Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Agenzia delle Entrate
Attestazione del requisito idoneità finanziaria
ai sensi art 7 Reg. Europeo n. 1071/2009 – art. 7 D. D . 291/2011Pratiche Telematiche al Registro Imprese - Invio Bilancio
Aggiornamento Consiglio di Amministrazione ed elenco Soci
Variazioni all 'Agenzia delle Entrate
Cessioni di quote di Società Srl
Gestione del contenzioso con l' Agenzia delle Entrate
Ricorsi Tributari
giovedì 27 febbraio 2014
martedì 18 febbraio 2014
Imposta di Registro e avveramento della condizione sospensiva
Imposta di Registro: l’atto ricognitivo dei notai equiparato alla denuncia
mercoledì, febbraio 5, 2014
L’agenzia delle Entrate, con la risoluzione 7 del 14 gennaio 2014, interviene nell’ambito del meccanismo indicato dalla legge – articolo 19 Dpr 131/1986 – per portare il Fisco a conoscenza di situazioni particolari che danno luogo alla liquidazione di un’imposta di Registro ulteriore, rispetto a quella inizialmente corrisposta, entro venti giorni dal loro verificarsi. È stabilito che alcuni eventi, ad esempio l’avveramento della condizione sospensiva o l’esecuzione dell’atto prima dell’avveramento della stessa, debbano essere oggetto di denuncia, da parte delle parti contraenti o dei loro aventi causa o da coloro nel cui interesse è stata richiesta la registrazione, all’ufficio che ha registrato l’atto al quale si riferiscono.
Con la risoluzione in oggetto, si riconosce la validità dell’atto ricognitivo della prassi notarile che, arginando la norma senza violarla, usa registrare un primo atto pubblico, sul quale viene applicata l’imposta di registro in misura fissa e, poi, al verificarsi dell’evento che dà luogo alla modifica dell’originaria tassazione, un secondo atto pubblico – detto ricognitivo – in relazione al quale corrispondono le imposte di registro dovute in misura proporzionale. Dunque, la presentazione dell’atto ricognitivo – anche telematica – per la registrazione è una forma alternativa di adempimento dell’obbligo di denuncia previsto dall’articolo 19 citato, nel rispetto dei requisiti della denuncia:
- esplicito collegamento al primo atto; – presentazione per la registrazione entro venti giorni (non vale il maggior termine di 30 giorni dell’invio online) dall’avveramento della condizione sospensiva o dal verificarsi dell’evento ulteriore; – presentazione per la registrazione presso l’ufficio dove è stato registrato il primo atto. Alla presentazione dell’atto ricognitivo, l’Agenzia farà scontare l’imposta di Registro in misura fissa in quanto atto privo di contenuto patrimoniale, generando una compensazione sulle imposte pagate dal notaio, e chiederà una denuncia di avveramento della condizione. Avuta la denuncia da parte del notaio, notificherà alle parti l’avviso di liquidazione dell’imposta proporzionale dovuta e già riscossa. (Fonte: 15/01/2014 – Il Sole 24 Ore – Norme e Tributi, p. 20 – La «condizione» va denunciata – Busani – www.fiscooggi.it – 15/01/2014 – ItaliaOggi, p. 29 – Imposta di registro, snellita la procedura – Rosati – 15/01/2014 – fiscooggi.it – Registro: atto ricognitivo ok se ha i requisiti della denuncia – Mingione – a cura di eDotto S.r.l. – supermercato.it).
giovedì 13 febbraio 2014
Mediazione tributaria MODIFICHE E CHIARIEMNTI 2014
Mediazione tributaria – Modifiche apportate dall’articolo 1,
comma 611, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 –
Chiarimenti
e istruzioni operative
mercoledì 12 febbraio 2014
Associazione in partecipazione. È dipendente se calcolato sui ricavi lordi
La Cassazione torna a pronunciarsi circa la distinzione tra associazione in partecipazione e lavoro dipendente
Premessa -
La Corte suprema di Cassazione, con sentenza n. 26522 del 27 novembre
2013, ha confermato che se la quota dell'associato in partecipazione è
calcolata sui ricavi lordi, il rapporto si configura quale rapporto di
lavoro dipendente e non di lavoro autonomo. Il contratto di associazione
in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte
dell'associato si differenzia rispetto al contratto di lavoro
subordinato con retribuzione collegata agli utili d'impresa per il fatto
che l'elemento essenziale del primo è rappresentato dalla
partecipazione dell'associato al rischio di impresa e alla distribuzione
non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove venga
resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto
dell'organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d'impresa
e senza ingerenza ovvero controllo dell'associato nella gestione
dell'impresa stessa, il rapporto di associazione in partecipazione deve
essere assimilato al rapporto di lavoro dipendente.
La vicenda – La vicenda ha riguardato un’azienda della ristorazione a cui veniva notificata una cartella di pagamento per contributi previdenziali omessi, che a seguito d’ispezione ha visto trasformare due rapporti di associazione in partecipazione in altrettanti rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato con relative sanzioni e richiesta da parte dell’INPS degli arretrati relativi alle differenze contributive. L’azienda proponeva quindi ricorso avverso alla cartella esattoriale emessa dal Concessionario Tributi competente per un importo di circa 20.000 € richiesti dall’INPS sull’assunto che i rapporti di lavoro intercorsi tra l’opponente e due suoi ex dipendenti – qualificati di associazione in partecipazione nei contratti sottoscritti dalle parti – dovessero essere considerati di lavoro subordinato. In prima istanza il Tribunale dava ragione all’azienda, ma successivamente la Corte d’Appello riformava la decisione del Tribunale, rigettando l’opposizione proposta dall’azienda. La Corte d’Appello, nel ritenere la fondatezza della pretesa INPS, evidenziava che:
L’azienda, quindi, ha impugnato la sentenza e ricorreva in Cassazione.
La sentenza – I Giudici della Cassazione rigettano il ricorso depositato sulla base delle seguenti motivazioni:
1. il contratto di associazione in partecipazione è stato giustamente qualificato come contratto di lavoro subordinato in base al fatto che la partecipazione solo ai ricavi e non anche alle perdite era indice di assenza di rischio economico. Pertanto laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale “favore” accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”;
2. il fatto che sul contratto di lavoro sia indicato chiaramente che si tratti di un rapporto di associazione in partecipazione non significa nulla, in quanto era in contrasto con le concrete modalità di svolgimento dello stesso cosi come emerse dall’istruttoria (la pattuizione della partecipazione solo ai ricavi, l’esclusione di qualsiasi effettivo coinvolgimento nella gestione aziendale con un controllo limitato solo ai ricavi, l’inserimento nella organizzazione aziendale);
3. infine non sono ammissibili le motivazioni del ricorso secondo cui sarebbe l’INPS a dover dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e infine che i due lavoratori abbiano dichiarato che si trattasse di associazione in partecipazione, in quanto l’istruttoria ha portato a ritenere presenti i tratti maggiormente tipici del rapporto di lavoro subordinato piuttosto che dell’associazione in partecipazione.
La vicenda – La vicenda ha riguardato un’azienda della ristorazione a cui veniva notificata una cartella di pagamento per contributi previdenziali omessi, che a seguito d’ispezione ha visto trasformare due rapporti di associazione in partecipazione in altrettanti rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato con relative sanzioni e richiesta da parte dell’INPS degli arretrati relativi alle differenze contributive. L’azienda proponeva quindi ricorso avverso alla cartella esattoriale emessa dal Concessionario Tributi competente per un importo di circa 20.000 € richiesti dall’INPS sull’assunto che i rapporti di lavoro intercorsi tra l’opponente e due suoi ex dipendenti – qualificati di associazione in partecipazione nei contratti sottoscritti dalle parti – dovessero essere considerati di lavoro subordinato. In prima istanza il Tribunale dava ragione all’azienda, ma successivamente la Corte d’Appello riformava la decisione del Tribunale, rigettando l’opposizione proposta dall’azienda. La Corte d’Appello, nel ritenere la fondatezza della pretesa INPS, evidenziava che:
- la compartecipazione prevista dai contratti stipulati dalla società appellata era calcolata solo sui ricavi lordi, al netto degli sconti praticati, e non sugli utili;
- non vi era stata alcuna forma di partecipazione dei due lavoratori alla gestione dell’impresa non potendo questa ridursi solo al controllo dei ricavi senza alcuna informazione circa le spese e, più in generale, sulla gestione dell’impresa;
- l’attività dagli stessi svolta si inseriva nell’ambito della organizzazione aziendale ed essi ripetevano dal titolare dell’impresa i poteri di controllo e direzione del lavoro esercitati sugli altri addetti alla sala ristorante-pizzeria.
L’azienda, quindi, ha impugnato la sentenza e ricorreva in Cassazione.
La sentenza – I Giudici della Cassazione rigettano il ricorso depositato sulla base delle seguenti motivazioni:
1. il contratto di associazione in partecipazione è stato giustamente qualificato come contratto di lavoro subordinato in base al fatto che la partecipazione solo ai ricavi e non anche alle perdite era indice di assenza di rischio economico. Pertanto laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale “favore” accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”;
2. il fatto che sul contratto di lavoro sia indicato chiaramente che si tratti di un rapporto di associazione in partecipazione non significa nulla, in quanto era in contrasto con le concrete modalità di svolgimento dello stesso cosi come emerse dall’istruttoria (la pattuizione della partecipazione solo ai ricavi, l’esclusione di qualsiasi effettivo coinvolgimento nella gestione aziendale con un controllo limitato solo ai ricavi, l’inserimento nella organizzazione aziendale);
3. infine non sono ammissibili le motivazioni del ricorso secondo cui sarebbe l’INPS a dover dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e infine che i due lavoratori abbiano dichiarato che si trattasse di associazione in partecipazione, in quanto l’istruttoria ha portato a ritenere presenti i tratti maggiormente tipici del rapporto di lavoro subordinato piuttosto che dell’associazione in partecipazione.
Autore: Redazione Fiscal Focus
Studi di settore e accertamento
Studi di settore. KO tecnico per il Fisco
L’Ufficio deve spiegare perché ha disatteso le giustificazioni del contribuente, altrimenti l’accertamento è illegittimo
Secondo
la Commissione Tributaria Regionale della Toscana (sentenza n.
135/25/13 depositata il 18 dicembre 2013), deve essere annullato
l'avviso di accertamento nel quale non si è dato conto delle circostanze
addotte dal contribuente nel contraddittorio preventivo.
Il caso. La controversia trae origine da un accertamento di maggiori ricavi a carico di una società in nome collettivo.
In sede di contraddittorio preventivo la società aveva addotto, quali elementi di fatto incidenti sulla capacità reddituale, i motivi di salute che avevano ridotto l’apporto di lavoro di uno dei due soci e l'esistenza di una causa civile che aveva bloccato un’importante commessa. Come rilevato dal collegio gigliato, nessuno di questi due elementi è stato adeguatamente considerato nell’elaborazione dell'avviso di accertamento oggetto d’impugnazione, sicché l’atto impositivo è stato annullato per palese violazione dei principi generali del giusto procedimento.
La motivazione dell’avviso. Secondo indirizzo costante della giurisprudenza di legittimità, osserva il Giudice toscano, quando il contribuente partecipa al contraddittorio preventivo deducendo la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standard” o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo in esame, la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente (ex multis Cass. SS.UU. n. 26638/2009).
La specifica realtà economica. Gli studi di settore, infatti, non sono altro che un’elaborazione statistica che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice. Ne deriva che la procedura di accertamento standardizzato, basata sugli studi di settore, non può esimersi dall'esaminare la situazione concreta nella quale il contribuente svolge la sua attività; e il momento nel quale tale esame deve essere compiuto è indubbiamente il contraddittorio preventivo, in ossequio al principio del giusto processo e della prassi amministrativa. Altrimenti lo studio di settore si trasformerebbe da mezzo di accertamento in mezzo di determinazione del reddito “con una illegittima compressione dei diritti emergenti dagli articoli 3, 24 e 53 della Costituzione” (SS.UU. n. 26638/2009 cit.).
Il Fisco paga le spese. Ebbene, nel caso esaminato, l’Amministrazione Finanziaria non si è attenuta a nessuno dei principi sopra richiamati e tale comportamento ha inficiato irrimediabilmente l’accertamento a carico della società. Di conseguenza, l’appello di quest’ultima è stato accolto, con condanna dell’Ufficio procedente al pagamento delle spese processuali che, per entrambi i gradi di giudizio, sono state quantificate in duemila euro oltre eventuali accessori di legge.
Il caso. La controversia trae origine da un accertamento di maggiori ricavi a carico di una società in nome collettivo.
In sede di contraddittorio preventivo la società aveva addotto, quali elementi di fatto incidenti sulla capacità reddituale, i motivi di salute che avevano ridotto l’apporto di lavoro di uno dei due soci e l'esistenza di una causa civile che aveva bloccato un’importante commessa. Come rilevato dal collegio gigliato, nessuno di questi due elementi è stato adeguatamente considerato nell’elaborazione dell'avviso di accertamento oggetto d’impugnazione, sicché l’atto impositivo è stato annullato per palese violazione dei principi generali del giusto procedimento.
La motivazione dell’avviso. Secondo indirizzo costante della giurisprudenza di legittimità, osserva il Giudice toscano, quando il contribuente partecipa al contraddittorio preventivo deducendo la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standard” o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo in esame, la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente (ex multis Cass. SS.UU. n. 26638/2009).
La specifica realtà economica. Gli studi di settore, infatti, non sono altro che un’elaborazione statistica che, per quanto seriamente approssimata, può solo costituire una presunzione semplice. Ne deriva che la procedura di accertamento standardizzato, basata sugli studi di settore, non può esimersi dall'esaminare la situazione concreta nella quale il contribuente svolge la sua attività; e il momento nel quale tale esame deve essere compiuto è indubbiamente il contraddittorio preventivo, in ossequio al principio del giusto processo e della prassi amministrativa. Altrimenti lo studio di settore si trasformerebbe da mezzo di accertamento in mezzo di determinazione del reddito “con una illegittima compressione dei diritti emergenti dagli articoli 3, 24 e 53 della Costituzione” (SS.UU. n. 26638/2009 cit.).
