del contribuente.
Pertanto, la lesione dei diritti dei contribuenti al buon nome, alla
riservatezza e immagine, nonché alla disponibilità della proprietà
privata, riconosciuti espressamente dagli artt. 2, 4, 15, e 42 della
Carta Costituzionale, viene a sostanziarsi in conseguenza del riferito
comportamento adottato dagli agenti della riscossione, in ordine al
quale la stessa gravità delle ritenute illegittime iscrizioni
ipotecarie, con la conseguente lesione dei suddetti diritti inviolabili
della persona, fornisce la prova in re ipsa del danno non patrimoniale
dagli stessi subito, secondo quanto statuito da ormai costante e copiosa
giurisprudenza, in fattispecie analoghe (in tal senso:
Cassazione civile, sez. I, sentenza 28.06.2006 n° 14977;
Giudice di Pace Siracusa, sentenza, sentenza 29.09.2010 n° 1422; Corte
di Appello Napoli, sentenza 28.10.2005; Tribunale Modena, sentenza
02.03.2004; di recente: Giudice di Pace Siracusa, sentenza 05.05.2013 n°
795; Giudice di Pace Catania, sez. I civile, sentenza 27.01.2012 n°
272; Tribunale di Nuoro, sentenza 08.02.2011, secondo cui «l’iscrizione
illegittima d’ipoteca viola il disposto del neminem laedere, ex art.
2043 c.c., e, conseguentemente, ex art. 2059 c.c., è generativa di
pregiudizio ai valori costituzionali, personali, quali l’onore e la
reputazione del soggetto iscritto, come tale risarcibile in re ipsa e
liquidabile in via equitativa»).
Del resto, sul piano della prova è ius receptum l’affermazione secondo
cui l’immaterialità dei pregiudizi in questione- lesione dei beni e
valori inerenti alla persona- rende percorribile in via principale lo
strumento della prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni anche
basate su fatti notori o massime di comune esperienza (in tal senso,
Cassazione civile, sez. III, 19.08.2003 n° 12124).
Sotto tale profilo, secondo la Cassazione è risarcibile il danno
(conseguenza) patito dal proprietario di un immobile a causa di
un’illegittima e imprudente iscrizione di ipoteca giudiziale poiché,
affermano i Giudici di legittimità, è possibile la compromissione della
“commerciabilità” del bene stesso (così:
Cassazione civile, sez. III, sentenza 02.11.2010 n° 22267;
in senso conforme si sono espressi, Commissione Tributaria Regionale
Bari, sentenza 18.12.2009; Tribunale Roma, sez. Ostia, sentenza
09.12.2010).
In buona sostanza, il rapporto di derivazione immediata e diretta del
lamentato danno accertato in via presuntiva dei disagi subiti non
richiedono particolari sforzi argomentativi, riguardando diritti di
rango costituzionale. I contribuenti, tra l’altro, sopportano per un
lungo tempo un illegittimo trattamento errato dei loro dati nel circuito
finanziario e sistema creditizio da cui sono di fatto esclusi.
In ordine al quantum, considerata l’impossibilità pratica della
determinazione di un concreto e preciso ammontare del danno patrimoniale
subito, il giudicante può procedere alla liquidazione in via equitativa
dello stesso.
E invero, la sfera personale dei contribuenti illecitamente incisa
trova tutela nella Costituzione, la quale postula il diritto soggettivo
all’integrità sostanziale, suscettibile di risarcimento equitativo alla
stregua dei canoni generali consacrati rispettivamente dagli artt. 2059 e
1226 c.c..
Per completezza espositiva, in ordine alle richieste di risarcimento
del danno patrimoniale, occorre precisare che il principio secondo cui
alla illegittima iscrizione e alla mancata cancellazione della ipoteca
consegue il diritto del debitore al risarcimento del danno- il quale è
in re ipsa e trova la sua causa diretta e immediata nella situazione
illegittima posta in essere dal creditore- si riferisce esclusivamente
“all’an debeatur” che presuppone solo l’accertamento di un fatto
potenzialmente dannoso, in base a una valutazione di probabilità o di
verosimiglianza, mentre la prova di un concreto pregiudizio economico è
riservata alla fase successiva di determinazione e liquidazione che non
preclude al giudice di negare la sussistenza del danno.
Pertanto, alla mancata prova di un concreto pregiudizio economico non
può supplirsi mediante il ricorso alla valutazione equitativa prevista
dall’art. 1226 c.c., essendo questa consentita solo allorché il danno
non possa essere provato nel suo preciso ammontare; la liquidazione
d’ufficio, normalmente equitativa, non è altro che l’applicazione di un
criterio generale (artt. 1226 e 2056 c.c.) e pertanto non comporta
alcuna deroga all’onere di allegazione degli elementi di fatto idonei a
dimostrarne l’effettività.
