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sabato 5 ottobre 2013

“AUTOMATISMO” FRA VALORE DI CESSIONE DI UN’AZIENDA DEFINITO AI FINI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO E CORRISPETTIVO EFFETTIVAMENTE INCASSATO. NON BASTA PROVARE I MOVIMENTI BANCARI PER VINCERE LA PRESUNZIONE DI UNA MAGGIORE PLUSVALENZA (CTP FIRENZE N. 29/19/12 DEL 20 FEBBRAIO 2012)

Non è sufficiente “dimostrare” che l’equivalente del valore dichiarato di cessione di un’azienda, definito dall’acquirente ai fini dell’imposta di registro, sia transitato per il conto corrente del venditore, perchè quest’ultimo vinca la presunzione di maggiore plusvalenza.
La controversia
Con avviso di rettifica e liquidazione, ai fini dell’imposta di registro, un Ufficio toscano aveva rettificato il valore di cessione di una tabaccheria dichiarato in atto, da € 110.000,00 ad € 248.000,00.
Il suddetto avviso di rettifica era stato oggetto di adesione con l’acquirente dell’azienda, ai sensi del D.Lgs. 218/97, con cui il valore di cessione veniva definito in € 208.000,00.
Sulla scorta dei controlli effettuati, l’Ufficio rettificava la plusvalenza dichiarata dal contribuente sulla base del valore resosi definitivo ai fini dell’imposta di registro e pari ad €. 208.000,00.
Pertanto, tenuto conto degli elementi emersi, fra cui, per quanto in questa sede maggiormente ci occupa, del valore di cessione definito ai fini dell’imposta di registro, l’Ufficio determinava ed accertava un maggiore importo della plusvalenza, quale differenza fra quest’ultimo valore e quello dichiarato dall’alienante il compendio aziendale.
Ciò perché – come esplicitava l’Ufficio – secondo logica comune ma anche secondo una delle più elementari logiche di mercato, il prezzo di cessione di un’azienda non poteva discostarsi, se non in casi eccezionali e facilmente dimostrabili da parte del contribuente, dal valore venale ovvero valore di mercato della stessa.
A questo proposito, plurimi assesti della Cassazione avevano chiarito tale principio: ”in tema di plusvalenze patrimoniali di un’impresa, l’Amministrazione finanziaria”, infatti, “è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento della plusvalenza di cessione di un bene sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro” (in questo senso, ad esempio, Cass. n. 1447/2006; Cass. 14581/2001; Cass. 4117/2002; Cass. n. 1448/2000; Cass. n. 210/1990; Cass. n. 4914/1986).
Tutto ciò premesso, l’Ufficio recuperava a tassazione l’importo derivante dalla differenza fra la plusvalenza accertata e quella dichiarata, ai sensi dell’art. 86 del D.P.R. 917/86.
Con tempestivo ricorso veniva impugnato il predetto atto dall’alienante il compendio aziendale.
In particolare, il ricorrente riteneva che il criterio utilizzato per la determinazione del valore dell’azienda ai sensi degli artt. 51 e 52 D.P.R. 131/1986 dovesse essere solo un “indizio” e non la prova certa della plusvalenza realizzata, in quanto le norme citate dispongono di accertare il valore venale in comune commercio.
L’Ufficio, nel proprio atto di costituzione in giudizio e di controdeduzioni, contestava, fra l’altro, le eccezioni di merito dell’atto impugnato e sosteneva la correttezza della ripresa a tassazione, sulla base delle ragioni esposte nell’avviso di accertamento.
Il deliberato della CTP di Firenze
Con la sentenza della CTP di Firenze n. 29/19/2012, i Giudici provinciali, in primo luogo, concordano pacificamente sull’”automatismo” esposto in sede narrativa dall’Ufficio.
Infatti, “pur nella diversità dei principi relativi alla determinazione dell’imponibile nel caso di trasferimento di un bene a seconda dell’imposta che si deve applicare … l’Amministrazione finanziaria è tuttavia legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro”.
E’, quindi, “onere probatorio del contribuente (anche con ricorso ad elementi indiziari) superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in sede di applicazione dell’imposta di registro”.
Ciò posto, la sentenza che si annota assume peculiare importanza – a nostro avviso – nel momento in cui statuisce – nel respingere il ricorso – che il contribuente ha provato che “il prezzo ufficiale di cessione sia transitato (e non poteva essere altrimenti) sul suo conto corrente, ma non consente di inferire, nemmeno in via probabilistica, che non vi siano stati ulteriori esborsi o che la cessione sia avvenuta davvero a prezzo diverso da quello di mercato”.
La statuizione emarginata, quindi, consente di confermare la solidità dell’”automatismo” che assimila il valore di cessione al corrispettivo effettivamente incassato.
Tale corrispondenza, seppur fondata su basi diverse – il valore di mercato, per quanto riguarda l’imposizione indiretta, ed il prezzo incassato, per quanto riguarda quella diretta – rappresenta una presunzione molto difficile da scardinare per il contribuente.
Egli non è liberato dalla prova di un maggior incasso sol che mostri i suoi movimenti finanziari, ma deve cercare altrove ed in contesti più certi le proprie giustificazioni.

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