Il Fisco paga le spese. Ebbene, nel caso esaminato, l’Amministrazione Finanziaria non si è attenuta a nessuno dei principi sopra richiamati e tale comportamento ha inficiato irrimediabilmente l’accertamento a carico della società. Di conseguenza, l’appello di quest’ultima è stato accolto, con condanna dell’Ufficio procedente al pagamento delle spese processuali che, per entrambi i gradi di giudizio, sono state quantificate in duemila euro oltre eventuali accessori di legge.
Autore: Redazione Fiscal Focus
martedì 11 febbraio 2014
TRASPORTO PASSEGGERI FATTURAZIONE ATTIVA
TRASPORTO PASSEGGERI
FATTURAZIONE ATTIVA
delle prestazioni effettuate
( Sia a privati
cittadini che a società/soggetti passivi
Iva )
1.
TRASPORTI NAZIONALI con
partenza e arrivo in Italia, tratta tutta italiana,
( art. 7 quater DPR n. 633/72):
imponibile Iva al 10 % indipendentemente
dal committente ( italiano-europeo-extraCee);
2.
TRASPORTI INTERNAZIONALI DI PASSEGGERI
( non
imponibile art. 9 DPR n. 633/72)
Per
viaggi, eseguiti in parte in Italia e in parte all’estero, indipendentemente
dal committente e cioè sia da privati cittadini, che
commissionati da committenti italiani ( titolari di partita IVA ) e/o
comunitari ed extraUe ( titolari di partita IVA di cui bisogna controllarne
l’esistenza e l’esattezza nonchè esporla in fattura ), in dipendenza di un unico contratto,
la
fattura, non imponibile, si compone di
due parti e va distinta PER KM come segue:
percorrenza
Km
eseguito all’estero: fuori campo IVA art.7 quater DPR n. 633/72
percorrenza
Km in Italia : non imponibile art. 9 DPR
633/72
Si rimane a disposizione per ogni
chiarimento.
giovedì 6 febbraio 2014
Crediti PA: dopo il modello ecco il codice tributo
Crediti PA: dopo il modello ecco il codice tributo
Potrà essere utilizzato dai contribuenti per compensare le somme dovute in base agli istituti definitori della pretesa tributaria e deflativi del contenzioso
Risoluzione 16/E - L’Agenzia
delle Entrate, con la risoluzione 16/E del 4 febbraio 2014, ha
istituito il codice tributo “PPAA” per l’utilizzo in compensazione,
tramite il nuovo modello “F24 Crediti PP.AA.” da poco approvato, dei
crediti nei confronti di Pubbliche Amministrazioni, ai sensi
dell’articolo 28-quinquies del decreto del Presidente della Repubblica
29 settembre 1973, n. 602. Il codice dovrà essere utilizzato dai
contribuenti che vantano crediti certificati (non prescritti, certi, liquidi ed esigibili), maturati entro il 31 dicembre 2012, nei confronti di Pubbliche amministrazioni (Stato,
enti pubblici nazionali, Regioni e Province autonome di Trento e
Bolzano, Amministrazioni locali ed enti del Servizio sanitario nazionale), per somministrazioni, forniture e appalti, per compensare i debiti da accertamento (nella tabella allegata al D.M. del 14 gennaio 2014 sono elencati i codici tributo relativi alle somme compensabili).
Il nuovo modello F24 – Il codice va riportato nel nuovo modello “F24 Crediti PP.AA.”, approvato lo scorso 31 gennaio, per consentire l’utilizzo dei crediti in compensazione delle somme dovute in caso di accertamento con adesione, adesione al processo verbale di constatazione, adesione agli inviti a comparire, acquiescenza, definizione agevolata delle sanzioni, conciliazione giudiziale e mediazione. L’operazione deve avvenire esclusivamente in modalità telematica attraverso i servizi dell’Agenzia delle Entrate.
Utilizzo del codice - Il codice tributo “PPAA” va riportato, nella sezione “Erario” del modello di pagamento, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a credito compensati”. Nel campo “numero certificazione credito” va inserito il numero della certificazione del credito attribuito dalla piattaforma elettronica, gestita dal dipartimento della Ragioneria generale dello Stato. Nel campo “anno di riferimento” non va evidenziato nessun valore.
Buon fine dei pagamenti - Perché i pagamenti vadano a buon fine, occorre che tutte le condizioni previste dall’articolo 3, comma 1, del D.M. 14 gennaio 2014 risultino rispettate. I crediti devono risultare da certificazione rilasciata dalla citata piattaforma, e non essere stati già pagati dalla PA o impiegati per altre finalità, la certificazione deve recare la data di pagamento del credito certificato, il titolare del debito tributario e titolare del credito devono coincidere, nell’F24 telematico non devono esserci altri pagamenti, diversi da quelli identificati dai codici riportati nella tabella, l’utilizzo nello stesso F24 di eventuali altri crediti, diversi da quelli certificati, deve essere conforme alle norme sul controllo preventivo delle compensazioni tramite F24, l’addebito dell’eventuale saldo positivo dell’F24 telematico, deve essere andato a buon fine. Il mancato rispetto anche di una sola delle condizioni richieste, comporta che tutti i pagamenti effettuati nel modello sono considerati come non avvenuti, e chi ha trasmesso l’F24 viene informato di tale circostanza tramite una ricevuta consultabile sul sito dell’Agenzia delle Entrate sempre attraverso i servizi telematici.
Il nuovo modello F24 – Il codice va riportato nel nuovo modello “F24 Crediti PP.AA.”, approvato lo scorso 31 gennaio, per consentire l’utilizzo dei crediti in compensazione delle somme dovute in caso di accertamento con adesione, adesione al processo verbale di constatazione, adesione agli inviti a comparire, acquiescenza, definizione agevolata delle sanzioni, conciliazione giudiziale e mediazione. L’operazione deve avvenire esclusivamente in modalità telematica attraverso i servizi dell’Agenzia delle Entrate.
Utilizzo del codice - Il codice tributo “PPAA” va riportato, nella sezione “Erario” del modello di pagamento, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a credito compensati”. Nel campo “numero certificazione credito” va inserito il numero della certificazione del credito attribuito dalla piattaforma elettronica, gestita dal dipartimento della Ragioneria generale dello Stato. Nel campo “anno di riferimento” non va evidenziato nessun valore.
Buon fine dei pagamenti - Perché i pagamenti vadano a buon fine, occorre che tutte le condizioni previste dall’articolo 3, comma 1, del D.M. 14 gennaio 2014 risultino rispettate. I crediti devono risultare da certificazione rilasciata dalla citata piattaforma, e non essere stati già pagati dalla PA o impiegati per altre finalità, la certificazione deve recare la data di pagamento del credito certificato, il titolare del debito tributario e titolare del credito devono coincidere, nell’F24 telematico non devono esserci altri pagamenti, diversi da quelli identificati dai codici riportati nella tabella, l’utilizzo nello stesso F24 di eventuali altri crediti, diversi da quelli certificati, deve essere conforme alle norme sul controllo preventivo delle compensazioni tramite F24, l’addebito dell’eventuale saldo positivo dell’F24 telematico, deve essere andato a buon fine. Il mancato rispetto anche di una sola delle condizioni richieste, comporta che tutti i pagamenti effettuati nel modello sono considerati come non avvenuti, e chi ha trasmesso l’F24 viene informato di tale circostanza tramite una ricevuta consultabile sul sito dell’Agenzia delle Entrate sempre attraverso i servizi telematici.
Omesse ritenute. Condanna in tempo di crisi
Cassazione Penale sentenza del 4 febbraio 2014
In
tema di reati fiscali, la crisi di liquidità dell’azienda non vale
un’assoluzione: l’imprenditore ha l’obbligo di accantonare l’imposta per
far fronte all’obbligazione tributaria nel termine di legge. È quanto
emerge dalla sentenza 4 febbraio 2014 n. 5477 della Corte di Cassazione,
Terza Sezione Penale.
Il caso. Gli Ermellini hanno reso definitiva la condanna alla pena di mesi quattro di reclusione inflitta a un’imprenditrice leccese per reato di cui all’articolo 10 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000. L’imputata aveva versato in ritardo le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti per un ammontare di 51.918 euro per il periodo d’imposta 2005. Ad avviso della Corte d’appello, l’addebito non poteva ritenersi escluso, per difetto del dolo o per forza maggiore, in considerazione del fatto che la condotta omissiva era stata generata da carenza di liquidità, a sua volta provocata dall’inadempienza dell’ASL nel pagamento di somme di cui era creditrice la società. In altre parole, la condotta omissiva contestata all’imputata, contrariamente agli assunti della difesa, non poteva essere giustificata dall’esistenza di ingenti crediti verso una pubblica amministrazione, poiché lo stato di dissesto dell’impresa, la quale prosegua l’attività senza adempiere l’obbligazione tributaria, non esonera dall’adempimento tributario che è indipendente dalle vicissitudini finanziarie dell’imprenditore.
Conferma della responsabilità. Ebbene, la severa interpretazione del quadro normativo di riferimento offerta dal giudice di merito è stata avvalorata dalla Terza Sezione Penale del Palazzaccio. Nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, afferma la S.C., la prova del dolo è insita nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale (mod. 770), che riporta le trattenute effettuate. Il debito verso l’Erario, concernente il versamento delle ritenute, è collegato con quello dell’erogazione degli emolumenti ai collaboratori. Ogni qual volta il sostituto d’imposta provvede alle erogazioni, sorge a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute al Fisco, organizzando le ricorse disponibili in modo da adempiere all’obbligazione tributaria. Ciò non toglie che il giudice del merito possa, con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ravvisare l’assenza del dolo e l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione erariale. Occorre tuttavia che siano stati assolti gli oneri di allegazioni che, per quanto attiene la crisi di liquidità, si risolvono nella dimostrazione della non imputabilità all’imprenditore della crisi economica e che la crisi stessa non ha potuto essere fronteggiata adeguatamente tramite il ricorso a idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè dimostrare, puntualizza la S.C., “che non sia stato possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo poste in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili”.
Somme distolte dalla loro destinazione specifica. Nel caso di specie, osservano gli Ermellini, l’imputata non ha minimamente osservato gli oneri di allegazioni a suo carico, il che ha consentito alla Corte d’appello di ritenere violato il predetto obbligo di accontamento delle somme dovute all’Erario. E infatti non è risultato che il pagamento in ritardo delle ritenute sia avvenuto in virtù di crediti liquidi ed esigibili in precedenza non riscossi; non è stata dimostrata la natura dei crediti vantati; non è stata dimostrata l’improvvisa crisi di liquidità, che invece è apparsa consolidata dai bilanci di esercizio prodotti e richiamati nel ricorso; non è stato dimostrato che la ricorrente avesse organizzato le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria né che si sia altrimenti attivata per assolverla, “essendosi invece appropriata – si legge in sentenza – delle somme che avrebbe dovuto accantonare distogliendole dalla loro specifica destinazione”. Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dell’imputata, condannandola al pagamento delle spese processuali.
Il caso. Gli Ermellini hanno reso definitiva la condanna alla pena di mesi quattro di reclusione inflitta a un’imprenditrice leccese per reato di cui all’articolo 10 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000. L’imputata aveva versato in ritardo le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti per un ammontare di 51.918 euro per il periodo d’imposta 2005. Ad avviso della Corte d’appello, l’addebito non poteva ritenersi escluso, per difetto del dolo o per forza maggiore, in considerazione del fatto che la condotta omissiva era stata generata da carenza di liquidità, a sua volta provocata dall’inadempienza dell’ASL nel pagamento di somme di cui era creditrice la società. In altre parole, la condotta omissiva contestata all’imputata, contrariamente agli assunti della difesa, non poteva essere giustificata dall’esistenza di ingenti crediti verso una pubblica amministrazione, poiché lo stato di dissesto dell’impresa, la quale prosegua l’attività senza adempiere l’obbligazione tributaria, non esonera dall’adempimento tributario che è indipendente dalle vicissitudini finanziarie dell’imprenditore.
Conferma della responsabilità. Ebbene, la severa interpretazione del quadro normativo di riferimento offerta dal giudice di merito è stata avvalorata dalla Terza Sezione Penale del Palazzaccio. Nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, afferma la S.C., la prova del dolo è insita nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale (mod. 770), che riporta le trattenute effettuate. Il debito verso l’Erario, concernente il versamento delle ritenute, è collegato con quello dell’erogazione degli emolumenti ai collaboratori. Ogni qual volta il sostituto d’imposta provvede alle erogazioni, sorge a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute al Fisco, organizzando le ricorse disponibili in modo da adempiere all’obbligazione tributaria. Ciò non toglie che il giudice del merito possa, con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ravvisare l’assenza del dolo e l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione erariale. Occorre tuttavia che siano stati assolti gli oneri di allegazioni che, per quanto attiene la crisi di liquidità, si risolvono nella dimostrazione della non imputabilità all’imprenditore della crisi economica e che la crisi stessa non ha potuto essere fronteggiata adeguatamente tramite il ricorso a idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè dimostrare, puntualizza la S.C., “che non sia stato possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo poste in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili”.
Somme distolte dalla loro destinazione specifica. Nel caso di specie, osservano gli Ermellini, l’imputata non ha minimamente osservato gli oneri di allegazioni a suo carico, il che ha consentito alla Corte d’appello di ritenere violato il predetto obbligo di accontamento delle somme dovute all’Erario. E infatti non è risultato che il pagamento in ritardo delle ritenute sia avvenuto in virtù di crediti liquidi ed esigibili in precedenza non riscossi; non è stata dimostrata la natura dei crediti vantati; non è stata dimostrata l’improvvisa crisi di liquidità, che invece è apparsa consolidata dai bilanci di esercizio prodotti e richiamati nel ricorso; non è stato dimostrato che la ricorrente avesse organizzato le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria né che si sia altrimenti attivata per assolverla, “essendosi invece appropriata – si legge in sentenza – delle somme che avrebbe dovuto accantonare distogliendole dalla loro specifica destinazione”. Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dell’imputata, condannandola al pagamento delle spese processuali.
