''..LA COMMISSIONE ACCOGLIE IL RICORSO E ANNULLA L'AVVISO DI ACCERTAMENTO. CONDANNA L'UFFICIO AL PAGAMENTO DELLE SPESE DI GIUDIZIO CHE DETERMINA IN €....''...
...questo è il dispositivo della COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI SALERNO che vede accolte in pieno le doglianze del contribuente contro l'avviso di accertamento da REDDITOMETRO per assoluta illegittimità dell'atto di accertamento effettuato su un anno il 2008, che particamente è risultato inaccertabile con questo strumento !!!
Ricorsi : per info, costi e contatti non esiti a tefenonarci !!!!
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Ricorsi Tributari
giovedì 26 febbraio 2015
giovedì 19 febbraio 2015
2015: Nuove partite Iva, ecco come scegliere tra regime dei minimi e forfettari
Nuove partite Iva, ecco come scegliere tra regime dei minimi e forfettari
Comportamento concludente
Anzitutto si pone la questione di come rendere nota alle Entrate la scelta, in quanto per entrambi i regimi occorre barrare la casella del regime di vantaggio (inteso come quello dei minimi al 5%) nella dichiarazione di inizio attività. Al riguardo si ritiene che debba prevalere il comportamento concludente del contribuente che sulle fatture emesse indicherà la diversa norma che permette l'esclusione dall'applicazione dell'Iva:
l'articolo 1, comma 100, della legge 244/2007 per i minimi
l'articolo 1, comma 58 per i nuovi forfettari.
Inoltre la scelta apparirà in modo inequivocabile dalla compilazione di Unico 2016 in cui verranno compilati quadri diversi, dato che il primo regime (minimi) prevede la determinazione analitica del reddito, mentre il secondo (forfettario) prevede la determinazione forfettaria con una percentuale di componenti negativi predeterminata.
Poi non sono del tutto uguali i requisiti di accesso. Per esempio, nel regime forfettario il reddito da lavoro autonomo o impresa deve essere superiore a quello da lavoro dipendente o assimilato. Pertanto un contribuente pensionato che inizia una nuova attività difficilmente potrà beneficiare del regime forfettario, mentre in quello dei minimi non esiste la necessità di eseguire tale confronto. Inoltre a complicare i ragionamenti sulla convenienza vi è la regola comune secondo cui se i requisiti di accesso, previsti nel momento in cui si inizia l'attività, non sono confermati a fine 2015, è solo dal periodo d'imposta 2016 che il regime agevolato viene meno.
Quest'ultimo assunto va però esaminato alla luce di un'ulteriore regola che potrebbe indirizzare la scelta verso il nuovo regime forfettario: chi inizia un'attività e a consuntivo risulta aver incassato ricavi o compensi superiori alla soglia prefissata esce dal regime dal periodo d'imposta successivo, ma nel caso dei minimi occorre fare attenzione che il superamento della soglia non sia superiore del 50% rispetto al tetto previsto, poiché in tal caso già dall'anno in corso verrebbe azzerato il regime agevolato, con pesanti conseguenze sul fronte dell'Iva che occorrerebbe riaddebitare dall'origine.
La stessa conseguenza non si manifesta invece nel forfettario. Ad esempio, se un professionista nei minimi incassa 60mila euro dovrà ricostruire la sua posizione fiscale come se già dal 2015 fosse un soggetto ordinario, mentre se si è scelto il regime forfettario si esce dal forfait solo dal 2016 quindi mantenendo inalterata la posizione fiscale nell'anno del superamento (cioè il 2015).
Valutazione diverse anche sul fronte delle imposta dovute, poiché sono diverse le modalità di determinazione del reddito e dell'imposta sostitutiva. A prima vista potrebbe sembrare sempre conveniente il regime dei minimi che prevede una sostitutiva del 5% rispetto al 15% del regime forfettario, va però considerato, a favore di quest'ultimo regime, che vengono riconosciuti costi forfettari mentre il minimo deve documentare gli effettivi costi sostenuti. Inoltre le nuove attività nel regime forfettario hanno diritto all'abbattimento di un terzo del reddito per i primi tre anni oltre alla possibilità, riservata a commercianti e artigiani, di fruire del regime contributivo agevolato che prevede il pagamento dei contributi senza considerare il minimale fisso, che in molti casi costituisce un notevole aggravio.
Queste ultime agevolazioni non sono previste i minimi.
Sul fronte Iva l'esclusione dall'addebito dell'imposta (e il divieto di detrazione) e il versamento dell'Iva acquisti per le operazioni interne soggette a reverse charge accomuna i due regimi. Qualche differenza si registra sulle operazioni con soggetti esteri, soprattutto per gli acquisti di beni intracomunitari. Per quanto riguarda i minimi la circolare 36/E/2010 ha affermato che si tratta sempre di operazioni Intra che necessitano il versamento di Iva mentre per il forfettario gli stessi acquisti, entro la soglia di 10mila euro annui, non sono considerate operazioni intracomunitarie.
di Paolo Meneghetti
mercoledì 11 febbraio 2015
Nuovo regime forfetario, domanda per contributi agevolati entro il 28 febbraio
Nuovo regime forfetario, domanda per contributi agevolati entro il 28 febbraio
Con la circolare n. 29 pubblicata ieri, l’INPS ha fornito chiarimenti in merito all’agevolazione prevista dal nuovo regime fiscale agevolato per autonomi (ex L. 190/2014) ai fini della determinazione dei contributi previdenziali dovuti dagli imprenditori individuali alle Gestioni artigiani e commercianti dell’INPS. L’agevolazione consente di determinare i contributi dovuti:- applicando le aliquote contributive previste per le Gestioni degli artigiani e c
FONTE: EUTEKNE/ Paola RIVETTI
http://www.inps.it/CircolariZIP/Circolare%20numero%2029%20del%2010-02-2015.pdf
sabato 7 febbraio 2015
Senza delega accertamento nullo
11 maggio 2014
Se l'accertamento non è sottoscritto dal capo ufficio, l'agenzia delle Entrate deve esibire la specifica delega a favore del sottoscrittore, pena l'illegittimità dell'atto.
Il principio, da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si sta finalmente consolidando anche in alcune commissioni di merito, che si erano sempre mostrate abbastanza diffidenti sulla dichiarazione di nullità di atti privi di valida firma.
Le ultime due pronunce in tal senso giungono dalla Commissione tributaria provinciale (Ctp) di Reggio Emilia (sentenze 187 e 195, depositate rispettivamente il 22 ed 24 aprile 2014), che hanno ritenuto nulli gli accertamenti perché l'ufficio non aveva prodotto la delega di firma citata negli atti impositivi.
Di sovente gli accertamenti, soprattutto quando riguardano rettifiche per importi non particolarmente elevati, sono sottoscritti da un dirigente/funzionario delegato dal direttore provinciale o dal direttore regionale. In questi casi, nell'atto è riportato il nome di chi sottoscrive l'avviso, talvolta con la qualifica e la dicitura «firma su delega del Direttore Provinciale…».
A norma dell'articolo 42 del Dpr 600/73, gli accertamenti in rettifica e quelli d'ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.
È la stessa norma, poi, a prevedere che l'accertamento è nullo se l'avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni e le motivazioni previste.
Sul punto, un costante orientamento giurisprudenziale di legittimità (cfr. Cass. n. 14942/13, Cass. n. 17400/12, n. 6884/2011, 14626/00 e 10513/08, Ctr Milano n. 141/09, Ctr Torino n. 58/11) ha ritenuto che in tema di imposte sui redditi e di Iva gli accertamenti sono nulli tutte le volte che non risultano sottoscritti dal capo dell'ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva validamente delegato.
Non si contesta, dunque, il potere del Direttore di delegare la sottoscrizione dell'atto impositivo ma, molto più semplicemente, la mancata allegazione della delega in base alla quale, evidentemente, l'atto è stato sottoscritto. Non si può, infatti, astrattamente escludere che il suddetto provvedimento di delega possa essere affetto da un vizio che lo renda invalido (rilascio successivo all'emissione dell'accertamento, potere di firma per accertamenti di importi inferiori, ecc….).
Questa affermazione può allora essere superata solo se la delega è conosciuta, consentendo così al contribuente interessato di esaminarla e verificarne la conformità alla legge.
I giudici di legittimità hanno ripetutamente affermato che incombe sull'agenzia delle Entrate l'onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega.
La chiarezza delle norme e l'interpretazione che di esse correttamente è stata data dalla Cassazione esonerano il contribuente ricorrente dalla necessità di formulare ulteriori considerazioni a sostegno della dedotta nullità dei provvedimenti, rimettendo, invece, all'Agenzia l'onere della prova della correttezza del proprio operato.
In applicazione dei citati principi, la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 187/3/14 (Pres. e Rel. Montanari) ha dichiarato l'illegittimità di un accertamento, in quanto nonostante l'eccezione sollevata dalla ricorrente, l'ufficio in giudizio non ha prodotto alcuna delega.