4. Responsabilità ex art. 96 c.p.c.
L’Agente della Riscossione è investito di un grandissimo potere che
deve esercitare con equilibrio e prudenza, sussistendo diversamente, in
applicazione dell’
art. 96 c.p.c., la diretta responsabilità aggravata per gli atti che lo stesso pone in essere.
In particolare, per effetto modifica al codice di procedura civile
apportata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha introdotto il terzo
comma dell’
art. 96,
gli agenti della riscossione sono stati financo condannati al pagamento
di un indennizzo allorquando essi abbia erroneamente iscritto ipoteca
sugli immobili del contribuente (Tribunale Roma, sez. Ostia, sentenza
09.12.2010).
In tal caso, non è necessario allegare e dimostrare l’esistenza di un
danno, essendo semplicemente previsto che il giudice condanna la parte
soccombente al pagamento di un somma di denaro. In sostanza,
l’indennizzo (è più corretto qualificarlo così anziché risarcimento
danni), prescindendo da analisi in ordine all’elemento soggettivo (dolo o
colpa grave), richiesto per le fattispecie di cui ai commi 1 e 2 dell’
art. 96 c.p.c.,
si presenta alla stregua di una sanzione d’ufficio a carico della parte
soccombente, irrogata non (necessariamente) su richiesta di parte, e la
cui applicabilità non è subordinata alla concomitante sussistenza delle
fattispecie dei primi due commi.
Difatti, la lettera della norma è resa ancor più chiara dall’uso della
locuzione “in ogni caso”, che lascia intendere che la condanna può
essere emessa in tutti i casi in cui, anche al di fuori dei primi due
commi, appaia ragionevole.
Il caso tipico è quello dell’ipoteca illegittimamente iscritta
dall’Agente della riscossione in base a titolo sospeso (perché impugnato
in altra sede) ovvero quando l’importo del credito non ammette
l’iscrizione (come sappiamo, infatti, al di sotto degli ottomila euro
non è più possibile iscrivere ipoteca).
La quantificazione dell’indennizzo viene rimessa alla valutazione
discrezionale del giudice, tenuto conto delle circostanza del caso
concreto.
La condanna, dunque, va correlata, nel quantum, al grado di colpa che
il Giudice ravvisa nella condotta dell’Agente, che può dipendere dalla
conoscenza (o conoscibilità) che esso aveva della sospensione del titolo
(ad esempio, per aver preso parte al giudizio che l’ha dichiarata),
dalla condotta processuale della stessa (una cosa sarà ammettere in
giudizio l’errore, altra difendersi strenuamente e con argomenti
giuridici poco pertinenti o palesemente infondati), e da altri elementi
ancora che la fattispecie concreta faccia emergere.
Per fare un esempio concreto, si pensi al concessionario della
riscossione che, anziché procedere in contraddittorio con il
contribuente a una rivalutazione degli elementi posti a fondamento della
ipoteca esattoriale iscritta, evitando così, una inutile e defatigante
prosecuzione del contenzioso, preferisce continuare pervicacemente a
mantenere detta iscrizione ipotecaria sul patrimonio immobiliare del
contribuente.
Gli agenti della riscossione, adottando tale comportamento, non solo
palesano estrema superficialità nell’applicazione dei mezzi di
riscossione - che sono assolutamente coercitivi, dannosi e pericolosi
nei confronti dei cittadini – ma dimostrato anche di abusare della
propria posizione, pur di recuperare un credito.
Pertanto, l’indifferenza degli agenti della riscossione alla richiesta
di cancellazione dell’ipoteca costituisce, secondo alcuni giudici di
merito, giusto motivo per la condanna al risarcimento dei danni ai sensi
dell’
art. 96 c.p.c.,
posto che la richiamata sentenza interpretativa della Suprema Corte
impone alla agli esattori, inerti in autotutela, almeno l’obbligo di
ottemperare alla precisa richiesta di cancellazione (in tal senso:
Giudice di Pace Siracusa, sentenza 06.08.2011 n° 951).
Concludendo, la battaglia fra i contribuenti e il concessionario della
riscossione in tema di ipoteche illegittime ha assunto toni molto
accesi, in quanto le iscrizioni ipotecarie sono state utilizzate più
come mezzo di coazione di pagamento che come misura per garantire il
buon esito dell’eventuale esecuzione, nella maggior parte dei casi
tuttavia assolutamente impraticabile. Si spera, pertanto, che per il
futuro venga assunto un atteggiamento diverso, più aperto al dialogo e
al confronto, improntato a una attenta e leale collaborazione tra
contribuente e fisco.