Ganasce fiscali illegittime. No al risarcimento
Cassazione Civile ordinanza del 4 febbraio 2014
Resta
a bocca asciutta il contribuente che non ha dimostrato i pregiudizi di
carattere patrimoniale provocati dal fermo amministrativo illegittimo.
La tutela risarcitoria non può essere accordata neanche per gli
sconvolgimenti della quotidianità consistenti in disagi, ansie e
insoddisfazioni. È quanto emerge dall’ordinanza 4 febbraio 2014 n. 2370
della Corte di Cassazione, Sesta Sezione Civile.
Il caso. Gli Ermellini hanno respinto il ricorso di una cittadina che ha lamentato l’illegittimità di un provvedimento di fermo amministrativo notificatole da Equitalia, chiedendo, al contempo, il risarcimento del danno, quantificato in mille euro. Il Giudice di Pace, prima, e il Tribunale, poi, hanno dichiarato il proprio difetto di giurisdizione rispetto al fermo, ma non in merito alla domanda risarcitoria, che è stata comunque rigettata.
Mancanza assoluta della prova del danno. Con riguardo al preteso danno, la S.C. ha ritenuto manifestamente infondati i motivi denunciati con il ricorso, alla luce del duplice ordine di considerazione svolte dal Tribunale, laddove evidenzia, quanto al danno materiale, che l’attrice “non ha fornito alcuna prova e neppure allegato di avere risentito pregiudizi di carattere patrimoniale, in termini di danno emergente o di mancato guadagno” e, quanto al danno non patrimoniale, la non meritevolezza di tutela dal danno da “stress”.
Secondo la parte ricorrente, il giudice di merito non ha tenuto conto che l’illegittimo fermo amministrativo aveva prodotto la lesione di due diritti costituzionalmente protetti, quali il diritto alla proprietà e quello alla salute. Tuttavia, a fronte di tale lamentela, rileva la Suprema Corte, la difesa non ha allegato o dimostrato di avere offerto in sede di merito elementi idonei ad apprezzare, sia pure con una valutazione “equitativa”, il danno patrimoniale asseritamente subito; è stato infatti descritto soltanto il danno non patrimoniale, ma in termini “insuscettibili di essere monetizzati, siccome inquadrabili in quegli sconvolgimenti della quotidianità consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie e in ogni altro di insoddisfazione” (cosiddetti bagatellari) ritenuti dalle Sezioni Unite non meritevoli di tutela risarcitoria (sentenza n. 26972 del 2008).
Gli Ermellini ricordano, tra l’altro, che “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli articoli 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., dà luogo, non già a un giudizio di equità, ma a un giudizio di diritto, caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o integrativa, che, pertanto, da un lato, è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno” (cfr. Cass. n. 13288 del 2007).
Condanna alle spese. In conclusione, il Collegio di legittimità ha respinto il ricorso, rendendo definitivo il verdetto del Tribunale. Alla ricorrente non resta che pagare le spese di lite, liquidate in mille euro.
Il caso. Gli Ermellini hanno respinto il ricorso di una cittadina che ha lamentato l’illegittimità di un provvedimento di fermo amministrativo notificatole da Equitalia, chiedendo, al contempo, il risarcimento del danno, quantificato in mille euro. Il Giudice di Pace, prima, e il Tribunale, poi, hanno dichiarato il proprio difetto di giurisdizione rispetto al fermo, ma non in merito alla domanda risarcitoria, che è stata comunque rigettata.
Mancanza assoluta della prova del danno. Con riguardo al preteso danno, la S.C. ha ritenuto manifestamente infondati i motivi denunciati con il ricorso, alla luce del duplice ordine di considerazione svolte dal Tribunale, laddove evidenzia, quanto al danno materiale, che l’attrice “non ha fornito alcuna prova e neppure allegato di avere risentito pregiudizi di carattere patrimoniale, in termini di danno emergente o di mancato guadagno” e, quanto al danno non patrimoniale, la non meritevolezza di tutela dal danno da “stress”.
Secondo la parte ricorrente, il giudice di merito non ha tenuto conto che l’illegittimo fermo amministrativo aveva prodotto la lesione di due diritti costituzionalmente protetti, quali il diritto alla proprietà e quello alla salute. Tuttavia, a fronte di tale lamentela, rileva la Suprema Corte, la difesa non ha allegato o dimostrato di avere offerto in sede di merito elementi idonei ad apprezzare, sia pure con una valutazione “equitativa”, il danno patrimoniale asseritamente subito; è stato infatti descritto soltanto il danno non patrimoniale, ma in termini “insuscettibili di essere monetizzati, siccome inquadrabili in quegli sconvolgimenti della quotidianità consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie e in ogni altro di insoddisfazione” (cosiddetti bagatellari) ritenuti dalle Sezioni Unite non meritevoli di tutela risarcitoria (sentenza n. 26972 del 2008).
Gli Ermellini ricordano, tra l’altro, che “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli articoli 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., dà luogo, non già a un giudizio di equità, ma a un giudizio di diritto, caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva o integrativa, che, pertanto, da un lato, è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno” (cfr. Cass. n. 13288 del 2007).
Condanna alle spese. In conclusione, il Collegio di legittimità ha respinto il ricorso, rendendo definitivo il verdetto del Tribunale. Alla ricorrente non resta che pagare le spese di lite, liquidate in mille euro.
Bilancio: rinvio approvazione
Il ruolo degli amministratori nella proroga a 180 giorni dell’approvazione del bilancio
Premessa –
Le società non quotate hanno, ai sensi di quanto prevede l’art. 2364
del c.c., la possibilità di rinviare l’approvazione del bilancio a 180
giorni dalla chiusura dell’esercizio (termine più lungo rispetto
all’ordinario di 120 gg.). Il Consiglio di Amministrazione o
l’amministratore unico è l’organo adibito a verificare la presenza dei
presupposti per fruire del maggior termine.
Proroga - Lo statuto può prevedere un maggior termine di approvazione del bilancio, comunque non superiore a centottanta giorni, nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato e quando lo richiedano particolari esigenze relative alla struttura ed all’oggetto della società.
Le esigenze - Grossi dubbi interpretativi possono derivare dalla valutazione delle “particolari esigenze”, relative alla struttura ed all’oggetto della società, idonee a legittimare gli amministratori ad avvalersi della proroga del termine ordinario fissato per la convocazione assembleare o della presentazione del bilancio della società a responsabilità limitata. A questo proposito, si osservi che la norma, con l’utilizzo della congiunzione “ed”, sembra richiedere che i due fattori riconducibili alla struttura e all’oggetto debbano essere contemporaneamente presenti nel generare le situazioni che giustificano la dilazione. L’interpretazione letterale non sembra, tuttavia, condivisibile: si dovrebbe, invece, ritenere i due fattori tra di loro alternativi, attribuendo, quindi, alla congiunzione “ed” una funzione elencativa e non, invece, congiuntiva.
Situazioni complementari - È ammessa la possibilità che le caratteristiche indicate dalla legge (struttura e oggetto sociale) vengano lette non congiuntamente, ma come situazioni tra loro complementari: la proroga dovrebbe ritenersi consentita in presenza di ragioni connesse, in modo stabile e non occasionale, con l’organizzazione dell’impresa, dunque con le modalità di svolgimento (struttura) dell’attività aziendale (oggetto), più che con il tipo di attività esercitata.
Consiglio Notatile di Milano - La Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano, nella massima n. 15/2003, ha osservato che “queste particolari esigenze” possono configurare situazioni sia straordinarie, con riguardo alla struttura, che ripetitive e fisiologiche con riferimento all’oggetto. Per quanto concerne quest’ultimo, è da intendersi l’attività in concreto esercitata, la cui possibile particolarità può generare difficoltà di ordine contabile: attesa la puntuale formulazione dell’art. 2364, comma 2, c.c., non può, invece, essere invocata la proroga a causa delle “incertezze normative”.
Accertamento degli amministratori - I motivi della proroga devono essere accertati dagli amministratori e dagli stessi segnalati nella relazione sulla gestione oppure, nel caso di redazione del bilancio d’esercizio in forma abbreviata, nella nota integrativa. A tale proposito, il Tribunale di Isernia, con la sentenza del 19 aprile 2006, n. 247, ha precisato che le particolari esigenze cui la legge fa riferimento non devono essere indicate esclusivamente nella relazione sulla gestione, dovendo invece risultare “facilmente riscontrabili dall’esame del bilancio da approvare”. In particolare, è ritenuto “utile commentare nella nota integrativa, ove possibile, le poste che hanno avuto una stretta relazione con la proroga dei termini”, anche nel caso della società che redige un bilancio d’esercizio in forma ordinaria.
Proroga - Lo statuto può prevedere un maggior termine di approvazione del bilancio, comunque non superiore a centottanta giorni, nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato e quando lo richiedano particolari esigenze relative alla struttura ed all’oggetto della società.
Le esigenze - Grossi dubbi interpretativi possono derivare dalla valutazione delle “particolari esigenze”, relative alla struttura ed all’oggetto della società, idonee a legittimare gli amministratori ad avvalersi della proroga del termine ordinario fissato per la convocazione assembleare o della presentazione del bilancio della società a responsabilità limitata. A questo proposito, si osservi che la norma, con l’utilizzo della congiunzione “ed”, sembra richiedere che i due fattori riconducibili alla struttura e all’oggetto debbano essere contemporaneamente presenti nel generare le situazioni che giustificano la dilazione. L’interpretazione letterale non sembra, tuttavia, condivisibile: si dovrebbe, invece, ritenere i due fattori tra di loro alternativi, attribuendo, quindi, alla congiunzione “ed” una funzione elencativa e non, invece, congiuntiva.
Situazioni complementari - È ammessa la possibilità che le caratteristiche indicate dalla legge (struttura e oggetto sociale) vengano lette non congiuntamente, ma come situazioni tra loro complementari: la proroga dovrebbe ritenersi consentita in presenza di ragioni connesse, in modo stabile e non occasionale, con l’organizzazione dell’impresa, dunque con le modalità di svolgimento (struttura) dell’attività aziendale (oggetto), più che con il tipo di attività esercitata.
Consiglio Notatile di Milano - La Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano, nella massima n. 15/2003, ha osservato che “queste particolari esigenze” possono configurare situazioni sia straordinarie, con riguardo alla struttura, che ripetitive e fisiologiche con riferimento all’oggetto. Per quanto concerne quest’ultimo, è da intendersi l’attività in concreto esercitata, la cui possibile particolarità può generare difficoltà di ordine contabile: attesa la puntuale formulazione dell’art. 2364, comma 2, c.c., non può, invece, essere invocata la proroga a causa delle “incertezze normative”.
Accertamento degli amministratori - I motivi della proroga devono essere accertati dagli amministratori e dagli stessi segnalati nella relazione sulla gestione oppure, nel caso di redazione del bilancio d’esercizio in forma abbreviata, nella nota integrativa. A tale proposito, il Tribunale di Isernia, con la sentenza del 19 aprile 2006, n. 247, ha precisato che le particolari esigenze cui la legge fa riferimento non devono essere indicate esclusivamente nella relazione sulla gestione, dovendo invece risultare “facilmente riscontrabili dall’esame del bilancio da approvare”. In particolare, è ritenuto “utile commentare nella nota integrativa, ove possibile, le poste che hanno avuto una stretta relazione con la proroga dei termini”, anche nel caso della società che redige un bilancio d’esercizio in forma ordinaria.
La moratoria nei contratti di leasing
Gli effetti in bilancio, secondo il Cndcec
Premessa –
L’iscrizione in bilancio dei canoni di leasing, secondo il principio di
competenza, è indipendente dalla durata della vita utile economica del
bene oggetto del contratto di locazione finanziaria, per questo motivo
in caso di moratoria si avrà una rimodulazione della ripartizione dei
costi dell’operazione, lungo il nuovo periodo di durata del contratto.
Leasing in bilancio – La rappresentazione nel bilancio d’esercizio, redatto secondo le disposizioni del codice civile e in ossequio ai principi contabili nazionali Oic, dell’operazione di leasing è effettuata secondo il metodo patrimoniale, imputando a conto economico, alla voce B)8), tra i costi per godimento di beni di terzi, i canoni di competenza dell’esercizio (quota capitale e interessi), ed esponendo nei conti d’ordine l’impegno per le rate a scadere previste dal contratto. Il bene oggetto dell’operazione di leasing verrà, pertanto, iscritto nell’attivo dello stato patrimoniale soltanto a seguito dell’eventuale esercizio dell’opzione di riscatto, per il corrispondente valore del diritto, e successivamente ammortizzato come bene usato. Gli effetti che sarebbero derivati dall’applicazione del metodo finanziario devono, invece, essere riportati nell’apposita sezione della nota integrativa al bilancio d’esercizio (art. 2427, comma 1, n. 22), c.c.).
Moratoria - Qualora il contratto di locazione finanziaria abbia formato oggetto di una moratoria, ovvero un accordo di sospensione, per alcuni mesi, del pagamento della quota capitale e/o interessi, il comportamento da assumere, in sede di redazione del bilancio, può essere agevolmente desunto dal documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili del 16 febbraio 2011.
Documento Cndcec - Il documento ha esaminato, in particolare, la sospensione del pagamento della quota capitale dei contratti di locazione finanziaria, soffermandosi sui corrispondenti effetti contabili e di rappresentazione in bilancio. In primo luogo, è stato ribadito che l’adesione all’istituto della sospensione del pagamento della quota capitale comporta, a fronte di maggiori oneri a carico dell’utilizzatore del bene (c.d. locatario), un allungamento della durata del contratto, con la conseguente postergazione del momento a decorrere dal quale è esercitabile l’opzione per l’esercizio del riscatto del bene che forma oggetto della locazione finanziaria.
