Sull’istanza non può formarsi un provvedimento impugnabile di silenzio-rifiuto
Differentemente dall’istanza di rimborso di tributi, su quella di
autotutela – promossa dal contribuente per chiedere l’annullamento di
atti impositivi a lui notificati – non può formarsi provvedimento di
silenzio-rifiuto, laddove l’Amministrazione finanziaria sia rimasta
inerte. Così ha deciso la Commissione provinciale di Brindisi (sentenza
n. 40 del 18 marzo 2008), rigettando completamente il ricorso contro
alcuni avvisi di accertamento notificati al contribuente nella sua
residenza “secondaria”.
La vicenda comincia con la notifica al contribuente, presso la casa circondariale, di sei avvisi di accertamento, avverso i quali non fu proposta alcuna impugnazione, a causa “delle condizioni psichiche dovute allo stato di reclusione”. Al ricevimento della conseguente cartella di pagamento, il contribuente presentò istanza di autotutela, sostenendo l’illegittimità degli avvisi di accertamento che non avrebbero tenuto che egli, negli anni oggetto di recupero, era stato semplice intermediario agricolo, con percezione di una provvigione dell’1 per cento.
L’agenzia delle Entrate non si pronunciò in merito all’istanza. Da qui, il ricorso del contribuente in Ctp avverso il silenzio-rifiuto dell’ufficio alla richiesta di annullamento degli avvisi e della conseguente iscrizione a ruolo.
La Ctp di Brindisi ha deciso per l’inapplicabilità alla fattispecie esaminata dell’istituto del silenzio–rifiuto. Sulla questione – si legge nella sentenza – si erano già pronunciate le sezione unite della Cassazione (sentenze 16776/2005 e 7388/2007) laddove, in ordine al rifiuto dell’Amministrazione a procedere ad autotutela, i giudici hanno operato un distinguo tra il rifiuto espresso e il silenzio-rifiuto, affermando l’ammissibilità del ricorso contro il primo e negandola contro il secondo.
A tale riguardo, con la seconda delle citate pronunce, le Sezioni unite si erano così espresse: “nel giudizio instaurato contro il mero esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa. Ove l’atto di rifiuto dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’Amministrazione finanziaria dovrà adeguarsi a tale pronuncia. In difetto, potrà essere esperito il rimedio del ricorso in ottemperanza di cui all’art. 70 del D. Lgs. n. 546 del 1992…il carattere discrezionale del ricorso all’autotutela comporta, altresì, l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna previsione normativa specifica in materia”.
Fin qui la Suprema corte, al cui indirizzo il collegio di merito ha inteso uniformarsi in quanto, ha sostenuto, non vi è dubbio che la previsione di cui sopra non possa ritenersi esistente neppure oggi. Infatti, hanno proseguito i giudici, se è vero che l’atto di diniego espresso a esercitare l’autotutela possa ritenersi impugnabile e quindi farsi rientrare tra gli atti di cui all’articolo 19 del Dlgs 546/1992, per il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria, la stessa cosa non può dirsi per il silenzio-rifiuto. La differenza sta nel fatto che, nel primo caso, la volontà dell’Amministrazione a non esercitare l’invocata autotutela è manifestata mediante un atto amministrativo il quale necessariamente deve essere motivato e, pur avendo il carattere della discrezionalità, può sempre essere sindacato dal giudice sotto il profilo della legittimità. Nel caso del silenzio-rifiuto, invece, non può dirsi la stessa cosa, perché manca una volontà espressa dell’Amministrazione finanziaria. Il rifiuto-tacito rientra tra gli atti impugnabili ma solo con riferimento a una istanza di restituzione di tributi, non in altri casi.
Né può ritenersi, ha spiegato la sentenza, che la mancata previsione normativa dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto a esercitare l’autotutela costituisca una lacuna di tutela giurisdizionale, perché così non è. Non può essere così per due motivi. In primo luogo perché, in base alla disciplina contenuta nell’articolo 2-quater del Dl 564/1994, l’Amministrazione finanziaria può procedere all’annullamento d’ufficio o alla revoca dei propri atti soltanto per il perseguimento di interessi pubblici e non a tutela di specifici interessi di parte. In secondo luogo perché l’impugnabilità del silenzio-rifiuto, nell’ambito dell’ordinamento tributario, è stata prevista, con carattere eccezionale, solo nell’ipotesi cui sopra si accennava (silenzio-rifiuto al rimborso di tributi e accessori).