In considerazione dello stato della giurisprudenza è quindi opportuno che questo motivo di ricorso venga puntualmente proposto dal contribuente in occasione dell'impugnazione di primo grado e successivamente, una volta esibita la delega, che essa venga esaminata per verificare la correttezza della medesima.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ctp Reggio Emilia n. 187/3/2014
Incombe sull'ufficio l'onere di produrre in giudizio una delega atta a dimostrare la valida sottoscrizione dell'avviso di accertamento. In assenza l'atto si deve considerare nullo
Ctp Reggio Emilia n. 195/3/2014
La delega prodotta deve essere personalizzata e non stereotipata. In assenza di dati precisi, ovvero di riferimenti nominativi, deve ritenersi inutilizzabile ai fini della prova e quindi l'atto è nullo
Ctp Rimini n. 184/2/2013
È nullo l'accertamento se l'ufficio non contesta alcunché sull'eccezione sollevata dal ricorrente circa la validità
della firma dell'avviso di accertamento
Cassazione n. 14942/2013
Anche per gli accertamenti Iva vale il potere di firma previsto
ai fini delle imposte dirette, in forza del richiamo operato
dall'articolo 56 del decreto Iva
Cassazione n. 17400/2012
In caso di contestazione sulla validità della firma, incombe sull'amministrazione l'onere di dimostrare il corretto esercizio
del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore
Leggi Termini e condizioni
Leggi Regole della Community
Lo studio di settore ‘ mal si attaglia’ al trasporto pubblico locale
Un recente giudizio Tributario conclusosi
con una pronuncia del 01/10/2012 della
Commissione Tributaria
Regione Campania, depositata il 10/10/2012 ha accolto l’appello
del contribuente annullando completamente l’ avviso di accertamento basato sugli studi di settore, che vedeva il
recupero a tassazione di maggiori ricavi per oltre 158.000,00 Euro.
Così, il
collegio, in riforma della sentenza di primo grado, motiva
l’accoglimento dell’appello del contribuente, facendo proprie le
deduzioni difensive della parte, e ritenendo
dunque, fondate le motivazioni e le doglianze esposte in sede di
contradditorio : ‘’ poiché la società
opera nel settore del trasporto pubblico, completamente regolato da obblighi di
servizio tali da non rendere applicabili logiche concorrenziali e/o opportunità
di mercato che possano influire considerevolmente su maggiori ricavi ‘’.
Il caso di
specie, è stato un ottimo ed interessante spunto professionale, per vedere
finalmente applicato, fra l’altro, la centralità del contraddittorio e
la concreta modalità di svolgimento dell’attività al processo tributario, principi più volte richiamati
dalla stessa Cassazione Sez. Unite ( sent. n. 26635/26636/26637/26638 del
18/09/2009).
In definitiva, si potrebbe arrivare all’ardua
considerazione finale dell’inapplicabilità degli studi di settore al comparto
del TRASPORTO PUBBLICO LOCALE, a parere di chi scrive, un consequenziale e dovuto cambio di
direzione.
Carmela Daniele
Dottore Commercialista , Ordine di Salerno
martedì 3 febbraio 2015
Autotutela del contribuente, con il silenzio fisco tenuto all’indennizzo
Di Sergio Trovato
L’amministrazione pubblica che non adotta un provvedimento di accoglimento o di rigetto dell’istanza di autotutela proposta dal contribuente, entro il termine per ricorrere innanzi al giudice tributario, deve essere condannata a un indennizzo per aver dato luogo a un giudizio che poteva essere evitato. Si tratta di un comportamento dettato da malafede o colpa grave che dà luogo a una responsabilità aggravata dell’amministrazione finanziaria. L’ente impositore ha un obbligo non solo morale, ma anche giuridico di emettere un provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo. Lo ha stabilito la Commissione tributaria provinciale di Campobasso, prima sezione, con la sentenza n. 195 del 16 giugno 2014. Per i giudici molisani, tenuto conto che il termine di legge per proporre ricorso contro un atto di accertamento non può essere superiore a 60 giorni, in presenza di un’istanza di autotutela del contribuente «l’ente impositore ha l’obbligo, non solo morale, ma giuridico di emettere il provvedimento conclusivo, positivo o negativo che sia, del predetto procedimento, prima della scadenza del termine». In caso contrario, vengono lesi i diritti del contribuente e l’amministrazione finanziaria risponde per responsabilità aggravata. In base a quanto disposto dall’art. 96 del codice di procedura civile, infatti, anche il fisco può essere condannato a un indennizzo da determinare equitativamente da parte del giudice e, questa sanzione, è posta a carico della «parte che, con il suo comportamento, anche preprocessuale, ha dato luogo a un giudizio che doveva essere evitato.
Anche l’attività della pubblica amministrazione deve, quindi, esseresvolta nel rispetto del principio del neminem laedere sancito dall’art. 2043 del codice civile. Il giudice, poi, ha il potere di accertare se l’amministrazione abbia adottato un comportamento doloso o colposo in violazione di questa regola. Qualora abbia arrecato la lesione a un diritto soggettivo è tenuta a subire le conseguenze stabilite dalla norma civilistica e a pagare i danni all’interessato.
MPUGNABILITA’ DEL SILENZIO AVVERSO L’ISTANZA DI AUTOTUTELA E INTERESSE PUBBLICO ALL’ANNULLAMENTO.
Corte di Cassazione, sez. trib., 24 maggio 2013, sent. n. 12930, con nota di Avv. V. Ficari
1.
La Corte di Cassazione interviene nuovamente sul tema della tutela
processuale del contribuente avverso il mancato esercizio del
potere/dovere di autotutela (1) consolidando alcuni suoi precedenti ma
esprimendo, anche, delle nuove prospettive.
La
Suprema Corte ribadisce la giurisdizione tributaria in materia,
riconoscendo così che la controversia sul mancato esercizio
dell’autotutela abbia natura tributaria.
La
Corte di Cassazione, dopo aver esposto tale ormai nota premessa, si
preoccupa di ricordare che il sindacato giurisdizionale non può, però,
costituire un bis in idem tale da trasformare i termini di
impugnazione da perentori in ordinatori; di conseguenza, il giudice
adito si dovrebbe limitare a verificare la legittimità del rifiuto «nelle forme ammesse sugli atti discrezionali» senza valutare il merito.
Sotto il profilo, invece, dell’ammissibilità del ricorso e del suo oggetto, la sentenza esprime delle novità.
Si
deve menzionare, innanzitutto, l’avvenuto riconoscimento
dell’ammissibilità di un ricorso avverso (non solo il diniego espresso
di autotutela ma anche) il silenzio formatosi sull’istanza di
autotutela: sul punto, infatti, i giudici non si pongono affatto la
questione della sussistenza o meno di un “atto” impugnabile, dando così quasi per scontata l’impugnabilità del mero silenzio.
I
giudici di legittimità, quindi, sulla scia di un orientamento recente,
condizionano l’ammissibilità ad un dato contenutistico dell’istanza e,
cioè, che esista «un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto».
2.
Affrontando i profili di novità, si deve ricordare che l’impugnabilità
del mero silenzio a fronte di una richiesta di annullamento d’ufficio in
passato è stata esclusa, assumendosi come eccezionali i casi in cui il
contribuente possa agire a seguito di una situazione di inerzia
dell’Ufficio pubblico.
A
fronte dell’eccezione sollevata dall’Agenzia delle entrate ricorrente
che deduceva l’esclusività dell’azione di rimborso nel panorama delle
azioni avverso il silenzio, la Corte di Cassazione risolve la questione
con la più generale affermazione della natura tributaria della
controversia relativa «agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria»
senza, però, considerare che la controversia si era incardinata non su
di un diniego espresso di autotutela ma sul silenzio dell’Ufficio a
fronte dell’istanza.
Prof. Avv. Valerio Ficari on gennaio 20, 2015
Autotutela: limiti giurisdizionali su “obiezioni” per silenzi o rifiuti
L’atto di diniego è impugnabile,
secondo la Cassazione, solo per vizi dello stesso, perché, ad esempio, è
firmato da soggetto non legittimato o è fondato su motivi
contraddittori
Le controversie relative al diniego o al silenzio in materia di
autotutela tributaria rientrano nella giurisdizione tributaria, ma il
contribuente può proporre impugnazione solo per contestare eventuali
vizi propri del diniego e non anche per contestare la fondatezza della
pretesa tributaria.
L’autotutela tributaria
Nel diritto tributario, l’autotutela è disciplinata dall’articolo 2-quater del decreto legge 564/1994 e dal decreto ministeriale 37/1997, con cui è stato adottato, in attuazione del citato articolo 2-quater, il “Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell'Amministrazione Finanziaria”.
L’autotutela è il rimedio con cui l’Amministrazione finanziaria esercita lo ius poenitendi, vale a dire il potere di riesaminare la propria azione e, conseguentemente, annullare d’ufficio i propri atti che ritenga viziati sotto il profilo della legittimità.