Traslazione del piano originario - In altri termini, si verifica una sorta di traslazione dell’originario piano di ammortamento, per un periodo pari a quello della moratoria: le quote capitale sospese emergeranno, quindi, soltanto dopo la scadenza dell’ultima rata originaria, incidendo altresì sulla corretta determinazione dei canoni da imputare al conto economico di competenza. Gli oneri finanziari continueranno, invece, a maturare secondo le iniziali condizioni contrattuali.
Durata - Sotto il profilo contabile, il documento del Cndcec ribadisce che l’iscrizione in bilancio dei canoni di leasing, secondo il principio di competenza, è indipendente dalla durata della vita utile economica del bene oggetto del contratto di locazione finanziaria. Con l’effetto che, nel caso di adesione alla moratoria, deve ritenersi corretta la rimodulazione della ripartizione dei costi dell’operazione, lungo il nuovo periodo di durata del contratto, a partire dalla data di accesso al beneficio. In altri termini, l’impresa utilizzatrice deve provvedere a rideterminare, in base al modificato orizzonte temporale, gli oneri di competenza dell’esercizio imputabili al godimento di beni di terzi, comprensivi delle rate di leasing ancora dovute, degli interessi maturati nel periodo di moratoria e della parte dell’eventuale maxicanone residuo.
Bozza Oic - L’orientamento in parola conferma, pertanto, quanto già riportato nella bozza del principio contabile Oic riguardante la ristrutturazione del debito e l’informativa di bilancio: “si deve provvedere ad una nuova rimodulazione dell’imputazione a conto economico dei canoni di leasing residui posticipati al termine del periodo di sospensione e dell’eventuale maxicanone pattuito (…) in base al principio di competenza pro-rata temporis considerando la maggior durata del contratto”.
Leasing in bilancio – La rappresentazione nel bilancio d’esercizio, redatto secondo le disposizioni del codice civile e in ossequio ai principi contabili nazionali Oic, dell’operazione di leasing è effettuata secondo il metodo patrimoniale, imputando a conto economico, alla voce B)8), tra i costi per godimento di beni di terzi, i canoni di competenza dell’esercizio (quota capitale e interessi), ed esponendo nei conti d’ordine l’impegno per le rate a scadere previste dal contratto. Il bene oggetto dell’operazione di leasing verrà, pertanto, iscritto nell’attivo dello stato patrimoniale soltanto a seguito dell’eventuale esercizio dell’opzione di riscatto, per il corrispondente valore del diritto, e successivamente ammortizzato come bene usato. Gli effetti che sarebbero derivati dall’applicazione del metodo finanziario devono, invece, essere riportati nell’apposita sezione della nota integrativa al bilancio d’esercizio (art. 2427, comma 1, n. 22), c.c.).
Moratoria - Qualora il contratto di locazione finanziaria abbia formato oggetto di una moratoria, ovvero un accordo di sospensione, per alcuni mesi, del pagamento della quota capitale e/o interessi, il comportamento da assumere, in sede di redazione del bilancio, può essere agevolmente desunto dal documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili del 16 febbraio 2011.
Documento Cndcec - Il documento ha esaminato, in particolare, la sospensione del pagamento della quota capitale dei contratti di locazione finanziaria, soffermandosi sui corrispondenti effetti contabili e di rappresentazione in bilancio. In primo luogo, è stato ribadito che l’adesione all’istituto della sospensione del pagamento della quota capitale comporta, a fronte di maggiori oneri a carico dell’utilizzatore del bene (c.d. locatario), un allungamento della durata del contratto, con la conseguente postergazione del momento a decorrere dal quale è esercitabile l’opzione per l’esercizio del riscatto del bene che forma oggetto della locazione finanziaria.
Traslazione del piano originario - In altri termini, si verifica una sorta di traslazione dell’originario piano di ammortamento, per un periodo pari a quello della moratoria: le quote capitale sospese emergeranno, quindi, soltanto dopo la scadenza dell’ultima rata originaria, incidendo altresì sulla corretta determinazione dei canoni da imputare al conto economico di competenza. Gli oneri finanziari continueranno, invece, a maturare secondo le iniziali condizioni contrattuali.
Durata - Sotto il profilo contabile, il documento del Cndcec ribadisce che l’iscrizione in bilancio dei canoni di leasing, secondo il principio di competenza, è indipendente dalla durata della vita utile economica del bene oggetto del contratto di locazione finanziaria. Con l’effetto che, nel caso di adesione alla moratoria, deve ritenersi corretta la rimodulazione della ripartizione dei costi dell’operazione, lungo il nuovo periodo di durata del contratto, a partire dalla data di accesso al beneficio. In altri termini, l’impresa utilizzatrice deve provvedere a rideterminare, in base al modificato orizzonte temporale, gli oneri di competenza dell’esercizio imputabili al godimento di beni di terzi, comprensivi delle rate di leasing ancora dovute, degli interessi maturati nel periodo di moratoria e della parte dell’eventuale maxicanone residuo.
Bozza Oic - L’orientamento in parola conferma, pertanto, quanto già riportato nella bozza del principio contabile Oic riguardante la ristrutturazione del debito e l’informativa di bilancio: “si deve provvedere ad una nuova rimodulazione dell’imputazione a conto economico dei canoni di leasing residui posticipati al termine del periodo di sospensione e dell’eventuale maxicanone pattuito (…) in base al principio di competenza pro-rata temporis considerando la maggior durata del contratto”.
Il Bilancio finale di liquidazione
Facoltativo il conto economico riferito all’intero periodo di liquidazione
La fase terminale della procedura di liquidazione è rappresentata dalla redazione e sottoscrizione, a cura dei liquidatori, del bilancio finale di liquidazione. I co. 1 e 2, dell’art. 2492,
cod. civ., dispongono che “i liquidatori devono redigere e
sottoscrivere il bilancio finale, che si compone di due distinti
elementi: i) il bilancio finale in senso stretto; ii) il piano o prospetto di riparto. Le
norme civiliste non forniscono indicazioni in merito alla composizione
dei suddetti documenti. Tale lacuna è colmata dal principio contabile
OIC 5, intitolato “Bilanci di liquidazione”.
Il bilancio finale in senso stretto - Il bilancio finale di liquidazione in senso stretto, secondo quanto precisato dall’OIC 5, deve contenere: i) uno stato patrimoniale; ii) un conto economico relativo al periodo che intercorre fra l’inizio dell’ultimo esercizio e la data di compimento della liquidazione; iii) una nota integrativa; iv) gli allegati: relazione dei liquidatori, le relazioni del collegio sindacale e del revisore esterno incaricato del controllo contabile.
Secondo le indicazioni fornite dal principio contabile OIC 5, potrà inoltre essere aggiunto, facoltativamente, un Conto economico riepilogativo di tutto il periodo pluriennale di liquidazione, a partire dalla data di apertura della liquidazione e fino alla data di chiusura della stessa.
La forma non elementare di Stato Patrimoniale - Per quanto riguarda la composizione e il contenuto dello Stato Patrimoniale del bilancio finale di liquidazione, l’OIC 5 fa due ipotesi.
La prima ipotesi riguarda il completo realizzo/estinzione degli elementi patrimoniali (articolazione elementare). In tal caso, avvenuta la completa monetizzazione delle attività e la totale estinzione delle passività, lo stato patrimoniale assumerà la forma più semplice con l’indicazione delle voci inerenti le disponibilità liquide nell’attivo e l’importo da distribuire ai soci nel passivo.
Qualora, invece, alla conclusione della processo liquidatorio permangano ancora elementi patrimoniali attivi e/o passivi si dovrà ricorrere a un’articolazione dello Stato Patrimoniale più complessa.
In merito a tale situazione, il principio contabile OIC 5 indica la possibilità di considerare possibile anche il ricorso allo schema abbreviato di stato patrimoniale ex art. 2435-bis c.c., prevedendo le semplificazioni anche alle classi (voci precedute da numeri romani), oltre a quelle già previste in ordine alle voci (numeri arabi) e alle sottovoci (lettere minuscole dell’alfabeto).
I debiti/crediti tributari non estinti o riscossi – Al fine di favorire la conclusione dell’iter procedimentale della liquidazione, particolare attenzione va dedicata ai debiti/crediti tributari non estinti o riscossi.
Per quanto riguarda i debiti tributari, si dovrà indicare nell'attivo una voce di importo pari dal Debito verso l’Erario iscritto nel passivo.
Per quanto riguarda i crediti tributari, l’OIC 5 individua tre possibili soluzioni: i) la cessione a terzi; ii) l'assegnazione ai soci (con relativa previsione nel piano di riparto), al netto delle spese necessarie per la riscossione; iii) l'attesa del rimborso alla scadenza da parte del soggetto legittimato (ossia il liquidatore o, in mancanza, un procuratore speciale appositamente nominato dall'Autorità Giudiziaria).
Il piano di riparto - Il piano di riparto costituisce parte integrante del bilancio finale.
Sul tema, l’OIC 5 prevede che il piano di riparto possa essere contenuto nella nota integrativa del bilancio finale di liquidazione o come suo allegato. Ciò che viene ripartito è l’attivo netto residuo (al netto di eventuali acconti erogati ai soci).
Si segnala che non possono entrare a far parte delle disponibilità liquide da ripartire le disponibilità liquide vincolate all’estinzione di debiti ancora esistenti o di costi ed oneri ancora da sostenere. Inoltre, le quote di riparto, che generalmente riguardano solo disponibilità liquide, possono comprendere, per uno o più soci, sulla base di criteri di ripartizione che è consigliabile vengano fatti deliberare dall’assemblea dei soci, la cessione, previo frazionamento del valore, di uno o più crediti (ad esempio, i crediti verso l’Erario per rimborso IVA) o di beni in natura. Per rendere possibile il riparto può anche essere previsto l’accollo a uno o più soci (di solito si tratta del socio di controllo che ha interesse a una pronta chiusura dalla procedura di liquidazione) di debiti ancora non estinti (con l’attribuzione ai medesimi soci del deposito in denaro indicato nel bilancio finale per l’estinzione di tali debiti).
Il bilancio finale in senso stretto - Il bilancio finale di liquidazione in senso stretto, secondo quanto precisato dall’OIC 5, deve contenere: i) uno stato patrimoniale; ii) un conto economico relativo al periodo che intercorre fra l’inizio dell’ultimo esercizio e la data di compimento della liquidazione; iii) una nota integrativa; iv) gli allegati: relazione dei liquidatori, le relazioni del collegio sindacale e del revisore esterno incaricato del controllo contabile.
Secondo le indicazioni fornite dal principio contabile OIC 5, potrà inoltre essere aggiunto, facoltativamente, un Conto economico riepilogativo di tutto il periodo pluriennale di liquidazione, a partire dalla data di apertura della liquidazione e fino alla data di chiusura della stessa.
La forma non elementare di Stato Patrimoniale - Per quanto riguarda la composizione e il contenuto dello Stato Patrimoniale del bilancio finale di liquidazione, l’OIC 5 fa due ipotesi.
La prima ipotesi riguarda il completo realizzo/estinzione degli elementi patrimoniali (articolazione elementare). In tal caso, avvenuta la completa monetizzazione delle attività e la totale estinzione delle passività, lo stato patrimoniale assumerà la forma più semplice con l’indicazione delle voci inerenti le disponibilità liquide nell’attivo e l’importo da distribuire ai soci nel passivo.
Qualora, invece, alla conclusione della processo liquidatorio permangano ancora elementi patrimoniali attivi e/o passivi si dovrà ricorrere a un’articolazione dello Stato Patrimoniale più complessa.
In merito a tale situazione, il principio contabile OIC 5 indica la possibilità di considerare possibile anche il ricorso allo schema abbreviato di stato patrimoniale ex art. 2435-bis c.c., prevedendo le semplificazioni anche alle classi (voci precedute da numeri romani), oltre a quelle già previste in ordine alle voci (numeri arabi) e alle sottovoci (lettere minuscole dell’alfabeto).
I debiti/crediti tributari non estinti o riscossi – Al fine di favorire la conclusione dell’iter procedimentale della liquidazione, particolare attenzione va dedicata ai debiti/crediti tributari non estinti o riscossi.
Per quanto riguarda i debiti tributari, si dovrà indicare nell'attivo una voce di importo pari dal Debito verso l’Erario iscritto nel passivo.
Per quanto riguarda i crediti tributari, l’OIC 5 individua tre possibili soluzioni: i) la cessione a terzi; ii) l'assegnazione ai soci (con relativa previsione nel piano di riparto), al netto delle spese necessarie per la riscossione; iii) l'attesa del rimborso alla scadenza da parte del soggetto legittimato (ossia il liquidatore o, in mancanza, un procuratore speciale appositamente nominato dall'Autorità Giudiziaria).
Il piano di riparto - Il piano di riparto costituisce parte integrante del bilancio finale.
Sul tema, l’OIC 5 prevede che il piano di riparto possa essere contenuto nella nota integrativa del bilancio finale di liquidazione o come suo allegato. Ciò che viene ripartito è l’attivo netto residuo (al netto di eventuali acconti erogati ai soci).
Si segnala che non possono entrare a far parte delle disponibilità liquide da ripartire le disponibilità liquide vincolate all’estinzione di debiti ancora esistenti o di costi ed oneri ancora da sostenere. Inoltre, le quote di riparto, che generalmente riguardano solo disponibilità liquide, possono comprendere, per uno o più soci, sulla base di criteri di ripartizione che è consigliabile vengano fatti deliberare dall’assemblea dei soci, la cessione, previo frazionamento del valore, di uno o più crediti (ad esempio, i crediti verso l’Erario per rimborso IVA) o di beni in natura. Per rendere possibile il riparto può anche essere previsto l’accollo a uno o più soci (di solito si tratta del socio di controllo che ha interesse a una pronta chiusura dalla procedura di liquidazione) di debiti ancora non estinti (con l’attribuzione ai medesimi soci del deposito in denaro indicato nel bilancio finale per l’estinzione di tali debiti).