I giudici, in conclusione, hanno ritenuto che non fosse loro consentito dare un’interpretazione difforme delle norme richiamate, e cioè tale da estendere l’impugnabilità anche all’ipotesi in esame del silenzio-rifiuto, che è fattispecie completamente diversa da quella legislativamente prevista.
La vicenda comincia con la notifica al contribuente, presso la casa circondariale, di sei avvisi di accertamento, avverso i quali non fu proposta alcuna impugnazione, a causa “delle condizioni psichiche dovute allo stato di reclusione”. Al ricevimento della conseguente cartella di pagamento, il contribuente presentò istanza di autotutela, sostenendo l’illegittimità degli avvisi di accertamento che non avrebbero tenuto che egli, negli anni oggetto di recupero, era stato semplice intermediario agricolo, con percezione di una provvigione dell’1 per cento.
L’agenzia delle Entrate non si pronunciò in merito all’istanza. Da qui, il ricorso del contribuente in Ctp avverso il silenzio-rifiuto dell’ufficio alla richiesta di annullamento degli avvisi e della conseguente iscrizione a ruolo.
La Ctp di Brindisi ha deciso per l’inapplicabilità alla fattispecie esaminata dell’istituto del silenzio–rifiuto. Sulla questione – si legge nella sentenza – si erano già pronunciate le sezione unite della Cassazione (sentenze 16776/2005 e 7388/2007) laddove, in ordine al rifiuto dell’Amministrazione a procedere ad autotutela, i giudici hanno operato un distinguo tra il rifiuto espresso e il silenzio-rifiuto, affermando l’ammissibilità del ricorso contro il primo e negandola contro il secondo.
A tale riguardo, con la seconda delle citate pronunce, le Sezioni unite si erano così espresse: “nel giudizio instaurato contro il mero esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa. Ove l’atto di rifiuto dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’Amministrazione finanziaria dovrà adeguarsi a tale pronuncia. In difetto, potrà essere esperito il rimedio del ricorso in ottemperanza di cui all’art. 70 del D. Lgs. n. 546 del 1992…il carattere discrezionale del ricorso all’autotutela comporta, altresì, l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna previsione normativa specifica in materia”.
Fin qui la Suprema corte, al cui indirizzo il collegio di merito ha inteso uniformarsi in quanto, ha sostenuto, non vi è dubbio che la previsione di cui sopra non possa ritenersi esistente neppure oggi. Infatti, hanno proseguito i giudici, se è vero che l’atto di diniego espresso a esercitare l’autotutela possa ritenersi impugnabile e quindi farsi rientrare tra gli atti di cui all’articolo 19 del Dlgs 546/1992, per il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria, la stessa cosa non può dirsi per il silenzio-rifiuto. La differenza sta nel fatto che, nel primo caso, la volontà dell’Amministrazione a non esercitare l’invocata autotutela è manifestata mediante un atto amministrativo il quale necessariamente deve essere motivato e, pur avendo il carattere della discrezionalità, può sempre essere sindacato dal giudice sotto il profilo della legittimità. Nel caso del silenzio-rifiuto, invece, non può dirsi la stessa cosa, perché manca una volontà espressa dell’Amministrazione finanziaria. Il rifiuto-tacito rientra tra gli atti impugnabili ma solo con riferimento a una istanza di restituzione di tributi, non in altri casi.
Né può ritenersi, ha spiegato la sentenza, che la mancata previsione normativa dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto a esercitare l’autotutela costituisca una lacuna di tutela giurisdizionale, perché così non è. Non può essere così per due motivi. In primo luogo perché, in base alla disciplina contenuta nell’articolo 2-quater del Dl 564/1994, l’Amministrazione finanziaria può procedere all’annullamento d’ufficio o alla revoca dei propri atti soltanto per il perseguimento di interessi pubblici e non a tutela di specifici interessi di parte. In secondo luogo perché l’impugnabilità del silenzio-rifiuto, nell’ambito dell’ordinamento tributario, è stata prevista, con carattere eccezionale, solo nell’ipotesi cui sopra si accennava (silenzio-rifiuto al rimborso di tributi e accessori).
I giudici, in conclusione, hanno ritenuto che non fosse loro consentito dare un’interpretazione difforme delle norme richiamate, e cioè tale da estendere l’impugnabilità anche all’ipotesi in esame del silenzio-rifiuto, che è fattispecie completamente diversa da quella legislativamente prevista.
Gabriella Petrone
pubblicato Giovedì 17 Luglio 2008
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