Il potere di autotutela è esercitabile d’ufficio, anche in assenza di richiesta di parte.
L’eventuale richiesta dell’interessato, infatti, vale esclusivamente a sollecitare un’attività che può essere avviata sulla base di una determinazione autonoma dell’ufficio (con riferimento all’esercizio dell’autotutela nell’ambito del diritto amministrativo, cfr Consiglio di Stato, n. 4308 del 6 luglio 2010 e n. 5199 del 3 ottobre 2012).
La richiesta di autotutela, pertanto, non fa sorgere in capo all’ufficio l’obbligo giuridico di provvedere né, secondo alcuni, di fornire risposta al contribuente.
La giurisdizione tributaria e la proponibilità della domanda
Le controversie riguardanti il diniego di autotutela in materia tributaria rientrano nella giurisdizione tributaria, alla quale sono attribuiti, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 546/1992, tutti i giudizi riguardanti “i tributi di ogni genere e specie” (cfr Cassazione, sezioni unite, n. 16776/2005, ove è stato precisato che sussiste la “giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito della Amministrazione a procedere ad autotutela”; cfr anche Cassazione, sezioni unite, nn. 2870/2009, 3698/2009, 7388/2007, 9669/2009 e Cassazione, nn. 15451/2010 e 22866/2011).
Occorre, tuttavia, precisare che i ricorsi introduttivi di tali controversie sono di norma inammissibili. In particolare, è inammissibile il ricorso avverso il diniego meramente confermativo della pretesa tributaria, proposto al fine di contestare la fondatezza della stessa pretesa.
In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, avverso un diniego di autotutela confermativo (della pretesa), non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale, in quanto al contribuente non è consentito chiedere al giudice di rimettere in discussione la pretesa erariale (Cassazione, n. 2870/2009).
Il sindacato della Commissione tributaria, infatti, non può estendersi fino alla valutazione della fondatezza dell’originaria pretesa, in quanto è precluso al giudice procedere all’annullamento degli atti non impugnati ritualmente (cfr Cassazione, n. 1219/2011 e anche n. 12930/2013, con cui la Cassazione, con riferimento a una sentenza che si era pronunciata sull’impugnazione di un silenzio formatosi sulla richiesta di autotutela relativa a un atto di classamento di immobili, ha precisato che “L’impugnata sentenza… avendo provveduto a valutare la fondatezza della pretesa avanzata dalla contribuente, va, in conseguenza cassata…”).
Tale conclusione si giustifica in ragione sia della natura discrezionale propria dell’esercizio dell’autotutela sia del principio della certezza dei rapporti giuridici, che non consente di rimettere in discussione davanti al giudice la pretesa tributaria contenuta in atti definitivi (Cassazione, n. 11127/2012). La Cassazione ha, infatti, chiarito che “avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale” (Cassazione, nn. 11457 e 18807 del 2010).
La discrezionalità dell’esercizio del potere di autotutela esclude, quindi, la configurabilità di un obbligo – giuridicamente tutelato – a provvedere, come anche, secondo alcuni, di un obbligo a esternare l’eventuale rigetto della richiesta.
A tale riguardo, la Corte di cassazione ha chiarito che in sede giudiziale è possibile effettuare esclusivamente un sindacato sul corretto esercizio del potere dell’Amministrazione, “nell’ambito della legittimità dell’operato… e non del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del giudice tributario all’Amministrazione nell’adozione di un atto di autotutela” (Cassazione, sezioni unite, 26313/2010; cfr anche Cassazione nn. 10020/2012, 7687/2012 e 15451/2010).
In particolare, è stato precisato che “contro il diniego dell’amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria (cfr. Cass. n. 11457/2010; n. 16097/2009). Giacché fuori dalla ridetta situazione, l’atto con il quale l’amministrazione finanziaria manifesta il rifiuto di ritirare in autotutela un atto impositivo divenuto definitivo - stante la relativa discrezionalità - non è suscettibile di essere impugnato innanzi alle commissioni tributarie (v. sez. un. n. 3698/2009)” (Cassazione, nn. 10020 e 19740 del 2012).
In sintesi, l’impugnabilità dell’atto di diniego dell’autotutela, secondo la Corte suprema, è ammissibile solo per far valere vizi propri del medesimo atto (ad esempio, perché sottoscritto da soggetto non legittimato o perché fondato su motivi contraddittori).
L’autotutela tributaria
Nel diritto tributario, l’autotutela è disciplinata dall’articolo 2-quater del decreto legge 564/1994 e dal decreto ministeriale 37/1997, con cui è stato adottato, in attuazione del citato articolo 2-quater, il “Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell'Amministrazione Finanziaria”.
L’autotutela è il rimedio con cui l’Amministrazione finanziaria esercita lo ius poenitendi, vale a dire il potere di riesaminare la propria azione e, conseguentemente, annullare d’ufficio i propri atti che ritenga viziati sotto il profilo della legittimità.
Il potere di autotutela è esercitabile d’ufficio, anche in assenza di richiesta di parte.
L’eventuale richiesta dell’interessato, infatti, vale esclusivamente a sollecitare un’attività che può essere avviata sulla base di una determinazione autonoma dell’ufficio (con riferimento all’esercizio dell’autotutela nell’ambito del diritto amministrativo, cfr Consiglio di Stato, n. 4308 del 6 luglio 2010 e n. 5199 del 3 ottobre 2012).
La richiesta di autotutela, pertanto, non fa sorgere in capo all’ufficio l’obbligo giuridico di provvedere né, secondo alcuni, di fornire risposta al contribuente.
La giurisdizione tributaria e la proponibilità della domanda
Le controversie riguardanti il diniego di autotutela in materia tributaria rientrano nella giurisdizione tributaria, alla quale sono attribuiti, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 546/1992, tutti i giudizi riguardanti “i tributi di ogni genere e specie” (cfr Cassazione, sezioni unite, n. 16776/2005, ove è stato precisato che sussiste la “giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito della Amministrazione a procedere ad autotutela”; cfr anche Cassazione, sezioni unite, nn. 2870/2009, 3698/2009, 7388/2007, 9669/2009 e Cassazione, nn. 15451/2010 e 22866/2011).
Occorre, tuttavia, precisare che i ricorsi introduttivi di tali controversie sono di norma inammissibili. In particolare, è inammissibile il ricorso avverso il diniego meramente confermativo della pretesa tributaria, proposto al fine di contestare la fondatezza della stessa pretesa.
In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, avverso un diniego di autotutela confermativo (della pretesa), non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale, in quanto al contribuente non è consentito chiedere al giudice di rimettere in discussione la pretesa erariale (Cassazione, n. 2870/2009).
Il sindacato della Commissione tributaria, infatti, non può estendersi fino alla valutazione della fondatezza dell’originaria pretesa, in quanto è precluso al giudice procedere all’annullamento degli atti non impugnati ritualmente (cfr Cassazione, n. 1219/2011 e anche n. 12930/2013, con cui la Cassazione, con riferimento a una sentenza che si era pronunciata sull’impugnazione di un silenzio formatosi sulla richiesta di autotutela relativa a un atto di classamento di immobili, ha precisato che “L’impugnata sentenza… avendo provveduto a valutare la fondatezza della pretesa avanzata dalla contribuente, va, in conseguenza cassata…”).
Tale conclusione si giustifica in ragione sia della natura discrezionale propria dell’esercizio dell’autotutela sia del principio della certezza dei rapporti giuridici, che non consente di rimettere in discussione davanti al giudice la pretesa tributaria contenuta in atti definitivi (Cassazione, n. 11127/2012). La Cassazione ha, infatti, chiarito che “avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale” (Cassazione, nn. 11457 e 18807 del 2010).
La discrezionalità dell’esercizio del potere di autotutela esclude, quindi, la configurabilità di un obbligo – giuridicamente tutelato – a provvedere, come anche, secondo alcuni, di un obbligo a esternare l’eventuale rigetto della richiesta.
A tale riguardo, la Corte di cassazione ha chiarito che in sede giudiziale è possibile effettuare esclusivamente un sindacato sul corretto esercizio del potere dell’Amministrazione, “nell’ambito della legittimità dell’operato… e non del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del giudice tributario all’Amministrazione nell’adozione di un atto di autotutela” (Cassazione, sezioni unite, 26313/2010; cfr anche Cassazione nn. 10020/2012, 7687/2012 e 15451/2010).
In particolare, è stato precisato che “contro il diniego dell’amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria (cfr. Cass. n. 11457/2010; n. 16097/2009). Giacché fuori dalla ridetta situazione, l’atto con il quale l’amministrazione finanziaria manifesta il rifiuto di ritirare in autotutela un atto impositivo divenuto definitivo - stante la relativa discrezionalità - non è suscettibile di essere impugnato innanzi alle commissioni tributarie (v. sez. un. n. 3698/2009)” (Cassazione, nn. 10020 e 19740 del 2012).