Indennità per la perdita avviamento commerciale
L’ammontare dell’indennità “vincolato”
L’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, concessa ex art. 34 della L. 392/1978, riguardante la disciplina della locazione degli immobili urbani, riconosce
al conduttore di immobile che svolge attività industriale, commerciale,
artigianale e alberghiera, un'indennità di avviamento in caso di
cessazione del rapporto di locazione.
Tele indennità viene erogata dal conduttore al verificarsi di determinate condizioni e rappresenta una forma di risarcimento del danno che il conduttore subisce per effetto del trasferimento, indipendente dalla sua volontà, della propria attività imprenditoriale.
Le condizioni per ottenerla - In tal senso, l'art. 27, L. 392/1978, richiamato dell'art. 35, L. 392/1978, sancisce che oggetto di locazione devono essere “immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione”. Ciò che rileva, ai fini dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, è l’uso a cui immobile è destinato, che deve essere diverso da quello dell’abitazione.
Oltre alla condizione riguardante l’uso dell’immobile urbano, il disposto congiunto dell’art. 27 e dell’art. 35, L. 392/1978 prevede ulteriori limiti.
In particolare:
- l’immobile deve essere adibito a un'attività di tipo industriale, commerciale e artigianale o ad attività di natura turistica;
- l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale non si applica in caso di cessazione di rapporti di locazione relativi ad immobili utilizzati per lo svolgimento di attività che non comportino contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori,nonché destinati all'esercizio di attività professionali, ad attività di carattere transitorio, e agli immobili complementari o interni a stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio stradali o autostradali, alberghi e villaggi turistici.
Inoltre, l’indennità spetta:
- nel caso di interruzione della locazione per decorso del termine contrattualmente pattuito;
- nel caso di termine del contratto di locazione per volontà del proprietario dei locali, che non sia tuttavia da imputarsi a mancanze del locatario.
Ammontare dell’indennità - Per definire il quantum relativo all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale si deve far riferimento all’art. 34, L. 392/1978. L’art. 34, co. 1, L. 392/1978 prevede un’indennità base pari a 18 mensilità dell’ultimo canone (21 mensilità per le attività alberghiere).
L’art. 34, co. 2, L. 392/1978 prevede un’indennità supplementare pari all’indennità base qualora nel termine di un anno dalla cessazione del contratto l'immobile sia adibito all'esercizio della stessa attività di quella esercitata dal conduttore cessato.
In sostanza, nel caso in cui entro un anno dall’interruzione del rapporto l’immobile vanga adibito da un nuovo conduttore all’esercizio della medesima attività esercitata dal conduttore uscente, l’indennità sarà pari a 36 mensilità dell’ultimo canone (42 mensilità per le attività alberghiere).
Profili contabili - In via preliminare, pare opportuno sottolineare che l’indennità, in rispetto del principio di competenza economica, andrà registrata nel momento in cui matura il diritto alla percezione, ovvero al verificarsi della causa di risoluzione che dà diritto all’indennizzo.
Per quanto attiene il locatore, il costo per l’indennità rappresenta un componente straordinario di reddito. Infatti, l’OIC interpretativo 1 annovera nell’area "le indennità varie per rotture di contratti".
Per quanto attiene il conduttore uscente, sempre con riferimento al documento interpretativo precedentemente richiamato, il provento per l’indennità rappresenta un componente straordinario di reddito. Infatti, l’OIC interpretativo 1 annovera nell’area "le indennità varie per rotture di contratti".
Tele indennità viene erogata dal conduttore al verificarsi di determinate condizioni e rappresenta una forma di risarcimento del danno che il conduttore subisce per effetto del trasferimento, indipendente dalla sua volontà, della propria attività imprenditoriale.
Le condizioni per ottenerla - In tal senso, l'art. 27, L. 392/1978, richiamato dell'art. 35, L. 392/1978, sancisce che oggetto di locazione devono essere “immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione”. Ciò che rileva, ai fini dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, è l’uso a cui immobile è destinato, che deve essere diverso da quello dell’abitazione.
Oltre alla condizione riguardante l’uso dell’immobile urbano, il disposto congiunto dell’art. 27 e dell’art. 35, L. 392/1978 prevede ulteriori limiti.
In particolare:
- l’immobile deve essere adibito a un'attività di tipo industriale, commerciale e artigianale o ad attività di natura turistica;
- l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale non si applica in caso di cessazione di rapporti di locazione relativi ad immobili utilizzati per lo svolgimento di attività che non comportino contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori,nonché destinati all'esercizio di attività professionali, ad attività di carattere transitorio, e agli immobili complementari o interni a stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio stradali o autostradali, alberghi e villaggi turistici.
Inoltre, l’indennità spetta:
- nel caso di interruzione della locazione per decorso del termine contrattualmente pattuito;
- nel caso di termine del contratto di locazione per volontà del proprietario dei locali, che non sia tuttavia da imputarsi a mancanze del locatario.
Ammontare dell’indennità - Per definire il quantum relativo all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale si deve far riferimento all’art. 34, L. 392/1978. L’art. 34, co. 1, L. 392/1978 prevede un’indennità base pari a 18 mensilità dell’ultimo canone (21 mensilità per le attività alberghiere).
L’art. 34, co. 2, L. 392/1978 prevede un’indennità supplementare pari all’indennità base qualora nel termine di un anno dalla cessazione del contratto l'immobile sia adibito all'esercizio della stessa attività di quella esercitata dal conduttore cessato.
In sostanza, nel caso in cui entro un anno dall’interruzione del rapporto l’immobile vanga adibito da un nuovo conduttore all’esercizio della medesima attività esercitata dal conduttore uscente, l’indennità sarà pari a 36 mensilità dell’ultimo canone (42 mensilità per le attività alberghiere).
Profili contabili - In via preliminare, pare opportuno sottolineare che l’indennità, in rispetto del principio di competenza economica, andrà registrata nel momento in cui matura il diritto alla percezione, ovvero al verificarsi della causa di risoluzione che dà diritto all’indennizzo.
Per quanto attiene il locatore, il costo per l’indennità rappresenta un componente straordinario di reddito. Infatti, l’OIC interpretativo 1 annovera nell’area "le indennità varie per rotture di contratti".
Per quanto attiene il conduttore uscente, sempre con riferimento al documento interpretativo precedentemente richiamato, il provento per l’indennità rappresenta un componente straordinario di reddito. Infatti, l’OIC interpretativo 1 annovera nell’area "le indennità varie per rotture di contratti".
IRAP. Rimborso per commercialista con praticanti
Cassazione Tributaria ordinanza del 5 febbraio 2014
Non
è soggetto al pagamento dell’IRAP il commercialista che, nell’esercizio
della professione, si avvale dell’aiuto di praticanti e non di
personale dipendente. È quanto emerge dall’ordinanza 5 febbraio 2014 n.
2520 della Corte di Cassazione, Sesta Sezione Civile – T.
Il caso. La Commissione Tributaria Regionale del Veneto (Mestre) confermava la sentenza di prime cure che aveva ritenuto legittimo l’assoggettamento a IRAP dei redditi professionali prodotti da un dottore commercialista per gli anni 2003 e 2004.
Trascurate le specifiche deduzioni del contribuente. Con la brevissima ordinanza in rassegna i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso interposto dal professionista in questione, rinviando ad altra sezione della CTR del Veneto. I giudici con l’ermellino ritengono che la sentenza gravata si sia limitata ad affermare apoditticamente “la presenza di una forte componente organizzativa”, senza tener conto delle specifiche deduzioni di parte contribuente, “che aveva ad esempio posto in luce come non si avvalesse di personale dipendente e nel suo studio operassero solo dei praticanti”.
Autonoma organizzazione. Quando ricorre? La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente sostenuto che il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, per il contribuente che eserciti attività di lavoro autonomo, ricorre quando questi: 1) sia sotto qualsiasi forma il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzate riferibili ad altrui responsabilità e interesse; 2) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l’id quod plerumque accidit, costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione; 3) si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Spetta al contribuente che chiede il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta, dimostrare l’assenza di queste condizioni.
Professionisti con praticanti. Con l’ordinanza pubblicata ieri la Suprema Corte ha contribuito a definire sempre meglio il concetto di autonoma organizzazione, dando seguito all’orientamento secondo cui la presenza di praticanti in uno studio professionale non è elemento che determina, di per sé, quella stabile organizzazione che giustifica il prelievo ai fini IRAP.
Per come chiarito dalle sentenze n. 17920 del 2013 e n. 8834 del 2009, l’utilizzo di un praticante non può ravvisare un principio di organizzazione, posto che l’apprendista non partecipa alla formazione del reddito in modo autonomo, ma sta completando il suo iter formativo. Fatta eccezione per il caso in cui l’entità dei compensi corrisposti non consenta di affermare che i praticanti svolgono, di fatto, la funzione di personale dipendente, in misura tale da determinare un’autonoma organizzazione (cfr. Cass. n. 17920/13 cit.).
Il caso. La Commissione Tributaria Regionale del Veneto (Mestre) confermava la sentenza di prime cure che aveva ritenuto legittimo l’assoggettamento a IRAP dei redditi professionali prodotti da un dottore commercialista per gli anni 2003 e 2004.
Trascurate le specifiche deduzioni del contribuente. Con la brevissima ordinanza in rassegna i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso interposto dal professionista in questione, rinviando ad altra sezione della CTR del Veneto. I giudici con l’ermellino ritengono che la sentenza gravata si sia limitata ad affermare apoditticamente “la presenza di una forte componente organizzativa”, senza tener conto delle specifiche deduzioni di parte contribuente, “che aveva ad esempio posto in luce come non si avvalesse di personale dipendente e nel suo studio operassero solo dei praticanti”.
Autonoma organizzazione. Quando ricorre? La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente sostenuto che il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, per il contribuente che eserciti attività di lavoro autonomo, ricorre quando questi: 1) sia sotto qualsiasi forma il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzate riferibili ad altrui responsabilità e interesse; 2) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l’id quod plerumque accidit, costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione; 3) si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Spetta al contribuente che chiede il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta, dimostrare l’assenza di queste condizioni.
Professionisti con praticanti. Con l’ordinanza pubblicata ieri la Suprema Corte ha contribuito a definire sempre meglio il concetto di autonoma organizzazione, dando seguito all’orientamento secondo cui la presenza di praticanti in uno studio professionale non è elemento che determina, di per sé, quella stabile organizzazione che giustifica il prelievo ai fini IRAP.
Per come chiarito dalle sentenze n. 17920 del 2013 e n. 8834 del 2009, l’utilizzo di un praticante non può ravvisare un principio di organizzazione, posto che l’apprendista non partecipa alla formazione del reddito in modo autonomo, ma sta completando il suo iter formativo. Fatta eccezione per il caso in cui l’entità dei compensi corrisposti non consenta di affermare che i praticanti svolgono, di fatto, la funzione di personale dipendente, in misura tale da determinare un’autonoma organizzazione (cfr. Cass. n. 17920/13 cit.).
Redditometro
La Cassazione dice la sua
Il reddito elevato del marito salva la casalinga dall’accertamento
Sono
molte le pronunce di legittimità pubblicate nell’anno che ci siamo
lasciati alle spalle in materia di accertamento da “redditometro”. Da
queste pronunce si ricavano interessanti spunti per approntare al meglio
la difesa del contribuente finito nel mirino del Fisco. Per esempio, il
contribuente può sconfessare l’Ufficio dimostrando i redditi elevati
dell’altro coniuge o, ancora, che l’alto tenore di vita è dovuto ai
risparmi accumulati negli anni.
Stop per la “casalinga”. Con ordinanza n. 18388/2013, la S.C. ha ritenuto passibile di annullamento l’accertamento da redditometro notificato alla casalinga che ha dimostrato, tra l’altro, di avere un marito benestante. La CTR Lombardia, pur tenendo conto di quanto dedotto dalla contribuente con riferimento all’accensione di un mutuo, ai riscatti di polizze e ad altri disinvestimenti effettuati nell’anno preso in esame, aveva ritenuto indimostrato che la stessa potesse, in assenza di redditi personali, provvedere al mantenimento di un immobile.
Ebbene, gli Ermellini hanno bollato come illogiche le argomentazioni della CTR per poi osservare – si cita testualmente - “appare comunque decisiva la considerazione che l'accertamento di fatto contenuto nella sentenza gravata, secondo cui il reddito familiare goduto dalla famiglia della contribuente negli anni dal 2001 al 2005 sarebbe ammontato a euro 18.000 annui, contrasta con la circostanza menzionata nella sentenza di primo grado che dai modelli di dichiarazione dei redditi presentati per gli anni 2004 e 2005 dal coniuge della contribuente, e da quest'ultima prodotti nel giudizio di primo grado, emergerebbe che i redditi da quello dichiarati per i suddetti anni sarebbero ammontati, rispettivamente, ad € 79.060 e ad € 79.907”. Tale circostanza, evidentemente decisiva ai fini dell'accertamento del reddito familiare della contribuente per il periodo dal 2001 al 2005, è stata totalmente ignorata dalla sentenza gravata. L’insufficiente motivazione sul punto ha quindi determinato l’accoglimento del ricorso, con rinvio al giudice del merito per nuovo esame.
I risparmi di una vita. Con una sentenza pubblicata il 25 settembre scorso (n. 21994/2013), i giudici del Palazzaccio paventano invece l’illegittimità dell’accertamento da redditometro che ha ignorato i risparmi accumulati negli anni dal contribuente e che ne spiegano l’“elevato” tenore di vita.
Investita dell’esame della controversia da due contribuenti coniugi, la S.C. ha cassato la decisione del giudice dell’appello (CTR Campania) il quale, “a fronte della documentazione fornita dai contribuenti — analiticamente indicata nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza -, dalla quale, in tesi, sarebbe derivata la prova che il maggior reddito accertato per l'anno 1992 sulla base di indici di capacità contributiva rilevati dall'Ufficio (possesso di autovetture e abitazioni) era giustificato dalla disponibilità di capitale accumulato in anni precedenti, si è limitato a negare la produzione di qualsiasi idonea prova contraria, senza supportare tale apodittica statuizione con sufficienti argomentazioni”. Sono state quindi accolte le doglianze dei contribuenti in merito all’insufficienza della motivazione e alla violazione dell’articolo 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, per non avere la CTR adeguatamente esaminato la documentazione esibita fin dal primo grado di giudizio, dalla quale, tra l’altro, sarebbe emerso il notevole accumulo di ricchezza conseguito nel quinquennio precedente l’anno oggetto di contestazione, tale da giustificare il “tenore di vita elevato” rilevato dal Fisco.
