Non è sufficiente “dimostrare” che
l’equivalente del valore dichiarato di cessione di un’azienda, definito
dall’acquirente ai fini dell’imposta di registro, sia transitato per il
conto corrente del venditore, perchè quest’ultimo vinca la presunzione
di maggiore plusvalenza.
La controversia
Con avviso di rettifica e liquidazione,
ai fini dell’imposta di registro, un Ufficio toscano aveva rettificato
il valore di cessione di una tabaccheria dichiarato in atto, da €
110.000,00 ad € 248.000,00.
Il suddetto avviso di rettifica era
stato oggetto di adesione con l’acquirente dell’azienda, ai sensi del
D.Lgs. 218/97, con cui il valore di cessione veniva definito in €
208.000,00.
Sulla scorta dei controlli effettuati,
l’Ufficio rettificava la plusvalenza dichiarata dal contribuente sulla
base del valore resosi definitivo ai fini dell’imposta di registro e
pari ad €. 208.000,00.
Pertanto, tenuto conto degli elementi
emersi, fra cui, per quanto in questa sede maggiormente ci occupa, del
valore di cessione definito ai fini dell’imposta di registro, l’Ufficio
determinava ed accertava un maggiore importo della plusvalenza, quale
differenza fra quest’ultimo valore e quello dichiarato dall’alienante il
compendio aziendale.
Ciò perché – come esplicitava l’Ufficio –
secondo logica comune ma anche secondo una delle più elementari logiche
di mercato, il prezzo di cessione di un’azienda non poteva discostarsi,
se non in casi eccezionali e facilmente dimostrabili da parte del
contribuente, dal valore venale ovvero valore di mercato della stessa.
A questo proposito, plurimi assesti della Cassazione avevano chiarito tale principio: ”in tema di plusvalenze patrimoniali di un’impresa, l’Amministrazione finanziaria”, infatti,
“è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento della
plusvalenza di cessione di un bene sulla base dell’accertamento di
valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro” (in questo senso, ad esempio, Cass. n. 1447/2006; Cass. 14581/2001; Cass. 4117/2002; Cass. n. 1448/2000; Cass. n. 210/1990; Cass. n. 4914/1986).
Tutto ciò premesso, l’Ufficio recuperava
a tassazione l’importo derivante dalla differenza fra la plusvalenza
accertata e quella dichiarata, ai sensi dell’art. 86 del D.P.R. 917/86.
Con tempestivo ricorso veniva impugnato il predetto atto dall’alienante il compendio aziendale.
In particolare, il ricorrente riteneva
che il criterio utilizzato per la determinazione del valore dell’azienda
ai sensi degli artt. 51 e 52 D.P.R. 131/1986 dovesse essere solo un
“indizio” e non la prova certa della plusvalenza realizzata, in quanto
le norme citate dispongono di accertare il valore venale in comune
commercio.
L’Ufficio, nel proprio atto di
costituzione in giudizio e di controdeduzioni, contestava, fra l’altro,
le eccezioni di merito dell’atto impugnato e sosteneva la correttezza
della ripresa a tassazione, sulla base delle ragioni esposte nell’avviso
di accertamento.
Il deliberato della CTP di Firenze
Con la sentenza della CTP di Firenze n.
29/19/2012, i Giudici provinciali, in primo luogo, concordano
pacificamente sull’”automatismo” esposto in sede narrativa dall’Ufficio.
Infatti, “pur nella diversità dei
principi relativi alla determinazione dell’imponibile nel caso di
trasferimento di un bene a seconda dell’imposta che si deve applicare …
l’Amministrazione finanziaria è tuttavia legittimata a procedere in via
induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza sulla base
dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione
dell’imposta di registro”.
E’, quindi, “onere probatorio del
contribuente (anche con ricorso ad elementi indiziari) superare la
presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di
mercato accertato in sede di applicazione dell’imposta di registro”.
Ciò posto, la sentenza che si annota
assume peculiare importanza – a nostro avviso – nel momento in cui
statuisce – nel respingere il ricorso – che il contribuente ha provato
che “il prezzo ufficiale di cessione sia transitato (e non poteva
essere altrimenti) sul suo conto corrente, ma non consente di inferire,
nemmeno in via probabilistica, che non vi siano stati ulteriori esborsi o
che la cessione sia avvenuta davvero a prezzo diverso da quello di
mercato”.
La statuizione emarginata, quindi,
consente di confermare la solidità dell’”automatismo” che assimila il
valore di cessione al corrispettivo effettivamente incassato.
Tale corrispondenza, seppur fondata su
basi diverse – il valore di mercato, per quanto riguarda l’imposizione
indiretta, ed il prezzo incassato, per quanto riguarda quella diretta –
rappresenta una presunzione molto difficile da scardinare per il
contribuente.
Egli non è liberato dalla prova di un
maggior incasso sol che mostri i suoi movimenti finanziari, ma deve
cercare altrove ed in contesti più certi le proprie giustificazioni.
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