In sintesi, l’impugnabilità dell’atto di diniego dell’autotutela, secondo la Corte suprema, è ammissibile solo per far valere vizi propri del medesimo atto (ad esempio, perché sottoscritto da soggetto non legittimato o perché fondato su motivi contraddittori).
Michela Grisini
pubblicato Martedì 6 Maggio 2014
Autotutela, inutile chiedere al giudice se l’ufficio non risponde
Sull’istanza non può formarsi un provvedimento impugnabile di silenzio-rifiuto
Differentemente dall’istanza di rimborso di tributi, su quella di
autotutela – promossa dal contribuente per chiedere l’annullamento di
atti impositivi a lui notificati – non può formarsi provvedimento di
silenzio-rifiuto, laddove l’Amministrazione finanziaria sia rimasta
inerte. Così ha deciso la Commissione provinciale di Brindisi (sentenza
n. 40 del 18 marzo 2008), rigettando completamente il ricorso contro
alcuni avvisi di accertamento notificati al contribuente nella sua
residenza “secondaria”.
La vicenda comincia con la notifica al contribuente, presso la casa circondariale, di sei avvisi di accertamento, avverso i quali non fu proposta alcuna impugnazione, a causa “delle condizioni psichiche dovute allo stato di reclusione”. Al ricevimento della conseguente cartella di pagamento, il contribuente presentò istanza di autotutela, sostenendo l’illegittimità degli avvisi di accertamento che non avrebbero tenuto che egli, negli anni oggetto di recupero, era stato semplice intermediario agricolo, con percezione di una provvigione dell’1 per cento.
L’agenzia delle Entrate non si pronunciò in merito all’istanza. Da qui, il ricorso del contribuente in Ctp avverso il silenzio-rifiuto dell’ufficio alla richiesta di annullamento degli avvisi e della conseguente iscrizione a ruolo.
La Ctp di Brindisi ha deciso per l’inapplicabilità alla fattispecie esaminata dell’istituto del silenzio–rifiuto. Sulla questione – si legge nella sentenza – si erano già pronunciate le sezione unite della Cassazione (sentenze 16776/2005 e 7388/2007) laddove, in ordine al rifiuto dell’Amministrazione a procedere ad autotutela, i giudici hanno operato un distinguo tra il rifiuto espresso e il silenzio-rifiuto, affermando l’ammissibilità del ricorso contro il primo e negandola contro il secondo.
A tale riguardo, con la seconda delle citate pronunce, le Sezioni unite si erano così espresse: “nel giudizio instaurato contro il mero esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa. Ove l’atto di rifiuto dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’Amministrazione finanziaria dovrà adeguarsi a tale pronuncia. In difetto, potrà essere esperito il rimedio del ricorso in ottemperanza di cui all’art. 70 del D. Lgs. n. 546 del 1992…il carattere discrezionale del ricorso all’autotutela comporta, altresì, l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna previsione normativa specifica in materia”.
Fin qui la Suprema corte, al cui indirizzo il collegio di merito ha inteso uniformarsi in quanto, ha sostenuto, non vi è dubbio che la previsione di cui sopra non possa ritenersi esistente neppure oggi. Infatti, hanno proseguito i giudici, se è vero che l’atto di diniego espresso a esercitare l’autotutela possa ritenersi impugnabile e quindi farsi rientrare tra gli atti di cui all’articolo 19 del Dlgs 546/1992, per il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria, la stessa cosa non può dirsi per il silenzio-rifiuto. La differenza sta nel fatto che, nel primo caso, la volontà dell’Amministrazione a non esercitare l’invocata autotutela è manifestata mediante un atto amministrativo il quale necessariamente deve essere motivato e, pur avendo il carattere della discrezionalità, può sempre essere sindacato dal giudice sotto il profilo della legittimità. Nel caso del silenzio-rifiuto, invece, non può dirsi la stessa cosa, perché manca una volontà espressa dell’Amministrazione finanziaria. Il rifiuto-tacito rientra tra gli atti impugnabili ma solo con riferimento a una istanza di restituzione di tributi, non in altri casi.
Né può ritenersi, ha spiegato la sentenza, che la mancata previsione normativa dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto a esercitare l’autotutela costituisca una lacuna di tutela giurisdizionale, perché così non è. Non può essere così per due motivi. In primo luogo perché, in base alla disciplina contenuta nell’articolo 2-quater del Dl 564/1994, l’Amministrazione finanziaria può procedere all’annullamento d’ufficio o alla revoca dei propri atti soltanto per il perseguimento di interessi pubblici e non a tutela di specifici interessi di parte. In secondo luogo perché l’impugnabilità del silenzio-rifiuto, nell’ambito dell’ordinamento tributario, è stata prevista, con carattere eccezionale, solo nell’ipotesi cui sopra si accennava (silenzio-rifiuto al rimborso di tributi e accessori).
I giudici, in conclusione, hanno ritenuto che non fosse loro consentito dare un’interpretazione difforme delle norme richiamate, e cioè tale da estendere l’impugnabilità anche all’ipotesi in esame del silenzio-rifiuto, che è fattispecie completamente diversa da quella legislativamente prevista.
La vicenda comincia con la notifica al contribuente, presso la casa circondariale, di sei avvisi di accertamento, avverso i quali non fu proposta alcuna impugnazione, a causa “delle condizioni psichiche dovute allo stato di reclusione”. Al ricevimento della conseguente cartella di pagamento, il contribuente presentò istanza di autotutela, sostenendo l’illegittimità degli avvisi di accertamento che non avrebbero tenuto che egli, negli anni oggetto di recupero, era stato semplice intermediario agricolo, con percezione di una provvigione dell’1 per cento.
L’agenzia delle Entrate non si pronunciò in merito all’istanza. Da qui, il ricorso del contribuente in Ctp avverso il silenzio-rifiuto dell’ufficio alla richiesta di annullamento degli avvisi e della conseguente iscrizione a ruolo.
La Ctp di Brindisi ha deciso per l’inapplicabilità alla fattispecie esaminata dell’istituto del silenzio–rifiuto. Sulla questione – si legge nella sentenza – si erano già pronunciate le sezione unite della Cassazione (sentenze 16776/2005 e 7388/2007) laddove, in ordine al rifiuto dell’Amministrazione a procedere ad autotutela, i giudici hanno operato un distinguo tra il rifiuto espresso e il silenzio-rifiuto, affermando l’ammissibilità del ricorso contro il primo e negandola contro il secondo.
A tale riguardo, con la seconda delle citate pronunce, le Sezioni unite si erano così espresse: “nel giudizio instaurato contro il mero esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa. Ove l’atto di rifiuto dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’Amministrazione finanziaria dovrà adeguarsi a tale pronuncia. In difetto, potrà essere esperito il rimedio del ricorso in ottemperanza di cui all’art. 70 del D. Lgs. n. 546 del 1992…il carattere discrezionale del ricorso all’autotutela comporta, altresì, l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna previsione normativa specifica in materia”.
Fin qui la Suprema corte, al cui indirizzo il collegio di merito ha inteso uniformarsi in quanto, ha sostenuto, non vi è dubbio che la previsione di cui sopra non possa ritenersi esistente neppure oggi. Infatti, hanno proseguito i giudici, se è vero che l’atto di diniego espresso a esercitare l’autotutela possa ritenersi impugnabile e quindi farsi rientrare tra gli atti di cui all’articolo 19 del Dlgs 546/1992, per il carattere esclusivo della giurisdizione tributaria, la stessa cosa non può dirsi per il silenzio-rifiuto. La differenza sta nel fatto che, nel primo caso, la volontà dell’Amministrazione a non esercitare l’invocata autotutela è manifestata mediante un atto amministrativo il quale necessariamente deve essere motivato e, pur avendo il carattere della discrezionalità, può sempre essere sindacato dal giudice sotto il profilo della legittimità. Nel caso del silenzio-rifiuto, invece, non può dirsi la stessa cosa, perché manca una volontà espressa dell’Amministrazione finanziaria. Il rifiuto-tacito rientra tra gli atti impugnabili ma solo con riferimento a una istanza di restituzione di tributi, non in altri casi.
Né può ritenersi, ha spiegato la sentenza, che la mancata previsione normativa dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto a esercitare l’autotutela costituisca una lacuna di tutela giurisdizionale, perché così non è. Non può essere così per due motivi. In primo luogo perché, in base alla disciplina contenuta nell’articolo 2-quater del Dl 564/1994, l’Amministrazione finanziaria può procedere all’annullamento d’ufficio o alla revoca dei propri atti soltanto per il perseguimento di interessi pubblici e non a tutela di specifici interessi di parte. In secondo luogo perché l’impugnabilità del silenzio-rifiuto, nell’ambito dell’ordinamento tributario, è stata prevista, con carattere eccezionale, solo nell’ipotesi cui sopra si accennava (silenzio-rifiuto al rimborso di tributi e accessori).
I giudici, in conclusione, hanno ritenuto che non fosse loro consentito dare un’interpretazione difforme delle norme richiamate, e cioè tale da estendere l’impugnabilità anche all’ipotesi in esame del silenzio-rifiuto, che è fattispecie completamente diversa da quella legislativamente prevista.