Stop per la “casalinga”. Con ordinanza n. 18388/2013, la S.C. ha ritenuto passibile di annullamento l’accertamento da redditometro notificato alla casalinga che ha dimostrato, tra l’altro, di avere un marito benestante. La CTR Lombardia, pur tenendo conto di quanto dedotto dalla contribuente con riferimento all’accensione di un mutuo, ai riscatti di polizze e ad altri disinvestimenti effettuati nell’anno preso in esame, aveva ritenuto indimostrato che la stessa potesse, in assenza di redditi personali, provvedere al mantenimento di un immobile.
Ebbene, gli Ermellini hanno bollato come illogiche le argomentazioni della CTR per poi osservare – si cita testualmente - “appare comunque decisiva la considerazione che l'accertamento di fatto contenuto nella sentenza gravata, secondo cui il reddito familiare goduto dalla famiglia della contribuente negli anni dal 2001 al 2005 sarebbe ammontato a euro 18.000 annui, contrasta con la circostanza menzionata nella sentenza di primo grado che dai modelli di dichiarazione dei redditi presentati per gli anni 2004 e 2005 dal coniuge della contribuente, e da quest'ultima prodotti nel giudizio di primo grado, emergerebbe che i redditi da quello dichiarati per i suddetti anni sarebbero ammontati, rispettivamente, ad € 79.060 e ad € 79.907”. Tale circostanza, evidentemente decisiva ai fini dell'accertamento del reddito familiare della contribuente per il periodo dal 2001 al 2005, è stata totalmente ignorata dalla sentenza gravata. L’insufficiente motivazione sul punto ha quindi determinato l’accoglimento del ricorso, con rinvio al giudice del merito per nuovo esame.
I risparmi di una vita. Con una sentenza pubblicata il 25 settembre scorso (n. 21994/2013), i giudici del Palazzaccio paventano invece l’illegittimità dell’accertamento da redditometro che ha ignorato i risparmi accumulati negli anni dal contribuente e che ne spiegano l’“elevato” tenore di vita.
Investita dell’esame della controversia da due contribuenti coniugi, la S.C. ha cassato la decisione del giudice dell’appello (CTR Campania) il quale, “a fronte della documentazione fornita dai contribuenti — analiticamente indicata nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza -, dalla quale, in tesi, sarebbe derivata la prova che il maggior reddito accertato per l'anno 1992 sulla base di indici di capacità contributiva rilevati dall'Ufficio (possesso di autovetture e abitazioni) era giustificato dalla disponibilità di capitale accumulato in anni precedenti, si è limitato a negare la produzione di qualsiasi idonea prova contraria, senza supportare tale apodittica statuizione con sufficienti argomentazioni”. Sono state quindi accolte le doglianze dei contribuenti in merito all’insufficienza della motivazione e alla violazione dell’articolo 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, per non avere la CTR adeguatamente esaminato la documentazione esibita fin dal primo grado di giudizio, dalla quale, tra l’altro, sarebbe emerso il notevole accumulo di ricchezza conseguito nel quinquennio precedente l’anno oggetto di contestazione, tale da giustificare il “tenore di vita elevato” rilevato dal Fisco.
ACCERTAMENTO : Indagini finanziarie anche per i minimi
Indagini finanziarie anche per i minimi
Telefisco chiarito che si può applicare la presunzione legata ai prelevamenti
Premessa –
La presunzione legata ai prelevamenti può essere applicata solo in capo
a soggetti che svolgono attività di impresa o lavoro autonomo, a
prescindere dalla esistenza di un obbligo di tenuta delle scritture
contabili (ad esempio, minimi). Questo quanto affermato dall’Agenzia
delle Entrate in occasione di Telefisco 2014.
Disposizioni legislative - Nel nostro ordinamento le indagini finanziarie sono disciplinate dall'art. 32, D.P.R. 600/1973, in materia di imposte sui redditi e dall'art. 51, D.P.R. 633/1972, in materia di Iva. Ai sensi del punto 2), del co. 1, dell'art. 32, D.P.R. 600/1973, infatti, “sono posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario, e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni". Il Legislatore ha posto sostanzialmente una presunzione legale relativa a favore del Fisco, secondo cui è il contribuente a dover dimostrare, ad esempio, che le somme transitate sul proprio conto corrente e riprese a tassazione da parte dell'Ufficio non dovevano concorrere alla formazione del reddito di periodo.
Ambito applicativo - Come però giustamente affermato dalla Corte di Cassazione, con la Sentenza 27.9.2011, n. 19692, mentre l'Ufficio può desumere per qualsiasi contribuente che i versamenti operati sui propri conti correnti, e privi di giustificazione, costituiscono reddito, così non è per i prelevamenti. Per questi ultimi, infatti, la presunzione di maggior reddito può operare solo per i possessori di reddito d'impresa o di lavoro autonomo, non potendosi certamente in via generale e per qualsiasi contribuente presumere la produzione di un reddito da una spesa, e potendo viceversa una simile presunzione trovare giustificazione per imprenditori o lavoratori autonomi, per i quali le spese non giustificate possono infatti ragionevolmente ritenersi costitutive di investimenti.
Argomentazione - Il ragionamento fatto dalla Corte è in linea con il dettato normativo del citato art. 32; mentre infatti la prima parte del punto 2) prevede che la rettifica possa essere effettuata ai sensi degli artt. 38, 39, 40 e 41, quindi non solo nell'ambito del reddito imprenditoriale/professionale, ma anche nell'ambito del reddito complessivo dichiarato dal contribuente, la seconda parte, facendo riferimento ai soli ricavi e compensi, relega la possibile rettifica ai soli possessori di reddito d'impresa, arte o professione.
Telefisco 2014 - Ora tale orientamento trova conferma anche nella posizione dell’Agenzia delle Entrate. Nel corso di Telefisco 2014 infatti i tecnici delle Entrate ha ribadito la non operatività della presunzione sui prelevamenti nei riguardi dei privati.
Minimi - L'Agenzia delle Entrate si è spinta oltre, precisando come il tenore letterale della norma va intesa come riferita, ai fini dell'applicazione delle presunzioni, anche a quei contribuenti che, pur non essendo a rigore soggetti alla tenuta di scritture contabili, svolgono tuttavia un'attività economica in regime contabile agevolato, come nel caso, ad esempio, dei contribuenti che si avvalgono del regime fiscale di vantaggio di cui all'articolo 27, comma 3, del D.L. 98/2011 (“regime di minimi”).
Distinzione – L’Agenzia ha poi ribadito che in tale contesto la riconducibilità della presunzione sui prelevamenti al solo ambito dei soggetti esercenti attività di impresa o di lavoro autonomo si distingue da quella sui versamenti, che invece si estende alla generalità dei soggetti passivi e delle diverse categorie reddituali (non caratterizzate dall'esercizio di attività di impresa o di lavoro autonomo e come tali non soggette alla tenuta di scritture contabili).
Disposizioni legislative - Nel nostro ordinamento le indagini finanziarie sono disciplinate dall'art. 32, D.P.R. 600/1973, in materia di imposte sui redditi e dall'art. 51, D.P.R. 633/1972, in materia di Iva. Ai sensi del punto 2), del co. 1, dell'art. 32, D.P.R. 600/1973, infatti, “sono posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario, e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni". Il Legislatore ha posto sostanzialmente una presunzione legale relativa a favore del Fisco, secondo cui è il contribuente a dover dimostrare, ad esempio, che le somme transitate sul proprio conto corrente e riprese a tassazione da parte dell'Ufficio non dovevano concorrere alla formazione del reddito di periodo.
Ambito applicativo - Come però giustamente affermato dalla Corte di Cassazione, con la Sentenza 27.9.2011, n. 19692, mentre l'Ufficio può desumere per qualsiasi contribuente che i versamenti operati sui propri conti correnti, e privi di giustificazione, costituiscono reddito, così non è per i prelevamenti. Per questi ultimi, infatti, la presunzione di maggior reddito può operare solo per i possessori di reddito d'impresa o di lavoro autonomo, non potendosi certamente in via generale e per qualsiasi contribuente presumere la produzione di un reddito da una spesa, e potendo viceversa una simile presunzione trovare giustificazione per imprenditori o lavoratori autonomi, per i quali le spese non giustificate possono infatti ragionevolmente ritenersi costitutive di investimenti.
Argomentazione - Il ragionamento fatto dalla Corte è in linea con il dettato normativo del citato art. 32; mentre infatti la prima parte del punto 2) prevede che la rettifica possa essere effettuata ai sensi degli artt. 38, 39, 40 e 41, quindi non solo nell'ambito del reddito imprenditoriale/professionale, ma anche nell'ambito del reddito complessivo dichiarato dal contribuente, la seconda parte, facendo riferimento ai soli ricavi e compensi, relega la possibile rettifica ai soli possessori di reddito d'impresa, arte o professione.
Telefisco 2014 - Ora tale orientamento trova conferma anche nella posizione dell’Agenzia delle Entrate. Nel corso di Telefisco 2014 infatti i tecnici delle Entrate ha ribadito la non operatività della presunzione sui prelevamenti nei riguardi dei privati.
Minimi - L'Agenzia delle Entrate si è spinta oltre, precisando come il tenore letterale della norma va intesa come riferita, ai fini dell'applicazione delle presunzioni, anche a quei contribuenti che, pur non essendo a rigore soggetti alla tenuta di scritture contabili, svolgono tuttavia un'attività economica in regime contabile agevolato, come nel caso, ad esempio, dei contribuenti che si avvalgono del regime fiscale di vantaggio di cui all'articolo 27, comma 3, del D.L. 98/2011 (“regime di minimi”).
Distinzione – L’Agenzia ha poi ribadito che in tale contesto la riconducibilità della presunzione sui prelevamenti al solo ambito dei soggetti esercenti attività di impresa o di lavoro autonomo si distingue da quella sui versamenti, che invece si estende alla generalità dei soggetti passivi e delle diverse categorie reddituali (non caratterizzate dall'esercizio di attività di impresa o di lavoro autonomo e come tali non soggette alla tenuta di scritture contabili).
Acquisto di beni da privati
Acquisto di beni da privati
(Dati del cedente - Privato)
Cognome e Nome Via….. n…. CAP …. – Città….. Codice fiscale…………………….. (Dati del cessionario - azienda) Ditta/Ragione o Denominazione sociale………. Via….. n….CAP …. – Città….. Partita IVA…………………
Ricevuta n. ….. del ……… per acquisto di bene da
privato.
Descrizione del bene
......................................
Corrispettivo concordato
................................
Dichiara di non svolgere
attività commerciale e di essere pertanto escluso dall’obbligo di
fatturazione.
Operazione non imponibile IVA ai sensi degli art. 1, 4 e 5 del D.P.R. 633/72 e successive modificazioni
Firma
_________________
Il sottoscritto Amministratore
...............dichiara che l’acquisto di cui sopra rientra nell’ambito
dell’attività commerciale e che il corrispettivo richiesto è congruo rispetto al valore di mercato di bene analogo.
Firma
_________________
Sulla
ricevuta va applicata l'imposta di bollo pari a 2 euro nel caso in cui il
corrispettivo superi l'importo di 77,42 euro (prima del 26.06.2013 la misura dell'imposta di bollo era di 1,81 euro). |
mercoledì 5 febbraio 2014
telefisco 2014: i chiarimenti
telefisco 2014: i chiarimenti sul Redditometro
•
Telefisco 2014: Società di comodo
•
Telefisco 2014: i chiarimenti sul reddito d’impresa
•
Telefisco 2014: compensazioni
•
Telefisco 2014: deducibilità IMU ai fini IRES/IRPEF
•
Rientro dei capitali esteri: in G.U. il Decreto Legge
Veicolo strumentale solo ai fini Iva -Amministratori_e_auto_a_uso_promiscuo
Ai fini Iva, con la L. n. 244/2007 è stato regolamentato il diritto ad esercitare la detrazione dell’imposta
relativa all’acquisto dei veicoli a
motore,compresi i carburanti, lubrificanti e servizi d’impiego, al fine di
adeguare l’ordinamento italiano a quello
europeo.
In particolare, come si vedrà, in seguito
alla modifica dell’art. 19-bis 1, D.P.R. n. 633/1972, un veicolo
stradale a motore, può essere considerato
strumentale ai fini Iva (imposta interamente detraibile), ma
allo stesso tempo soggetto a limitazioni
fiscali, ai fini delle imposte sui redditi.
http://www.fiscal-focus.it/all/Fiscal_News_n._38_del_03.02.2014_.pdf
http://www.fiscal-focus.it/all/Fiscal_News_n._32_del_29.01.2014_Amministratori_e_auto_a_uso_promiscuo.pdf
Comunicazione annuale dati IVA 2014 : chi deve presentarla - IL MODELLO ADEGUATO AL VOLUME D'AFFARI
Approvate nuove istruzioni del modello con il Provvedimento n. 4877 del 15.01.2014.
La Comunicazione annuale dati IVA, introdotta dall’art. 8-bis, D.P.R. n. 322/98, è finalizzata a consentire il calcolo delle risorse che ciascun Stato membro è tenuto a versare al bilancio comunitario. La Comunicazione dati IVA va presentata, dai soggetti obbligati, entro il 28.02.2014 esclusivamente in via telematica, utilizzando:
Natura non dichiarativa - Le istruzioni alla Comunicazione dati Iva affermano che “la natura e gli effetti dell’adempimento non sono quelli propri della ‘Dichiarazione IVA’ bensì quelli riferibili alle comunicazioni di dati e notizie. Attraverso la comunicazione annuale dati IVA il contribuente non procede, infatti, alla definitiva autodeterminazione dell’imposta dovuta, che avverrà invece attraverso il tradizionale strumento della dichiarazione annuale”.
La natura non dichiarativa della Comunicazione dati IVA, oltre a rinvenirsi nelle istruzioni al Modello, era stata sancita dall’Amministrazione Finanziaria nella C.M. 6/E/2002.
La natura di “comunicazione di dati e notizie” di tale modello, rende NON applicabili le sanzioni previste in caso di omessa o infedele dichiarazione. Dunque, alla violazione per omessa comunicazione va applicata una sanzione fissa da 258 a 2.065 euro ex art. 11 D.Lgs. 471/97. Inoltre, non sono applicabili le disposizioni di cui all’articolo 13 del D. Lgs. 472/1997 in materia di ravvedimento in caso di violazione degli obblighi di dichiarazione. Poiché non è possibile rettificare o integrare una comunicazione già presentata, i dati definitivi saranno correttamente esposti nella dichiarazione annuale IVA.
Soggetti obbligati - Sono tenuti, in via generale, alla presentazione della Comunicazione tutti i soggetti d’imposta:
- titolari di partita Iva;
- e tenuti alla presentazione della relativa dichiarazione annuale;
anche se nell’anno non hanno posto in essere operazioni imponibili o non siano tenuti a effettuare liquidazioni periodiche, con delle eccezioni.
Soggetti esonerati – Sono esonerati dalla presentazione della Comunicazione annuale dati IVA:
- il modello approvato dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 17 gennaio 2011, Protocollo n. 4275/11;
- le istruzioni per la compilazione del modello di comunicazione annuale dati IVA approvate con il Provvedimento n. 4877 del 15.01.2014.
Natura non dichiarativa - Le istruzioni alla Comunicazione dati Iva affermano che “la natura e gli effetti dell’adempimento non sono quelli propri della ‘Dichiarazione IVA’ bensì quelli riferibili alle comunicazioni di dati e notizie. Attraverso la comunicazione annuale dati IVA il contribuente non procede, infatti, alla definitiva autodeterminazione dell’imposta dovuta, che avverrà invece attraverso il tradizionale strumento della dichiarazione annuale”.
La natura non dichiarativa della Comunicazione dati IVA, oltre a rinvenirsi nelle istruzioni al Modello, era stata sancita dall’Amministrazione Finanziaria nella C.M. 6/E/2002.
La natura di “comunicazione di dati e notizie” di tale modello, rende NON applicabili le sanzioni previste in caso di omessa o infedele dichiarazione. Dunque, alla violazione per omessa comunicazione va applicata una sanzione fissa da 258 a 2.065 euro ex art. 11 D.Lgs. 471/97. Inoltre, non sono applicabili le disposizioni di cui all’articolo 13 del D. Lgs. 472/1997 in materia di ravvedimento in caso di violazione degli obblighi di dichiarazione. Poiché non è possibile rettificare o integrare una comunicazione già presentata, i dati definitivi saranno correttamente esposti nella dichiarazione annuale IVA.
Soggetti obbligati - Sono tenuti, in via generale, alla presentazione della Comunicazione tutti i soggetti d’imposta:
- titolari di partita Iva;
- e tenuti alla presentazione della relativa dichiarazione annuale;
anche se nell’anno non hanno posto in essere operazioni imponibili o non siano tenuti a effettuare liquidazioni periodiche, con delle eccezioni.
Soggetti esonerati – Sono esonerati dalla presentazione della Comunicazione annuale dati IVA:
- i contribuenti che per l’anno d’imposta abbiano registrato esclusivamente operazioni esenti di cui all’art. 10, nonché coloro che essendosi avvalsi della dispensa dagli obblighi di fatturazione e di registrazione ai sensi dell’art. 36-bis abbiano effettuato soltanto operazioni esenti ancorché debbano presentare la dichiarazione annuale per effettuare le rettifiche di cui all’art. 19bis 2, D.P.R. 633/1972;
- i contribuenti che si avvalgono del regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità previsto dall’articolo 27, commi 1 e 2, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 98;
- produttori agricoli esonerati dagli adempimenti art. 34, co. 6, D.P.R. 633/1972;
- gli esercenti attività di organizzazione di giochi e di intrattenimenti ed altre attività indicate nella tariffa allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 640, esonerati dagli adempimenti IVA ai sensi dell’art. 74, co. 6, che non hanno optato per l’applicazione dell’IVA nei modi ordinari;
- le imprese individuali che abbiano dato in affitto l’unica azienda e non esercitino altre attività rilevanti agli effetti dell’IVA (cfr. Circolari n. 26 del 19 marzo 1985 e n. 72 del 4 novembre 1986). L’esonero riguarda il soggetto che non esercita nel frattempo alcuna attività rilevante ai fini IVA, ovvero in tale periodo non abbia effettuato cessioni di beni rientranti nell’azienda stessa (Circolari Agenzia Entrate nn. 154/1995, punto 7.4, 72/1986 e 26/1985);
- i soggetti passivi d’imposta, residenti in altri stati membri dell’Unione europea, nell’ipotesi di cui all’art. 44, co. 3, secondo periodo del D.L. n. 331 del 1993, qualora abbiano effettuato nell’anno d’imposta solo operazioni non imponibili, esenti, non soggette o comunque senza obbligo di pagamento dell’imposta;
- i soggetti che hanno optato per la L. 398/91, esonerati dagli adempimenti IVA per tutti i proventi conseguiti nell’esercizio di attività commerciali connesse agli scopi istituzionali;
- i soggetti domiciliati o residenti fuori dall’Unione europea, non identificati in ambito comunitario, che si sono identificati ai fini dell’IVA nel territorio dello Stato con le modalità previste dall’art. 74 quinquies per l’assolvimento degli adempimenti relativi ai servizi resi tramite mezzi elettronici a committenti non soggetti passivi d’imposta, domiciliati o residenti in Italia o in altro Stato membro;
- i soggetti di cui all'art.74 del Tuir, cioè gli organi e le amministrazioni statali, le regioni, le province e i comuni, i consorzi tra enti locali, gli enti pubblici, ecc.;
- i soggetti sottoposti a procedure concorsuali;
- le persone fisiche che hanno realizzato nel 2013 un volume d'affari inferiore o uguale ad €25.000;
- i contribuenti che presentano la dichiarazione annuale IVA entro il mese di febbraio, come previsto dall’art. 8-bis, co. 2, ultimo periodo del D.P.R. n. 322/98, introdotto dall’art. 10, D.L. n. 78/09. Come precisato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare 25.1.2011, n. 1/E la dichiarazione IVA annuale può essere presentata in forma autonoma nel mese di febbraio, a prescindere dal saldo (debito/credito) risultante dalla stessa. Di conseguenza, anche i contribuenti con un saldo IVA 2013 a debito, possono usufruire dell’esonero dalla presentazione della Comunicazione dati IVA relativa al 2013 se provvedono a presentare il modello IVA 2014 in forma autonoma nel mese di febbraio 2014.
Comunicazione annuale dati IVA: il modello
La Comunicazione annuale dei dati Iva deve essere presentata con il modello approvato dal Provvedimento
del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 17 gennaio 2011,
Protocollo n. 4275/11. Con il Provvedimento n. 4877 del 15.01.2014 sono state approvate le istruzioni per la compilazione del modello di comunicazione annuale dati IVA, al fine di:
Tali istruzioni sostituiscono quelle approvate con provvedimento del 15 gennaio 2013 e devono essere utilizzate a partire dall’adempimento relativo all’anno d’imposta 2013.
Novità - L’aggiornamento delle istruzioni si è reso necessario, come indica lo stesso Provvedimento, per sottolineare l’inclusione nel campo dedicato alle operazioni attive effettuate nel 2013 delle operazioni non soggette ad Iva per mancanza del presupposto territoriale ex artt. da 7 a 7-septies D.P.R. 633/72. Per tali operazioni, come noto, sussiste l’obbligo di emissione della fattura ed, inoltre, concorrono dal 1° gennaio 2013 alla determinazione del volume d’affari.
In particolare, la fattura deve essere emessa per:
Più in dettaglio, per tali operazioni si sottolinea che le istruzioni alla compilazione del modello di comunicazione annuale dati IVA prevedono la loro inclusione nel rigo CD1, campo 1.
Il modello - Il modello di “Comunicazione annuale dati Iva 2014” è identico a quello utilizzato nel 2013 per l’anno d’imposta 2012.
Il modello è composto da 3 Sezioni:
Nella Sezione I vanno riportati:
Particolare attenzione va posta nell’inserimento del codice attività in caso di svolgimento di più attività. In tale caso, infatti, andrà indicato il codice dell’attività prevalente, che ha realizzato un maggior volume d’affari nel periodo d’imposta.
Nella Sezione II vanno riportati i dati relativi alle operazioni effettuate nel 2013, annotate nei registri IVA (fatture emesse/corrispettivi o acquisti).
La Sezione II si compone:
Nella sezione III del modello di comunicazione dei dati IVA va indicata:
La differenza i due righi determina l’IVA a debito o a credito da indicare a rigo CD6.
Nel compilare la sezione III non deve tenersi conto di eventuali operazioni di rettifica e di conguaglio. Pertanto, il saldo a debito o a credito di cui al rigo CD6 non è confrontabile con quello risultante dalla dichiarazione annuale.
- adeguare alla normativa in vigore le istruzioni del modello di comunicazione annuale dati IVA;
- semplificarne la compilazione.
Tali istruzioni sostituiscono quelle approvate con provvedimento del 15 gennaio 2013 e devono essere utilizzate a partire dall’adempimento relativo all’anno d’imposta 2013.
Novità - L’aggiornamento delle istruzioni si è reso necessario, come indica lo stesso Provvedimento, per sottolineare l’inclusione nel campo dedicato alle operazioni attive effettuate nel 2013 delle operazioni non soggette ad Iva per mancanza del presupposto territoriale ex artt. da 7 a 7-septies D.P.R. 633/72. Per tali operazioni, come noto, sussiste l’obbligo di emissione della fattura ed, inoltre, concorrono dal 1° gennaio 2013 alla determinazione del volume d’affari.
In particolare, la fattura deve essere emessa per:
- le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, diverse da quelle di cui all’art. 10 co. 1 n. 1 – 4 e 9 del D.P.R. 633/724 (operazioni bancarie e assicurative), effettuate nei confronti di soggetti passivi debitori d’imposta in altri Paesi UE → annotazione “inversione contabile”;
- le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate fuori della UE → annotazione “operazione non soggetta”.
Più in dettaglio, per tali operazioni si sottolinea che le istruzioni alla compilazione del modello di comunicazione annuale dati IVA prevedono la loro inclusione nel rigo CD1, campo 1.
Il modello - Il modello di “Comunicazione annuale dati Iva 2014” è identico a quello utilizzato nel 2013 per l’anno d’imposta 2012.
Il modello è composto da 3 Sezioni:
- sezione I: dati anagrafici e relativi all’attività IVA;
- sezione II: dati relativi alle operazioni effettuate;
- sezione III: determinazione dell’IVA dovuta o a credito.
Nella Sezione I vanno riportati:
- i dati del contribuente;
- l’anno d’imposta (2013);
- il codice attività, desunto dalla Tabella ATECO 2007.
Particolare attenzione va posta nell’inserimento del codice attività in caso di svolgimento di più attività. In tale caso, infatti, andrà indicato il codice dell’attività prevalente, che ha realizzato un maggior volume d’affari nel periodo d’imposta.
Nella Sezione II vanno riportati i dati relativi alle operazioni effettuate nel 2013, annotate nei registri IVA (fatture emesse/corrispettivi o acquisti).
La Sezione II si compone:
- del rigo CD1, per le operazioni attive; nel campo 1 di tale rigo va riportato il totale delle operazioni attive effettuate nel 2013 (operazioni imponibili, non imponibili, esenti, ad aliquota zero, ecc.) al netto dell’IVA, rilevanti agli effetti dell'IVA: cioè operazioni imponibili, non imponibili, esenti e ad aliquota "zero" annotate nel registro delle fatture emesse o in quello dei corrispettivi o, comunque, soggette a registrazione, ad esclusione di quelle esenti effettuate dai soggetti che si sono avvalsi della dispensa dagli adempimenti di cui all'art. 36-bis;
Non devono essere comprese tra le operazioni attive gli acquisti intracomunitari annotati anche nel registro delle fatture emesse.
I successivi campi del rigo CD1 (da 2 a 5) comprendono operazioni già indicate nel campo 1 e si riferiscono rispettivamente a operazioni non imponibili, operazioni esenti, cessioni intracomunitarie e cessioni di beni strumentali;
- del rigo CD2, per le operazioni passive; nel campo 1 di tale rigo è necessario indicare l'ammontare complessivo, al netto dell'IVA, delle operazioni passive all'interno, intracomunitarie e di importazione effettuate nel corso dell'anno 2013, comprese quelle ad esigibilità differita, rilevanti agli effetti dell'IVA: cioè operazioni imponibili, non imponibili, esenti. I successivi campi del rigo CD2 (da 2 a 5) comprendono operazioni già indicate nel campo 1 e si riferiscono rispettivamente ad acquisti non imponibili, acquisti esenti, acquisti intracomunitari e acquisti di beni strumentali;
- del rigo CD3, per le importazioni senza pagamento dell’IVA in Dogana.
Nella sezione III del modello di comunicazione dei dati IVA va indicata:
- l'IVA esigibile (CD4), relativa alle operazioni effettuate nel 2013, per le quali si è verificata l'esigibilità, ovvero relativa a operazioni effettuate in anni precedenti per le quali l'imposta è diventata esigibile nel 2013;
- l'IVA detratta (CD5), relativa agli acquisti registrati nel 2013 per i quali è stato esercitato il diritto alla detrazione.
La differenza i due righi determina l’IVA a debito o a credito da indicare a rigo CD6.
Nel compilare la sezione III non deve tenersi conto di eventuali operazioni di rettifica e di conguaglio. Pertanto, il saldo a debito o a credito di cui al rigo CD6 non è confrontabile con quello risultante dalla dichiarazione annuale.