Gabriella Petrone
pubblicato Giovedì 17 Luglio 2008
Silenzio rifiuto della P.A. ed istanza di riesame in autotutela
Consiglio di Stato , sez. V., decisione 10.10.2006 n° 6056
Nella decisione in commento, si ripropone il
dibattuto tema del silenzio rifiuto, con precipuo riferimento
all’inerzia dell’Amministrazione a fronte di una richiesta di riesame in
autotutela presentata da un privato.
Come noto, l’art. 2 della Legge n. 241/90 statuisce l’obbligo in capo alla P.A. di deliberare mediante provvedimento espresso, allorché il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza del privato ovvero debba essere iniziato d’ufficio. Tuttavia, nell’attività amministrativa, si verifica, a volte, che le istanze formulate dai privati non siano decise con atti espressi o non siano decise affatto. Sicché, il diritto positivo offre tre strumenti per ovviare all’inerzia della P.A. e ricondurne, nel contempo, l’operato, nell’alveo della trasparenza e della leale collaborazione con il privato: il silenzio assenso, il silenzio rigetto ed il silenzio inadempimento (o silenzio rifiuto). Nelle prime due ipotesi, il silenzio assume natura decisoria, rispettivamente, di accoglimento e di reiezione dell’istanza; nella terza ipotesi, invece, l’inerzia dell’Amministrazione dà luogo all’inadempimento dell’obbligo di provvedere.
In ogni caso, è prevista, dall’ordinamento, una particolare tutela giurisdizionale, a fronte del silenzio che non si traduca in un provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato: ai sensi dell’art. 21 bis della Legge n. 1034/71, siccome modificato dalla Legge n. 205/00, il silenzio è impugnabile davanti al Giudice Amministrativo il quale, accertata e ritenuta l’illegittimità dell’inerzia, ordina all’Amministrazione di provvedere entro un congruo termine, normalmente, non superiore a trenta giorni. Qualora la P.A. resti inadempiente oltre il detto termine, il G.A. nomina un Commissario ad acta che provveda in luogo della stessa.
Tanto premesso, veniamo alla vicenda posta all’attenzione dei giudici di Palazzo Spada. Un privato impugna, innanzi al TAR del Lazio, il silenzio serbato dal Comune di San Giorgio a Liri su una richiesta di riesame dell’istanza di rilascio di autorizzazione per passi carrabili. Il Tribunale dichiara inammissibile il ricorso, rilevando che la parte ricorrente non ha provveduto alla previa notificazione, al Comune di San Giorgio, di una diffida con contestuale assegnazione di un termine per provvedere.
La V Sezione del Consiglio di Stato ribalta il dictum espresso dai giudici di primo grado, affermando che a seguito delle modifiche apportate all’art. 2 della Legge n. 241/90, dalla Legge n. 15/05, il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione può essere proposto senza necessità di previa diffida. Peraltro - prosegue il Supremo Collegio - nel sistema previgente alle intervenute modificazioni della L. n. 241, la notifica della diffida, ai fini della formazione del silenzio impugnabile, non era sottoposta ad alcun termine decadenziale. Nel merito, viene ritenuto sussistente l’obbligo del Comune di pronunciarsi sulla richiesta di riesame, perché presentata in pendenza del termine per la proposizione del ricorso e quindi esente dall’intento di eludere l’intervenuta decadenza dall’impugnazione del precedente diniego disposto dall’Amministrazione. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 21 bis della Legge n. 1034/71, viene assegnato alla P.A. il termine di trenta giorni per emettere una pronuncia espressa sull’istanza di riesame non decisa a tempo debito.
Procedendo con ordine, la prima questione, affrontata dalla V Sezione, concerne l’obbligo (o meno) per il privato di far precedere alla proposizione del gravame, avverso l’inerzia dell’Amministrazione, la notificazione, ad essa, di una diffida ad adottare un provvedimento decisorio espresso. Sul punto, occorre rilevare che la diffida, alla stregua della formulazione dell’art. 2 della L. n. 241/90, precedente alla novella del 2005, era ritenuta occorrente ai fini della formazione del silenzio rifiuto, nel senso che quest’ultimo veniva ritenuto sussistente soltanto dopo la mancata assunzione, da parte dell’Amministrazione, di un atto deliberativo espresso, entro il termine assegnatole con la diffida. In sostanza, la giurisprudenza pressoché unanime, riteneva che in mancanza di diffida a provvedere, notificata dal privato alla P.A. a norma dell’art. 25 DPR 10.2.1957 n. 3, il silenzio rifiuto non potesse dirsi perfezionato e non fosse perciò impugnabile (cfr. ex multis Cons. St. Sez. V, 30.9.2005 n. 5036 – TAR Basilicata Potenza, 25.2.2005, n. 132 – TAR Emilia Romagna Bologna, Sez. I, 7.2.2005, n. 210 – TAR Puglia Bari, Sez. II, 26.8.2004, n. 3649). Evidentemente, il suesposto orientamento – facente leva sull’applicazione analogica, al rapporto organico, dell’art. 3 del DPR n. 3/57 recante il T.U. degli impiegati civili dello Stato – non può più avere seguito dopo le modificazioni intervenute sulla L. n. 241/90 la quale, espressamente, all’art. 2 siccome novellato, statuisce che non occorre (più) far precedere la diffida alla proposizione del ricorso avverso il silenzio.
Quindi, nella specie, il primo capo della decisione in rassegna sembra conformarsi pedissequamente e peraltro giustamente al dettato attuale dell’art. 2, della Legge n. 241/90: la parte ricorrente, in ragione dello ius superveniens, aveva la facoltà di impugnare il silenzio del Comune, senza far precedere al gravame alcuna diffida a provvedere.
Tuttavia, l’aspetto che rende la decisione in esame meritevole di nota risiede nel fatto che il silenzio, nella specie, investiva la peculiare istanza tendente al riesame di una richiesta (di autorizzazione) sulla quale era intervenuto un provvedimento espresso di diniego, rispetto al quale non era decorso il termine decadenziale per proporre impugnazione. Notoriamente, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’inerzia della P.A. possa integrare la fattispecie del silenzio rifiuto solo qualora sussista l’obbligo di provvedere il quale, nondimeno, manca laddove l’istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile (cfr. ex plurimis Cons. St. Sez. VI, 5.9.2005, n. 4504 – TAR Puglia Bari, Sez. III, 24.5.2004, n. 3141). Le ragioni di tale orientamento risiedono nel fatto che affermandosi un generalizzato obbligo, in capo all’Amministrazione, di rivalutare un proprio provvedimento anche quando rispetto ad esso siano decorsi i termini per proporre ricorso, sarebbe vulnerata l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti che hanno titolo in atti autoritativi ed inoltre resterebbe lettera morta il regime decadenziale dei termini per impugnare (cfr. TAR Puglia Bari, Sez. II, 2.3.2005 n. 908). Di contro, nella decisione in rassegna, il Supremo Collegio fa rilevare come la richiesta di riesame sia stata presentata dal privato in pendenza – e non invece dopo la scadenza - del termine per ricorrere avverso il precedente provvedimento di diniego. Pertanto, il silenzio rifiuto, nella fattispecie, viene ritenuto sussistente, con il rilievo che la richiesta di riesame non tende alla sostanziale - ed in ipotesi non consentita - riapertura dei termini per ricorrere.
Tuttavia, la soluzione adottata dal Consiglio di Stato non sembra ancorata ad una rigorosa applicazione dei princìpi sottesi all’istituto del silenzio. Infatti, la tutela radicata nel combinato disposto dell’art. 2 della Legge n. 241/90 e dell’art. 21 bis della L. 1034/71 presuppone che vi sia in capo alla P.A. un obbligo giuridico di provvedere. Ma la richiesta di riesame presentata dal privato, nella specie, tendeva ad instaurare un procedimento di secondo grado, ponendosi essa come un’istanza con cui il Comune di San Giorgio a Liri veniva sollecitato a rimuovere, in via di autotutela, il precedente diniego dell’autorizzazione relativa ai passi carrabili. Rebus sic stantibus, pare che non fosse ravvisabile, per la verità, un obbligo per il Comune di provvedere. Si consideri difatti che l’autotutela rientra in una potestà ampiamente discrezionale al cui esercizio l’Amministrazione non è mai obbligata (in tal senso Cons. St. Sez. IV, 20.6.2005, n. 3909 - Cons. St. Sez. IV, 10.11.2003, n. 7136). E per giunta, proprio perché la P.A. non è tenuta ad attivare il potere di autotutela, rispetto ad esso, la posizione giuridica sostanziale del privato non è di interesse legittimo, sibbene di mero interesse di fatto (cfr. Cons. St. Sez. VI, 19.12.2000, n. 6838).
In definitiva, nella specie, pare difficilmente sostenibile che il Comune di San Giorgio fosse tenuto a deliberare sulla richiesta di ritiro del precedente atto di diniego, essendo stato con essa sollecitato un potere (quello di autotutela decisoria appunto) per sua natura ampiamente facoltativo, per di più in mancanza di un correlativo interesse giuridicamente qualificato dell’istante. Come si è detto, in assenza di un obbligo di provvedere riconducibile all’art. 2 della Legge 241/90, non è configurabile il silenzio rifiuto. Ne deriva che la decisione in commento non aderisce in toto ai princìpi sottesi all’istituto del silenzio, giacché il Consiglio di Stato, ritenuta la sussistenza del silenzio rifiuto, assegna al Comune il termine per emettere un atto deliberativo, presupponendo quindi in capo alla P.A. un obbligo di provvedere. Obbligo, questo, che però sembra difficilmente riscontrabile nel procedimento di secondo grado (di autotutela ad istanza dell’interessato) nella specie instaurato, con la richiesta di riesame.
(Altalex, 6 novembre 2006. Nota di Pietro Chimisso)
Come noto, l’art. 2 della Legge n. 241/90 statuisce l’obbligo in capo alla P.A. di deliberare mediante provvedimento espresso, allorché il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza del privato ovvero debba essere iniziato d’ufficio. Tuttavia, nell’attività amministrativa, si verifica, a volte, che le istanze formulate dai privati non siano decise con atti espressi o non siano decise affatto. Sicché, il diritto positivo offre tre strumenti per ovviare all’inerzia della P.A. e ricondurne, nel contempo, l’operato, nell’alveo della trasparenza e della leale collaborazione con il privato: il silenzio assenso, il silenzio rigetto ed il silenzio inadempimento (o silenzio rifiuto). Nelle prime due ipotesi, il silenzio assume natura decisoria, rispettivamente, di accoglimento e di reiezione dell’istanza; nella terza ipotesi, invece, l’inerzia dell’Amministrazione dà luogo all’inadempimento dell’obbligo di provvedere.
In ogni caso, è prevista, dall’ordinamento, una particolare tutela giurisdizionale, a fronte del silenzio che non si traduca in un provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato: ai sensi dell’art. 21 bis della Legge n. 1034/71, siccome modificato dalla Legge n. 205/00, il silenzio è impugnabile davanti al Giudice Amministrativo il quale, accertata e ritenuta l’illegittimità dell’inerzia, ordina all’Amministrazione di provvedere entro un congruo termine, normalmente, non superiore a trenta giorni. Qualora la P.A. resti inadempiente oltre il detto termine, il G.A. nomina un Commissario ad acta che provveda in luogo della stessa.
Tanto premesso, veniamo alla vicenda posta all’attenzione dei giudici di Palazzo Spada. Un privato impugna, innanzi al TAR del Lazio, il silenzio serbato dal Comune di San Giorgio a Liri su una richiesta di riesame dell’istanza di rilascio di autorizzazione per passi carrabili. Il Tribunale dichiara inammissibile il ricorso, rilevando che la parte ricorrente non ha provveduto alla previa notificazione, al Comune di San Giorgio, di una diffida con contestuale assegnazione di un termine per provvedere.
La V Sezione del Consiglio di Stato ribalta il dictum espresso dai giudici di primo grado, affermando che a seguito delle modifiche apportate all’art. 2 della Legge n. 241/90, dalla Legge n. 15/05, il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione può essere proposto senza necessità di previa diffida. Peraltro - prosegue il Supremo Collegio - nel sistema previgente alle intervenute modificazioni della L. n. 241, la notifica della diffida, ai fini della formazione del silenzio impugnabile, non era sottoposta ad alcun termine decadenziale. Nel merito, viene ritenuto sussistente l’obbligo del Comune di pronunciarsi sulla richiesta di riesame, perché presentata in pendenza del termine per la proposizione del ricorso e quindi esente dall’intento di eludere l’intervenuta decadenza dall’impugnazione del precedente diniego disposto dall’Amministrazione. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 21 bis della Legge n. 1034/71, viene assegnato alla P.A. il termine di trenta giorni per emettere una pronuncia espressa sull’istanza di riesame non decisa a tempo debito.
Procedendo con ordine, la prima questione, affrontata dalla V Sezione, concerne l’obbligo (o meno) per il privato di far precedere alla proposizione del gravame, avverso l’inerzia dell’Amministrazione, la notificazione, ad essa, di una diffida ad adottare un provvedimento decisorio espresso. Sul punto, occorre rilevare che la diffida, alla stregua della formulazione dell’art. 2 della L. n. 241/90, precedente alla novella del 2005, era ritenuta occorrente ai fini della formazione del silenzio rifiuto, nel senso che quest’ultimo veniva ritenuto sussistente soltanto dopo la mancata assunzione, da parte dell’Amministrazione, di un atto deliberativo espresso, entro il termine assegnatole con la diffida. In sostanza, la giurisprudenza pressoché unanime, riteneva che in mancanza di diffida a provvedere, notificata dal privato alla P.A. a norma dell’art. 25 DPR 10.2.1957 n. 3, il silenzio rifiuto non potesse dirsi perfezionato e non fosse perciò impugnabile (cfr. ex multis Cons. St. Sez. V, 30.9.2005 n. 5036 – TAR Basilicata Potenza, 25.2.2005, n. 132 – TAR Emilia Romagna Bologna, Sez. I, 7.2.2005, n. 210 – TAR Puglia Bari, Sez. II, 26.8.2004, n. 3649). Evidentemente, il suesposto orientamento – facente leva sull’applicazione analogica, al rapporto organico, dell’art. 3 del DPR n. 3/57 recante il T.U. degli impiegati civili dello Stato – non può più avere seguito dopo le modificazioni intervenute sulla L. n. 241/90 la quale, espressamente, all’art. 2 siccome novellato, statuisce che non occorre (più) far precedere la diffida alla proposizione del ricorso avverso il silenzio.
Quindi, nella specie, il primo capo della decisione in rassegna sembra conformarsi pedissequamente e peraltro giustamente al dettato attuale dell’art. 2, della Legge n. 241/90: la parte ricorrente, in ragione dello ius superveniens, aveva la facoltà di impugnare il silenzio del Comune, senza far precedere al gravame alcuna diffida a provvedere.
Tuttavia, l’aspetto che rende la decisione in esame meritevole di nota risiede nel fatto che il silenzio, nella specie, investiva la peculiare istanza tendente al riesame di una richiesta (di autorizzazione) sulla quale era intervenuto un provvedimento espresso di diniego, rispetto al quale non era decorso il termine decadenziale per proporre impugnazione. Notoriamente, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’inerzia della P.A. possa integrare la fattispecie del silenzio rifiuto solo qualora sussista l’obbligo di provvedere il quale, nondimeno, manca laddove l’istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile (cfr. ex plurimis Cons. St. Sez. VI, 5.9.2005, n. 4504 – TAR Puglia Bari, Sez. III, 24.5.2004, n. 3141). Le ragioni di tale orientamento risiedono nel fatto che affermandosi un generalizzato obbligo, in capo all’Amministrazione, di rivalutare un proprio provvedimento anche quando rispetto ad esso siano decorsi i termini per proporre ricorso, sarebbe vulnerata l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti che hanno titolo in atti autoritativi ed inoltre resterebbe lettera morta il regime decadenziale dei termini per impugnare (cfr. TAR Puglia Bari, Sez. II, 2.3.2005 n. 908). Di contro, nella decisione in rassegna, il Supremo Collegio fa rilevare come la richiesta di riesame sia stata presentata dal privato in pendenza – e non invece dopo la scadenza - del termine per ricorrere avverso il precedente provvedimento di diniego. Pertanto, il silenzio rifiuto, nella fattispecie, viene ritenuto sussistente, con il rilievo che la richiesta di riesame non tende alla sostanziale - ed in ipotesi non consentita - riapertura dei termini per ricorrere.
Tuttavia, la soluzione adottata dal Consiglio di Stato non sembra ancorata ad una rigorosa applicazione dei princìpi sottesi all’istituto del silenzio. Infatti, la tutela radicata nel combinato disposto dell’art. 2 della Legge n. 241/90 e dell’art. 21 bis della L. 1034/71 presuppone che vi sia in capo alla P.A. un obbligo giuridico di provvedere. Ma la richiesta di riesame presentata dal privato, nella specie, tendeva ad instaurare un procedimento di secondo grado, ponendosi essa come un’istanza con cui il Comune di San Giorgio a Liri veniva sollecitato a rimuovere, in via di autotutela, il precedente diniego dell’autorizzazione relativa ai passi carrabili. Rebus sic stantibus, pare che non fosse ravvisabile, per la verità, un obbligo per il Comune di provvedere. Si consideri difatti che l’autotutela rientra in una potestà ampiamente discrezionale al cui esercizio l’Amministrazione non è mai obbligata (in tal senso Cons. St. Sez. IV, 20.6.2005, n. 3909 - Cons. St. Sez. IV, 10.11.2003, n. 7136). E per giunta, proprio perché la P.A. non è tenuta ad attivare il potere di autotutela, rispetto ad esso, la posizione giuridica sostanziale del privato non è di interesse legittimo, sibbene di mero interesse di fatto (cfr. Cons. St. Sez. VI, 19.12.2000, n. 6838).