Autore: Redazione Fiscal Focus
Acconciatori ed estetisti: Ok all’affitto di poltrona e cabina
4 febbraio 2014
Pubblicata dal Ministero dello Sviluppo Economico una circolare con cui viene chiarita la questione del contratto di 'affitto di poltrona' e 'di cabina' per le attività di acconciatore ed estetista.
Affitto di poltrona e di cabina -
I parrucchieri e gli estetisti potranno, d’ora in poi, affittare ad
altri professionisti spazi interni dei loro negozi. Il Ministero dello
Sviluppo Economico infatti ha adottato una circolare (n.16361 del 31 gennaio 2013)
con cui viene chiarita la questione del contratto di affitto di
poltrona e di cabina per le attività di acconciatore ed estetista. In
base alla normativa nazionale l’ipotesi di "affitto di poltrona" o
"affitto di cabina" è possibile tra imprese, mediante uno specifico
contratto in base al quale un titolare di salone di acconciatura o di
centro estetico, concede in uso una parte dell’immobile e delle
attrezzature, dietro pagamento di un determinato corrispettivo.
Soggetti non imprenditori – Relativamente all'attività di acconciatore, la legge ammette anche la possibilità di prestazione dell'attività da parte di soggetti non imprenditori, purché possiedano i requisiti professionali. Quindi gli esercenti di attività di acconciatore o di estetista, possono adesso consentire l'utilizzo dei propri spazi sia ad acconciatori che ad estetisti. L' unica condizione posta dalla normativa nazionale è che siano in possesso dei titoli abilitanti all'esercizio della professione.
Incentivata l’iniziativa privata - Da oggi chi avrà nel proprio salone di bellezza uno spazio poco utilizzato, potrà affittare la poltrona migliorando così la redditività della propria impresa e garantendo maggiori servizi. In particolare i giovani acconciatori ed estetisti che non dispongono di propri locali adeguati, potranno comunque avviare la loro attività. Questa possibilità inoltre non lede i diritti dei consumatori, e non abbassa la qualità e la sicurezza del servizio, visto che i nuovi affitti dovranno comunque rispettare le norme vigenti. La circolare dello Sviluppo Economico, vuole essere, in un periodo di difficoltà economica, un contributo al rilancio dell'iniziativa imprenditoriale.
Attività di estetista - Relativamente all’attività di estetista, la normativa, prevede che l'attività professionale di estetista sia esercitata in forma di impresa, non consentendo l'esercizio ai soggetti non iscritti all'Albo delle imprese artigiane o nel Registro delle imprese. Peraltro l’art. 9, comma 1, della Legge n. 1 del 1990, nell’ammettere l’esercizio congiunto delle attività di estetista e di acconciatore nella medesima sede, fa riferimento unicamente ai requisiti professionali da possedere per l’esercizio delle rispettive attività, non anche all’esercizio di impresa. Ciò significa non solo che l’attività congiunta può essere esercitata tra due distinte imprese, ma anche che all’interno della stessa impresa possono operare soggetti in possesso di titoli abilitativi diversi (estetista e/o acconciatore). Ne deriva che un’impresa singola può esercitare l’attività in entrambi i campi purché al suo interno vi siano operatori in possesso dei rispettivi titoli abilitativi.
Dalla suddetta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, conseguirebbe che l’esercente dell’attività di impresa tanto di acconciatura quanto di estetista possa consentire l’utilizzo dei propri spazi (mediante tutte le forme contrattuali consentite dalla legislazione) sia ad acconciatori che estetisti, con la sola condizione che questi siano in possesso dei prescritti titoli abilitativi.
Altri requisiti necessari - Le suddette possibilità di affitto di poltrona e di affitto di cabina, consentite in base alla legislazione statale attualmente vigente come sopra esposto, naturalmente non devono prescindere dal rispetto dalle ulteriori disposizioni previste dalla legislazione nazionale e dalla legislazione regionale in materia contrattuale, giuslavoristica, contabile, fiscale e igienico-sanitaria.
Soggetti non imprenditori – Relativamente all'attività di acconciatore, la legge ammette anche la possibilità di prestazione dell'attività da parte di soggetti non imprenditori, purché possiedano i requisiti professionali. Quindi gli esercenti di attività di acconciatore o di estetista, possono adesso consentire l'utilizzo dei propri spazi sia ad acconciatori che ad estetisti. L' unica condizione posta dalla normativa nazionale è che siano in possesso dei titoli abilitanti all'esercizio della professione.
Incentivata l’iniziativa privata - Da oggi chi avrà nel proprio salone di bellezza uno spazio poco utilizzato, potrà affittare la poltrona migliorando così la redditività della propria impresa e garantendo maggiori servizi. In particolare i giovani acconciatori ed estetisti che non dispongono di propri locali adeguati, potranno comunque avviare la loro attività. Questa possibilità inoltre non lede i diritti dei consumatori, e non abbassa la qualità e la sicurezza del servizio, visto che i nuovi affitti dovranno comunque rispettare le norme vigenti. La circolare dello Sviluppo Economico, vuole essere, in un periodo di difficoltà economica, un contributo al rilancio dell'iniziativa imprenditoriale.
Attività di estetista - Relativamente all’attività di estetista, la normativa, prevede che l'attività professionale di estetista sia esercitata in forma di impresa, non consentendo l'esercizio ai soggetti non iscritti all'Albo delle imprese artigiane o nel Registro delle imprese. Peraltro l’art. 9, comma 1, della Legge n. 1 del 1990, nell’ammettere l’esercizio congiunto delle attività di estetista e di acconciatore nella medesima sede, fa riferimento unicamente ai requisiti professionali da possedere per l’esercizio delle rispettive attività, non anche all’esercizio di impresa. Ciò significa non solo che l’attività congiunta può essere esercitata tra due distinte imprese, ma anche che all’interno della stessa impresa possono operare soggetti in possesso di titoli abilitativi diversi (estetista e/o acconciatore). Ne deriva che un’impresa singola può esercitare l’attività in entrambi i campi purché al suo interno vi siano operatori in possesso dei rispettivi titoli abilitativi.
Dalla suddetta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, conseguirebbe che l’esercente dell’attività di impresa tanto di acconciatura quanto di estetista possa consentire l’utilizzo dei propri spazi (mediante tutte le forme contrattuali consentite dalla legislazione) sia ad acconciatori che estetisti, con la sola condizione che questi siano in possesso dei prescritti titoli abilitativi.
Altri requisiti necessari - Le suddette possibilità di affitto di poltrona e di affitto di cabina, consentite in base alla legislazione statale attualmente vigente come sopra esposto, naturalmente non devono prescindere dal rispetto dalle ulteriori disposizioni previste dalla legislazione nazionale e dalla legislazione regionale in materia contrattuale, giuslavoristica, contabile, fiscale e igienico-sanitaria.
Autore: Redazione Fiscal Focus
Redditometro in Unico
4 febbraio 2014
Nell’informativa privacy accolti i rilievi dell’Authority
Premessa –
Le dichiarazioni dei redditi conterranno l’informativa sul possibile
utilizzo dei dati per la versione 2.0 dello strumento di accertamento.
Questo è quanto risulta dalle bozze di Unico 2014 e dalle versioni
definitive del modello 730/2014 e Cud 2014.
Garante della privacy - Per la partenza del redditometro nella nuova versione post D.L. 78/2010, era necessario il parere favorevole all’utilizzo del nuovo strumento di accertamento da parte del Garante della privacy. Ora tale parere è stato ottenuto, secondo quanto affermato dall’Authority, l'Agenzia delle Entrate dovrà adottare una serie di misure e accorgimenti per ridurre al minimo i rischi per la privacy delle persone e nel contempo rendere lo strumento di accertamento più efficace nella lotta all'evasione fiscale.
Informativa – Tra le varie osservazioni sollevate figurava anche il contenuto dell'informativa con la quale lo stesso ente notifica l'invito al contraddittorio al contribuente, specificando che ad oggi non risulta chiara l'indicazione dei poteri utilizzati dall'Agenzia delle Entrate nell'ambito del trattamento dei dati personali del contribuente, nonché la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati e le conseguenze di un eventuale rifiuto, anche parziale, a rispondere del contribuente (artt. 11, co. 1, lett. a) e b), e 13, co. 1, lett. a), b) e c) del Codice). Inoltre secondo il Garante della privacy il contribuente deve essere informato, attraverso l'apposita informativa allegata al modello di dichiarazione dei redditi e disponibile anche sul sito dell'Agenzia delle Entrate, del fatto che i suoi dati personali saranno utilizzati anche ai fini del redditometro.
Istruzioni – Questi rilievi sono stati accolti nelle dichiarazioni dei redditi 2014 periodo d’imposta 2013. Il rilascio delle versioni definitive di alcuni modelli di dichiarazione, come per esempio il Cud e il 730, ha rappresentato l'occasione per adeguarsi. L'informativa privacy ricorda infatti che il nuovo redditometro, che ricostruisce l'effettiva capacità contributiva in base alle spese sostenute nell'anno, si applica a partire dal periodo d'imposta 2009 (vale a dire dalle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2010). Proprio per questo “i dati personali, presenti in Anagrafe Tributaria, nonché ottenuti tramite scambi di informazioni con altre autorità pubbliche e soggetti privati conformemente alla legge, verranno utilizzati per l'attività accertativa”.
Contraddittorio - L'informativa pubblicata sul sito dell'Agenzia e alla quale i modelli dichiarativi 2014 faranno riferimento, precisa, inoltre, che solo nel caso in cui il contribuente invitato al contraddittorio “non si presenti e non risulti intestatario di un immobile in proprietà o altro diritto reale (ad es. usufrutto) o in locazione o leasing immobiliare o in uso gratuito da familiare o, pur presentandosi, non fornisca chiarimenti in merito, l'Agenzia procede a imputare allo stesso anche il fitto figurativo, sulla base dei valori dell'Osservatorio del mercato immobiliare secondo le modalità previste dal dm 24 dicembre 2012”.
Cud – Al il modello Cud 2014 ha accolto i rilievi del Garante della Privacy. Con la nuova struttura e formulazione, infatti, fermo restando che sono sostanzialmente forniti gli stessi dati di natura fiscale e/o previdenziale, il modello ha cambiato natura ed è stato omologato come una vera e propria dichiarazione. Tale situazione è rappresentata nel primo capitolo del modello, al primo paragrafo, dedicato all’informativa sul trattamento dei dati personali. Anche in questo caso la finalità di tale modifica è determinata dalla necessità di includere il Cud tra le dichiarazioni fiscali soggette al nuovo redditometro.
Garante della privacy - Per la partenza del redditometro nella nuova versione post D.L. 78/2010, era necessario il parere favorevole all’utilizzo del nuovo strumento di accertamento da parte del Garante della privacy. Ora tale parere è stato ottenuto, secondo quanto affermato dall’Authority, l'Agenzia delle Entrate dovrà adottare una serie di misure e accorgimenti per ridurre al minimo i rischi per la privacy delle persone e nel contempo rendere lo strumento di accertamento più efficace nella lotta all'evasione fiscale.
Informativa – Tra le varie osservazioni sollevate figurava anche il contenuto dell'informativa con la quale lo stesso ente notifica l'invito al contraddittorio al contribuente, specificando che ad oggi non risulta chiara l'indicazione dei poteri utilizzati dall'Agenzia delle Entrate nell'ambito del trattamento dei dati personali del contribuente, nonché la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati e le conseguenze di un eventuale rifiuto, anche parziale, a rispondere del contribuente (artt. 11, co. 1, lett. a) e b), e 13, co. 1, lett. a), b) e c) del Codice). Inoltre secondo il Garante della privacy il contribuente deve essere informato, attraverso l'apposita informativa allegata al modello di dichiarazione dei redditi e disponibile anche sul sito dell'Agenzia delle Entrate, del fatto che i suoi dati personali saranno utilizzati anche ai fini del redditometro.
Istruzioni – Questi rilievi sono stati accolti nelle dichiarazioni dei redditi 2014 periodo d’imposta 2013. Il rilascio delle versioni definitive di alcuni modelli di dichiarazione, come per esempio il Cud e il 730, ha rappresentato l'occasione per adeguarsi. L'informativa privacy ricorda infatti che il nuovo redditometro, che ricostruisce l'effettiva capacità contributiva in base alle spese sostenute nell'anno, si applica a partire dal periodo d'imposta 2009 (vale a dire dalle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2010). Proprio per questo “i dati personali, presenti in Anagrafe Tributaria, nonché ottenuti tramite scambi di informazioni con altre autorità pubbliche e soggetti privati conformemente alla legge, verranno utilizzati per l'attività accertativa”.
Contraddittorio - L'informativa pubblicata sul sito dell'Agenzia e alla quale i modelli dichiarativi 2014 faranno riferimento, precisa, inoltre, che solo nel caso in cui il contribuente invitato al contraddittorio “non si presenti e non risulti intestatario di un immobile in proprietà o altro diritto reale (ad es. usufrutto) o in locazione o leasing immobiliare o in uso gratuito da familiare o, pur presentandosi, non fornisca chiarimenti in merito, l'Agenzia procede a imputare allo stesso anche il fitto figurativo, sulla base dei valori dell'Osservatorio del mercato immobiliare secondo le modalità previste dal dm 24 dicembre 2012”.
Cud – Al il modello Cud 2014 ha accolto i rilievi del Garante della Privacy. Con la nuova struttura e formulazione, infatti, fermo restando che sono sostanzialmente forniti gli stessi dati di natura fiscale e/o previdenziale, il modello ha cambiato natura ed è stato omologato come una vera e propria dichiarazione. Tale situazione è rappresentata nel primo capitolo del modello, al primo paragrafo, dedicato all’informativa sul trattamento dei dati personali. Anche in questo caso la finalità di tale modifica è determinata dalla necessità di includere il Cud tra le dichiarazioni fiscali soggette al nuovo redditometro.
Autore: Redazione Fiscal Focus
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