In definitiva, nella specie, pare difficilmente sostenibile che il Comune di San Giorgio fosse tenuto a deliberare sulla richiesta di ritiro del precedente atto di diniego, essendo stato con essa sollecitato un potere (quello di autotutela decisoria appunto) per sua natura ampiamente facoltativo, per di più in mancanza di un correlativo interesse giuridicamente qualificato dell’istante. Come si è detto, in assenza di un obbligo di provvedere riconducibile all’art. 2 della Legge 241/90, non è configurabile il silenzio rifiuto. Ne deriva che la decisione in commento non aderisce in toto ai princìpi sottesi all’istituto del silenzio, giacché il Consiglio di Stato, ritenuta la sussistenza del silenzio rifiuto, assegna al Comune il termine per emettere un atto deliberativo, presupponendo quindi in capo alla P.A. un obbligo di provvedere. Obbligo, questo, che però sembra difficilmente riscontrabile nel procedimento di secondo grado (di autotutela ad istanza dell’interessato) nella specie instaurato, con la richiesta di riesame.
(Altalex, 6 novembre 2006. Nota di Pietro Chimisso)
Silenzio-rifiuto dell’amm.ne finanziaria all’istanza di annullamento in autotutela del contribuente: recenti posizioni giurisprudenziali
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’autotula nel
diritto tributario - 3. La situazione giuridica soggettiva del contribuente
innanzi all’istituto dell’autotutela tributaria.
1.
Premessa
L’istituto
dell’autotutela consiste nella potestà che l’ordinamento riconosce alla
Pubblica Amministrazione di procedere all’annullamento o revoca totale o
parziale, riforma o rettifica di un provvedimento illegittimo precedentemente
adottato; tale potestà, in altre parole, al fine di garantire il rispetto dei
principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dei pubblici uffici di
cui agli artt.97 e 98 Cost. ed il perseguimento dell’interesse pubblico,
consente di evitare conflitti potenziali o di risolvere controversie in corso
con i soggetti destinatari di un atto di cui si ravvisi l’illegittimità,
l’annullamento del quale avviene senza l’intervento degli organi
giurisdizionali competenti eventualmente aditi.
2.
L’autotula nel diritto tributario
Nell’ambito del diritto
tributario, l’istituto dell’autotutela è stato disciplinato dapprima con
l’art.68 del D.P.R. 27.03.1992 nr.287, abrogato dall’art.23, comma 1 lett. m)
nr.7 del D.P.R. 26.03. 2001 nr.107, in virtù del quale, a tutela dei diritti
del contribuente e della trasparenza dell’azione amministrativa, gli Uffici dell’Amministrazione
Finanziaria possono procedere all’annulamento totale o parziale di
provvedimenti riconosciuti illegittimi o infondati con atto motivato da
notificare al contribuente. L’attuale normativa di riferimento è da inquadrare
nell’art.2 quater della Legge 30.11.1994 nr.656, di conversione del D.L.
30.09.1994 nr.564, e nel relativo regolamento di esecuzione adottato con il
D.M. 11.02.1997 nr.37. L’art.2 quater della Legge nr.656/1994 prevede
testualmente che “Con decreti del Ministro delle
finanze sono indicati gli organi dell'Amministrazione finanziaria competenti
per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio o di revoca, anche in
pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o
infondati. Con gli stessi decreti sono definiti i criteri di economicità sulla
base dei quali si inizia o si abbandona l'attività dell'amministrazione.” Inoltre, la disposizione in esame prevede che nella
potestà di autotutela è ricompreso, altresì, il potere di disporre la
sospensione degli effetti dell’atto illegittimo oltre al fatto che l’istituto
di cui trattasi viene riconosciuto esperibile anche da parte degli enti locali
in riferimento ai tributi di rispettiva competenza.
Il regolamento di esecuzione di cui al D.M.
nr.37/1997 prevede, all’art.1, che l’organo competente ad esercitare il potere
di annullamento e di revoca o di rinuncia all'imposizione in caso di
autoaccertamento è riservato all'ufficio che ha emanato l'atto illegittimo o
infondato o, in caso di grave inerzia, alla Direzione regionale sovraordinata.
Il successivo art.2 delinea in maniera non esaustiva e tassativa le ipotesi di
annullamento d’ufficio o di rinuncia all’imposizione in caso di accertamento
disponendo che l’Amministrazione Finanziaria ha la potestà di annullare in
tutto o in parte, senza la necessità di una istanza di parte ed anche in
pendenza di giudizio o, altresì, in caso di non impugnabilità, quegli atti che
si ravvisano essere illegittimi poiché si è innanzi a: errore di persona;
evidente errore logico o di calcolo; errore sul presupposto dell'imposta;
doppia imposizione; mancata considerazione di pagamenti di imposta,
regolarmente eseguiti; mancanza di documentazione successivamente sanata, non
oltre i termini di decadenza; sussistenza dei requisiti per fruire di
deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati; errore
materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall'Amministrazione. Il
potere discrezionale di autotutela tributaria in analisi è limitato dallo
stesso legislatore attraverso l’ultimo comma dell’art.2 nella parte in cui
esclude il ricorso a tale istituto per quei motivi di diritto o di fatto
oggetto di sentenza passata in giudicato favorevole per l’Amministrazione
Finanziaria.
Nel caso in cui il provvedimento oggetto di autotutela sia
inerente ad imposte, sanzioni ed accessori per un importo pari o superiore a
516.456,90 Euro, l’esercizio di tale potestà da parte dell’Ufficio competente
ai sensi del già analizzato art.1 è subordinato al preventivo parere della
sovraordinata Direzione Regionale. L’ avvenuto ricorso a tale istituto deve
essere comunicato, oltre che all’organo giurisdizionale innanzi al quale sia
eventualmente pendente un ricorso avente ad oggetto il medesimo atto, anche al
contribuente e, in caso di annullamento disposto in sostituzione dalla
Direzione Regionale, all’Ufficio che ha emanato l’atto.
Dall’analisi
di numerosi studi posti in essere dalla dottrina in merito alla
qualificazione della situazione giuridica in cui versa il contribuente
innanzi all’istituto dell’autotutela tributaria, le posizioni risultano
essere discordanti in quanto, a coloro i quali affermano la sussistenza
in capo al cittadino della titolarietà di un diritto soggettivo[1],
si contrappongono i sostenitori di una tesi opposta in ragione della
quale trattasi della medesima posizione soggettiva alla quale consegue
la tutela che l’ordinamento giuridico accorda nei confronti di atti
discrezionali della Pubblica Amministrazione.[2]
In realtà, l’istituto dell’autotutela rappresenta una potestà
dell’Amministrazione rientrante nell’esercizio della c.d.
discrezionalità amministrativa[3],
in quanto tale potestà è riconosciuta e diretta nell’esclusivo
perseguimento dell’interesse pubblico, non rappresentando un ulteriore
grado di difesa del contribuente stesso. Quanto sopra, in ragione del
fatto che, come sottolineato dalla Circolare nr.198/S-2822-GCF-as del
5.08.1998 del Segretariato Generale- Ufficio per l’informazione
contribuente[4],
l’Ufficio ha il potere, ma non il dovere giuridico di ritirare l’atto
viziato e, pertanto, il contribuente, a sua vola, non ha un diritto
soggettivo a che l’Ufficio eserciti tale potere. Ex pluribus, la Circolare n. 3/22993 del 16 novembre 1999 della Direzione Regionale delle Entrate della Lombardia[5]
afferma che non sussiste a favore del contribuente nessun interesse
pretensivo nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria affinchè la
stessa eserciti il potere di autotutela su istanza di parte.Alla luce delle considerazioni de quibus, a parere
dello scrivente, in linea di principio, non è possibile sostenere che il
contribuente sia titolare di un diritto soggettivo in merito al ricorso
all’istituto in analisi da parte dell’Ufficio competente ma, allo
stesso tempo, qualora l’Amministrazione Finanziaria, su istanza di
parte, attivi il procedimento di valutazione della legittimità
dell’atto, sussiste un interesse legittimo del contribuente al che
l’organo procedente, nell’adozione del provvedimento positivo o di
diniego dell’esercizio dell’autotutela, rispetti le disposizioni ed i
principi vigenti in materia. In altre parole, l’oggetto della presente analisi deve
necessariamente spostarsi su un diverso aspetto, inerente non tanto la
tipolgia di posizione soggettiva vantata dal contribuente, quanto se, in
virtù dei principi vigenti, l’Amministrazione Finanziaria, a seguito di
istanza formulata ai sensi dell’art.5 del D.M. nr.37/1997, è tenuta a
pronunciarsi tramite apposito provvedimento positivo.Come sottolineato in precedenza, l’istituto dell’autotutela
rientra nella c.d. discrezionalità amministrativa ed è stato previsto e
disciplinato per il perseguimento dell’esclusivo interesse pubblico e
non per la tutela specifici interessi di parte, non costituendo,
pertanto, un ulteriore strumento di difesa del contribuente.[6]
Di conseguenza, a seguito di istanza, il contribuente non è certamente
titolare di un pieno diritto ad ottenere in via di autotutela
l’annullamento o la revoca dell’atto ma, nel caso l’Amministrazione
“adita” esprima la propria valutazione sulla legittimità dell’atto
tramite un provvedimento finale positivo o negativo, il privato è, in
tal caso, titolare di un interesse soggettivo[7] al che il provvedimento stesso sia conforme alle norme ed ai principi che lo regolano in astratto.In realtà, consistente parte della dottrina ritiene che se
l’Amministrazione, pur non avendone l’obbligo, abbia deciso di dare
avvio al procedimento, è di conseguenza tenuta a concludere lo stesso
tramite l’adozione di un provvedimento amministrativo positivo o
negativo in virtù di quanto previsto dall’art.2 della Legge nr.241/1990,
così come modificata dall’art.3, comma 6 bis del D.L. 14.03.2005 nr.35, convertito nella Legge 14.05.2005 nr.80, dall’art.10 bis della stessa Legge nr.241/1990, dall’art.21 bis della Legge 6.12.1971 nr.1034 e dall’art.7 della Legge nr.212/2000.In altre parole, si è sostenuto che “in presenza di
richiesta espressa del contribuente, l’Amministrazione ha l’obbligo di
avviare e concludere il procedimento e ciò in base ai principi generali
della legge sul procedimento amministrativo (L.n.241/1990, art.2), e in
ragione dei principi generali dello Statuto dei diritti del contribuente
(L.27 luglio 2000, n.212, art.7), in base ai quali l’Amministrazione
Finanziaria ha l’obbligo di rispondere e motivare la risposta”.[8] Le affermazioni di cui sopra derivano dal fatto che l’art.2 della Legge nr.241/1990 nell’attuale formulazione prevede che ove
il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba
essere iniziato d'ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di
concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso nei termini
indicati in uno dei regolamenti adottati ai sensi dell'articolo 17,
comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, o, in mancanza, entro
novanta giorni; salvo i casi di silenzio-assenso, il decorso dei termini
de quibus consente la proposizione di un ricorso avverso il silenzio-rifiuto ai sensi dell’art.21 bis della
Legge 6.12.1971 nr.1034, introdotto dall’art.2 della Legge nr.205/2000.
Inoltre, l’art.7 dello Statuto dei diritti del contribuente prevede in
capo all’Amministrazione Finanziaria l’obbligo di motivare i
provvedimenti adottati. In realtà, così come affermato dalla prassi
della stessa Amministrazione Finanziaria e come sostenuto da consolidata
giurisprudenza di legittimità, l’istituto dell’autotutela nel settore
tributario non prevede l’applicabilità della figura del silenzio-rifiuto
e in tal senso manca un’espressa volontà del legislatore che, solo nel
caso di silenzio-rifiuto all’istanza di rimborso di tributi e accessori,
ha previsto a carattere eccezionale la possibilità di
giurisdizionalizzare la pretesa tramite ricorso.[9]
Infatti, nella già analizzata Circolare nr.3/22993 del 1999 della
Direzione Regionale delle Entrate della Lombardia, se da una parte si
afferma la sussistenza del dovere “dovere di partecipare dell'esito
del riesame degli atti emanati la parte che ne ha chiesto
l'annullamento, comunicando l'eventuale accoglimento, totale o
parziale, ovvero il motivato diniego” in quanto, per motivi di
opportunità, di trasparenza e di correttezza nei confronti dei
contribuenti, è opportuno che gli uffici “anche nelle ipotesi di non
accoglimento delle istanze di parte per l'accertata insussistenza
delle ragioni addotte, avranno cura di comunicare agli
interessati l'esito dell'intervenuto riesame dell'atto
contestato enunciando, anche succintamente, i motivi del rigetto” ,
dall’altra viene chiaramente ribadito che non possono ritenersi operanti
istituti quali il silenzio-rifiuto o il silenzio-assenso, in quanto
l’autotutela non rappresenta un ulteriore grado di difesa del
contribuente. La Circolare nr.198/S-2822-GCF-as del 5.08.1998 del Segretariato Generale- Ufficio per l’informazione contribuente ribadisce che l’Ufficio “ha
il potere ma non il dovere giuridico di ritirare l'atto
viziato (mentre è certo che il contribuente, a sua volta, non ha un
diritto soggettivo a che l'ufficio eserciti tale potere)”. Comunque, il provvedimento de quo sottolinea
che il mancato esercizio dell’autotutela nei confronti di un atto
palesemente illegittimo, nel caso di pendenza di giudizio, può portare
alla condanna alle spese dell’amministrazione oltre al fatto che, come
previsto dall’art.1 del D.M. 37/1997, si può verificare, in presenza di
grave inerzia, il ricorso in sostituzione all’istituto in analisi da
parte della Direzione Regionale sovraordinata.In
conclusione, a differenza di quanto avviene per l’istanza di rimborso
dei tributi, sull’autotutela attivata dal contribuente non può
applicarsi l’istituto del silenzio-rifiuto in caso di mancata risposta
dell’Amministrazione. Tale interpretazione è ribadita, altresì, da
consolidata giurisprudenza in ragione della quale mentre l’atto di
diniego espresso a esercitare l’autotutela è oggetto di sindacato di
legittimità da parte del giudice trattandosi comunque di atto
discrezionale necessariamente motivato, non può verificarsi, in mancanza
di specifica e diversa disposizione normativa, un’ipotesi analoga per
il silenzio-rifiuto. Di particolare importanza risultano in materia due
sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza nr.7388
del 27.03.2007 e sentenza nr.16776 del 10.08.2005), recentemente
richiamate dalla sentenza nr.40 del 18.03.2008 della Commissione
Tributaria Provinciale di Brindisi, in ragione delle quali: “In tema
di contenzioso tributario, e con riferimento all'impugnazione degli atti
di rifiuto dell'esercizio del potere di autotutela da parte
dell'Amministrazione finanziaria, il sindacato del giudice deve
riguardare, ancor prima dell'esistenza dell'obbligazione tributaria, il
corretto esercizio del potere discrezionale dell'Amministrazione, nei
limiti e nei modi in cui esso è suscettibile di controllo
giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del giudice
all'Amministrazione in valutazioni discrezionali, né l'adozione
dell'atto di autotutela da parte del giudice tributario, ma solo la
verifica della legittimità del rifiuto dell'autotutela, in relazione
alle ragioni di rilevante interesse generale che, ai sensi dell'art.
2-quater del decreto-legge 20 settembre 1994, n. 564, convertito con
modificazioni dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell'art. 3 del
d.m. 11 febbraio 1997, n. 37, ne giustificano l'esercizio. Ove il
rifiuto dell'annullamento d'ufficio contenga una conferma della
fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal
giudice, l'Amministrazione è tenuta ad adeguarsi alla relativa
pronuncia, potendo altrimenti esperirsi il rimedio del ricorso per
ottemperanza
di cui all’art. 70 del D.Lgs. n. 546 del 1992....il carattere
discrezionale del ricorso all'autotutela comporta, altresì,
l'inapplicabilità dell'istituto del silenzio-rifiuto, non
esistendo, all'epoca dell'atto impugnato, alcuna previsione
normativa specifica in materia".La Commissione Tributaria
di Brindisi, pertanto, con la sentenza nr.40-2008 ribadisce quanto già
statuito dalla Corte di Cassazione affermando chiaramente che,
differentemente dall’istanza di rimborso dei tributi, sull’istanza di
autotutela, promossa dal contribuente al fine di ottenere l’annullamento
di atti impositivi al medesimo notificati, non può formarsi
provvedimento di silenzio-rifiuto laddove l’Amministrazione
finanziaria sia rimasta inerte con la conseguenza che il contribuente
non è ammesso a dedurre tale fatto giuridico davanti al giudice
tributario. In altre parole, riproponendo la tesi interpretativa
emergente dalla sentenza nr.7388/2007 delle SS.UU. della Corte di
Cassazione, la Commissione Tributaria distingue tra il rifiuto espresso e
il silenzio-rifiuto, affermando l'ammissibilità del ricorso contro il
primo e negandola contro il secondo. Quanto sopra in ragione del fatto
che “ se è vero, così come è stato ormai riconosciuto, che l'atto di
diniego espresso ad esercitare l'autotutela possa ritenersi
impugnabile e quindi farsi rientrare tra gli atti di cui all'ad. 19 del
D.Lgs. n. 546 del 1992, per il carattere esclusivo della giurisdizione
tributaria, la stessa cosa non può dirsi per il silenzio-rifiuto.”
FONTE:Nicola Monfreda
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